Cass. civ. Sez. II, Sent., 24-05-2012, n. 8272 Successione testamentaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1) La controversia ruota intorno all’eredità di O.M., nobiluomo (OMISSIS), olimpionico di vela nel (OMISSIS), figlio di M.E., morta nel (OMISSIS), coniugato con R.V. e fratello di O.G..

M. in vita gode della dimora familiare (OMISSIS), ricca di tesori d’arte raccolti nelle generazioni precedenti, nonchè di una casa a (OMISSIS) e di varie società con sede in (OMISSIS); muore nel (OMISSIS).

La vedova di O.M. è R.V., che mantiene la condizione patrimoniale del defunto, intrattiene normali rapporti di affinità con la sorella del marito, G., la quale muore nel (OMISSIS). R.V. muore nel (OMISSIS).

G. nel (OMISSIS) anni, ha adottato la figlia di un congiunto, O.J..

Alla morte di R.V., la sorella L. si proclama sua erede e quindi beneficiaria di tutti i beni goduti dalla de cuius. A contendersi il patrimonio O. e l’eredità di R.V. sono anche:

1) O.J., che rivendica i diritti ereditari della madre adottiva sul patrimonio rimasto indiviso con M. già dal tempo della morte della madre M..

2) la Provincia Don Orione, che vanta un testamento R. del 1999, nel quale risulta beneficiaria di alcuni monili e in cui si fa cenno al ricavato di altre vendite.

Verrà chiamato in causa anche il figlio di L., G. S.G., che vive per gran parte dell’anno all’estero.

La prima causa n. 1031-01 è avviata da J. nei confronti della Provincia Don Orione, che aveva accettato l’eredità R.; la seconda, n. 1069, è avviata da R.L. per chiedere il riconoscimento della qualità di erede universale di V., in forza del testamento del 1971 e per far constare che la Provincia Don Orione era solo legataria dei monili menzionati nel testamento del 1999.

Don Orione disconosce il testamento e la O. interviene nella seconda causa.

Le due cause vengono riunite.

La attrice O., in conclusioni, chiede di essere riconosciuta erede universale di G. e quindi di conseguire: il 75% dei beni contenuti in via (OMISSIS), nel frattempo venduti da Cristiès su iniziativa R.; l’87,5% delle partecipazioni societarie (OMISSIS).

Assume infatti che, essendo rimasto indiviso il patrimonio M. tra i fratelli M. e G. ed essendo succeduti a O.M. la vedova e la sorella, tali sono le proprie quote.

R.L. chiede che la successione di V. sia regolata secondo le previsioni di tre testamenti pubblicati nel 2000; nei confronti di J. che siano respinte le sue domande e dichiarata l’usucapione di tutti i beni posseduti da V.; in subordine la prescrizione del diritto di O.G. di accettare l’eredità, con declaratoria della estraneità di J. nei confronti della successione dei parenti dell’adottante.

1.1) Il tribunale di Chiavari con sentenza 18 novembre 2005 ha dichiarato che la Provincia Don Orione, di cui ha respinto le domande, era solo legataria della parure di gioielli, come richiesto da R.L..

Dato atto che la istanza di verificazione del testamento olografo del 1966 di O.M. era stata tardivamente introdotta, ha accolto la domanda di petizione ereditaria di J. relativa ai beni venduti all’asta e respinto le ulteriori domande di O.J. verso R.L. e Don Orione e le domande contrapposte svolte da R.L..

La Corte d’appello di Genova con sentenza 29 luglio 2009 ha preso atto della rinuncia della Provincia don Orione all’appello principale da essa proposto.

Ha dichiarato che R.L. era erede universale di V..

Ha rigettato la domanda di O.J. per la restituzione pro quota, dei beni mobili di via (OMISSIS).

Ha ritenuto che sia maturata tra il 1972 e il 1999 l’usucapione, in favore di parte R., del compendio mobiliare.

Ha rigettato l’appello incidentale di O.J. relativo alle quote azionarie.

1.2) O.J. con atto 13 novembre 2009 ha proposto ricorso per cassazione.

Ha svolto sette gruppi di censure, così riassumibili: motivi attinenti alla violazione delle regole del giusto processo e soprattutto alla ricusazione dei componenti del Collegio della Corte di appello.

Motivi concernenti la rinuncia dichiarata dalla Provincia don Orione.

Motivi attinenti l’accertamento della qualità di erede di R. V. in capo a R.L..

Motivi attinenti l’accertamento della qualità di erede di O. M. in capo alla sorella G. e quindi in capo a J., sua avente causa.

Motivi sul riconoscimento della comproprietà – a favore della ricorrente – del compendio di collezioni costituenti gli arredi della villa Od. – O..

Motivi sulle domande aventi ad oggetto le società (OMISSIS).

Motivo sulle spese processuali di consulenza.

R.L., la Provincia Religiosa Don Orione e G. S.G. hanno resistito con controricorso.

O. e R. hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

2) Primo e secondo motivo di ricorso concernono la violazione dell’art. 52 c.p.c., per la mancata sospensione del processo e comunque per la nullità della sentenza, in relazione alla mancata astensione dei giudici di appello denunciata con istanza di ricusazione del 17 luglio 2009, sulla quale la sentenza impugnata non si è pronunciata.

Le censure sono infondate, atteso che l’istanza, come si desume dal ricorso stesso, venne depositata dopo la decisione della causa, che risulta essere stata adottata nella camera di consiglio del 9 luglio 2009.

Pertanto la Corte d’appello non poteva nè doveva tenere conto di un’istanza giunta oltre il limite utile per far sorgere il suo dovere di esaminarla sotto qualsiasi forma.

2.1) Il terzo motivo assume che la nullità della sentenza deriverebbe anche dalle due precedenti istanze di ricusazione, che "dovevano essere accolte".

In narrativa di ricorso (pag. 34-35) si apprende che la prima istanza venne respinta da magistrati della medesima sezione di cui facevano parte i giudici ricusati e che il magistrato relatore aveva già conosciuto in altre occasioni di controversie civili instaurate da O.J., ragioni che non configurano alcuna illegittimità del provvedimento di rigetto.

Quanto alla seconda istanza non viene evidenziata alcuna specifica o fondata censura avverso la declaratoria di inammissibilità che fu resa dal Collegio. La Corte, stando al ricorso, giudicò infatti che il primo provvedimento copriva "il dedotto e il deducibile "in relazione all’ipotizzata ricusazione ex art. 51 c.p.c., n. 3".

La narrativa di ricorso espone che l’istanza si fondava su fatti precedenti ma appresi dall’istante successivamente, ma ciò non dimostra, come ivi si sostiene, che le premesse enunciate fossero errate, giacchè la ratio decidendi dell’inammissibilità riguardava anche i profili "deducibili", cioè fatti preesistenti l’istanza respinta.

La breve articolazione della censura lamenta genericamente e apoditticamente la "palese ingiustizia" della soluzione adottata. Il difetto di specificità della critica la rende manifestamente infondata.

2.2.) Anche la questione preliminare di cui al quarto motivo è infondata. Essa si riferisce alla ritualità della procura alle liti rilasciata da G.S.G., impugnata con querela di falso e sostituita da nuova costituzione, con comparsa del 24 marzo 2006.

La ricorrente lamenta nullità della sentenza ex art. 101 c.p.c., perchè la Corte d’appello non le avrebbe dato tempo di valutare "ogni decisione in merito alla nuova costituzione" e non ne avrebbe verificato la validità. Aggiunge che "probabilmente" era ed è falsa "anche la seconda procura".

Il rilievo non ha pregio, perchè in primo luogo la Corte d’appello ha discusso della posizione di G.S. considerandolo ritualmente costituito; in secondo luogo tra la data della seconda costituzione e quella dell’udienza collegiale sono intercorsi tre anni e alcune udienze, ditalchè non è neppure concepibile una violazione del contraddittorio per mancata concessione di uno specifico termine per controdedurre circa la costituzione in giudizio del suddetto, sussistendo ampia concreta possibilità di dispiegare puntuali deduzioni in proposito, deduzioni, a tacer d’altro, mancate anche in questa sede, in cui si allude a ipotetici vizi dell’atto.

2.3) In via preliminare è pure denunciato (violazione degli artt. 112, 341 e 329 c.p.c.) il mancato rilievo dell’acquiescenza che sarebbe stata prestata dalla R. alla sentenza, per lei sfavorevole, resa dal tribunale di Chiavari.

La censura è inammissibile, perchè la ricorrente non indica specificamente in quali termini e in quali atti fosse stata sollevata siffatta eccezione (Cass 978/07; SEz Un. 11730/10).

Parte R. ha rilevato che a fronte di una generica eccezione di inammissibilità del gravame, solo in comparsa conclusionale, e quindi tardivamente, l’odierna ricorrente ha sviluppato l’argomentazione oggi riproposta.

Il rilievo coglie nel segno, giacchè il ricorso genericamente allude all’aver "sempre eccepito l’acquiescenza trattandone ampiamente, in sede di conclusionali e repliche". 3) Il gruppo di motivi che riguarda l’inefficacia della rinuncia effettuata dalla Provincia religiosa Don Orione è parimente privo di fondamento.

Con il primo (numerato sub 2.1) parte ricorrente sostiene che, vertendosi in materia di diritti indisponibili, come l’acquisto della qualità di erede – non sarebbe consentito rinunciare (alla domanda o) agli atti del giudizio in cui sia discussa l’attribuzione di tale qualità.

Con il secondo deduce che la O. avesse interesse alla prosecuzione dell’appello e che pertanto fosse indispensabile la di lei accettazione della rinuncia.

Con il terzo che sarebbero stati violati gli artt. 83 e 84 c.p.c., in relazione al canone 638 c.j.c., per carenza dei poteri rappresentativi e delle autorizzazioni necessarie alla rinuncia all’impugnazione.

Indipendentemente dalla validità della tesi riassunta sub 1, è sufficiente qui confermare due delle rationes decidendi che hanno condotto la Corte d’appello a rigettare le questioni riproposte in questa sede e succintamente riassunte.

In primo luogo va ribadito che la rinuncia all’azione, diversamente dalla rinuncia agli atti del giudizio, non richiede l’accettazione della controparte, estingue l’azione e determina la cessazione della materia del contendere (Cass 18255/04; Cass. 23749/11). Peraltro è stato utilmente osservato dalla difesa dell’Istituto che la Provincia Don Orione non aveva spiegato domande nei confronti della O., che non era quindi sua controparte in relazione alle pretese inizialmente fatte valere e rinunciate.

In secondo luogo va rilevato che la Corte d’appello ha affermato che ove non sussistesse la idoneità della rinuncia all’appello, per carenza del potere in capo al legale rappresentante della provincia Religiosa, non potrebbe neanche esistere il potere di promuovere l’impugnazione in capo a questo soggetto.

Parte ricorrente dedica il terzo motivo all’illustrazione della differenza tra la proposizione di un’impugnazione e la rinuncia al diritto azionato che l’abbandono all’impugnazione comporta.

In tal modo però sfugge all’odierno motivo di ricorso un profilo decisivo e assorbente della motivazione: la Corte d’appello ha affermato che, se il legale rappresentante non avesse avuto il potere di rinunciare, sarebbe stato anche carente del valido potere di promuovere la partecipazione al giudizio di primo grado, senza il quale, come è ovvio, non vi sarebbe materia per discutere della rinuncia all’impugnazione.

Orbene, questo profilo non è stato censurato, con la conseguenza che la decisione in ordine alla validità della rinuncia resta comunque sufficientemente sorretta, indipendentemente dall’esito delle altre deduzioni svolte in ricorso.

4) Dal rigetto del secondo gruppo di motivi discende la inammissibilità, per irrilevanza, del primo motivo del terzo gruppo di censure, motivo che concerneva la asserita necessità di statuire sulla qualità di erede dell’Ente religioso, in conseguenza della invalidità della relativa rinuncia. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere R.L. erede di O.R.V. sulla base del testamento del 1971 e che a tal fine avesse proposto appello sul punto.

La censura è infondata, giacchè la Corte d’appello ha interpretato la domanda citando testualmente la parte delle conclusioni di appello in cui il gravame si riferiva al testamento del 1971. Invano parte ricorrente obietta che sarebbe stato valorizzato un inciso irrilevante e che nella trattazione da pag. 13 a 15 dell’atto di appello la R. si sarebbe riferita al solo testamento del 1999.

Va in contrario osservato: a) che trattavasi di questione di interpretazione della domanda, – demandata istituzionalmente al giudice del merito e non denunciatale in Cassazione se congruamente motivata (Cass. 15643/03; 3538/05)- ditalchè doveva essere censurata non con riferimento e secondo le tecniche dell’invocato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, ma criticando convenientemente la motivazione. b) che il riferimento all’atto di appello, esaminato per verificare la congruità del riferimento stesso, è incompleto, atteso che alla pag. 12 dell’atto la R. aveva specificato che in corso di causa, e particolarmente in conclusioni, essa aveva chiesto che l’eredità le fosse riconosciuta "in conformità ai tre testamenti prodotti", così ricomprendendo anche quello del 1971. Pertanto anche riguardata, ove possibile, sotto gli altri profili di cui all’art. 360 c.p.c., la censura è priva di pregio.

4.1) Gli altri motivi del terzo gruppo di censure attengono all’accertamento della qualità di erede della de cuius in capo a R.L..

I motivi da 3.3 a 3.6 riguardano la delazione dell’eredità sulla base del testamento olografo del 1971, di cui la O. afferma la validità dell’avvenuto disconoscimento (3.3); l’efficacia del disconoscimento effettuato dalla Provincia Don Orione (3.4) indipendentemente dalla sua successiva rinuncia all’appello quindi alla domanda di accertamento della qualità di erede; la tardività dell’istanza di verificazione proposta da R.L. (3.5); la nullità della disposizione testamentaria in relazione al disposto degli artt. 634, 647 e 692 c.c.. (3.6).

Il motivo 3.5 è infondato; con esso la O. lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto tempestiva l’istanza di verificazione del testamento del 1971. La Corte di appello ha ritenuto che tale istanza non richiede forme sacramentali e che era stata idoneamente (e quindi tempestivamente) sollevata, non richiedendo forme sacramentali, in considerazione del chiaro permanere della volontà della parte R. di valersi del testamento, evincibile dalle sue difese e dal dipanarsi istruttorio della causa, con l’ammissione della consulenza.

Tale ricostruzione si fa carico quindi della problematica qui riproposta e la risolve con apprezzamento incensurabile, in quanto coerente con la giurisprudenza di questa Corte (art. 360 bis c.p.c.).

Giova ricordare in proposito l’insegnamento in forza del quale l’istanza di verificazione della scrittura privata disconosciuta può essere anche implicita, come quando si insista per l’accoglimento della pretesa presupponente l’autenticità del documento e non esige la formale apertura di un procedimento incidentale, nè l’assunzione di specifiche prove, quando gli elementi già acquisiti o la situazione processuale siano ritenuti sufficienti per una pronuncia al riguardo (Cass. 13258/06). Restano pertanto assorbiti i due motivi precedenti.

4.2) Quanto al mancato rilievo d’ufficio della nullità del testamento, che deriverebbe dal non aver la Corte colto nelle disposizioni testamentarie una condizione di reciprocità o un onere illecito o una sostituzione fedecommissaria nulla, basti rilevare che le prime due ipotesi, che erano state fatte valere inizialmente dalla Provincia don Orione (ricorso pag. 84), sono state abbandonate con la rinuncia all’appello.

La terza consiste in una mera congettura interpretativa circa un’espressione testamentaria rituale di rispetto e convenienza, poichè allude al dovere dell’erede di render conto alla cognata G.; l’espressione è però rivolta all’esecutore testamentario, al fine di evitare contrasti nell’ipotesi di sopravvivenza del marito: dunque si è in presenza di frase priva di qualsiasi portata rilevante ex art. 692 c.c..

A tacer d’altri profili pertinenti, trattasi di tre ipotesi meramente congetturali, nemmeno fatte valere direttamente dalla O., che, per la loro inconsistenza, non potevano certo fondare un dovere di rilievo officioso di nullità dell’atto da parte del giudice di appello.

Manifestamente infondata è anche la censura sub 3.7, concernente una presunta indegnità a succedere di R.L. per occultamento e probabile distruzione di un ultimo testamento di R.V., adombrata dalla Provincia Don Orione.

Non è indicato in ricorso su quali risultanze dovesse fondarsi simile evenienza e quindi come potesse sorgere, anche in questo caso, il dovere di rilievo officioso della cui omissione la ricorrente si duole.

Il rigetto di queste censure, che miravamo a inficiare i fondamento testamentario della qualità di erede di R.V., rende superfluo l’esame del motivo 3.8., afferente il secondo concorrente titolo che secondo la Corte d’appello ne fonda la legittimazione a succedere alla de cuius, cioè l’esserne "unica erede legittima, in quanto unica sorella, morta senza lasciare nè coniuge, nè prole, nè genitori nè altri ascendenti". 5) Il quarto gruppo di censure attiene al riconoscimento della qualità di erede di O.M. in capo a O.G., dante causa dell’odierna ricorrente J..

La problematica, dettagliatamente affrontata dalla Corte d’appello di Genova per accogliere, sul punto, l’appello proposto dalla R., risulta assorbita, come la Corte stessa ha rilevato (pag 29) dalle conclusioni raggiunte in ordine all’avvenuta usucapione dei beni mobili contenuti nella villa di via (OMISSIS). La controversa qualità di erede in capo a G., in relazione a un testamento del 1966, si risolve infatti nell’individuare la estensione della quota di beni mobili che spetterebbero a J. in forza di tale linea successoria.

Mette conto comunque, anche in vista del sesto gruppo di motivi di ricorso, osservare che le censure sono infondate. Quanto alla prima (4.1), che mira ad affermare la validità del disconoscimento del testamento 24.11.1966 operato da O.J., bene ha fatto la Corte d’appello a ritenere che tale testamento doveva essere considerato alla stregua di documento proveniente da terzi, contestabile solo con la querela di falso.

La statuizione è conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 16362/03), che risulta ora confermata alle Sezioni Unite (Su 15169/10) le quali, pur rivedendo l’orientamento precedente in ordine alle scritture provenienti da terzi, hanno ribadito che deve riservarsi diverso trattamento a quelle (come il testamento olografo) la cui natura conferisce loro una incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso onde contestarne l’autenticità.

Ne consegue l’assorbimento della successiva censura (motivo 4.2) relativa alla tardività della istanza di verificazione connessa al disconoscimento.

Inconferente è poi la terza, che attiene alla documentazione comprovante la successione a O.M., in pari quota, della moglie V. R. e della sorella O.G.. Trattasi di argomentazioni (rilevanza di denunce catastali) che possono assumere valore significativo solo in ordine alla contesa sull’usucapione, ma che non sono decisive per dimostrare la qualità rivendicata.

6) Il quinto gruppo di censure riguarda il riconoscimento della comproprietà – a favore della ricorrente – del compendio di collezioni costituenti gli arredi della villa Od. – O.. La Corte d’appello con meticolosa analisi, distinta in 24 punti, ha indicato le ragioni che la portavano ad affermare: a)che la O. non aveva provato che nel (OMISSIS), allo morte di G., fossero compresi nell’asse ereditario i beni mobili controversi; b) l’avvenuta usucapione i beni della villa già in capo a V. R., maturata quanto meno tra il (OMISSIS) (morte di M.) e il 1999; c) l’esclusione di ogni diritto di O.J. sull’eredità contesa.

6.1) La difesa della ricorrente mira in premessa a sostenere: che era onere probatorio della R. dimostrare un atto di interversione del possesso e il godimento esclusivo dei beni comuni; b) che bastava alle proprie ragioni dimostrare la propria qualità di erede di E. M., madre di O.G. e la sussistenza dei beni alla morte di quest’ultima.

Sul punto giova subito precisare che secondo la giurisprudenza di questa Corte, di cui parte ricorrente si è peraltro dichiarata consapevole, "il coerede che dopo la morte del "de cuius" sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità’ di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus"(Cass. 7221/09; 12775/08).

Parte ricorrente invano evidenzia (motivo 5.1) che la proprietà originaria (nel 1957 era comune ai fratelli O. e che la R. doveva dimostrare un atto di interversione e invano lamenta violazione di norme in tema di prova (artt 115 e 116 c.p.c., artt. 2727, 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), con riferimento all’utilizzo esclusivo dei beni della villa da parte dei coniugi O. – R..

Va ripetuto, con riguardo all’onere della prova sulla proprietà dei beni, che il riferimento della Corte d’appello è al momento della morte di G., (OMISSIS), non al 1957; il convincimento è stato fondato sul fatto (punto O della motivazione) che l’avvenuta suddivisione dei beni mobili tra i due fratelli doveva essere intervenuta da gran tempo, se nessuno dei due ( M. morto nel (OMISSIS), ma soprattutto G., che non era nel possesso di essi e che secondo il ricorso ne sarebbe stata proprietaria per il 75%) nei propri testamenti aveva fatto cenno al compendio immobiliare di immenso valore contenuto nella villa.

Va inoltre evidenziato che determinante e assorbente è comunque il convincimento raggiunto della Corte in ordine all’avvenuta usucapione, questione che toglie rilevanza ad ogni deduzione circa l’onere della prova.

6.2) Ciò posto, la motivazione della sentenza impugnata risulta argomentata e incensurabile, perchè congrua e logica sotto ogni aspetto.

Non è intaccata dai rilievi svolti sub 5.2, che attengono all’effettivo uso dell’abitazione di via (OMISSIS) da parte de coniugi O.: le risultanze circa la residenza anagrafica in (OMISSIS) di R.V., riportate nei documenti indicati nel motivo, nulla tolgono alla circostanza, reiteratameli te emergente dalla sentenza, che quella fosse la effettiva dimora principale della R..

Nè rilevano le riflessioni (5.3 e 5.4) sulla possibilità che la comunione si prolunghi indefinitamente. A fronte delle molte circostanze analizzate, che conferiscono sostanza all’avvenuta usucapione e alla avvenuta divisione a poco vale insistere sulla non necessità che fosse la O. a dimostrare che non vi era stato scioglimento della comunione, condizione originaria superata da condotte inequivocabilmente provate e militanti nel senso voluto dalla Corte di appello.

Era infatti sufficiente il godimento esclusivo, senza necessità di provare un atto di interversione, praticamente impossibile per chi per decenni continui a godere degli arredi della propria dimora, in assenza di alcun elemento fattuale o anche una richiesta o un significativo comportamento di segno inequivocabilmente contrario – almeno negli ultimi venti anni – (risale ai primi anni 70 il prelievo consensuale da parte di O.G. di un mobile e di alcune vele del campione olimpionico per farne dono a J. e famiglia).

6.3) Infondatamente, per giustificare il rispetto verso la condizione di possesso altrui, si sostiene che gli arredi costituissero, in senso tecnico, una universalità di beni mobili. Tale accertamento non risulta dalla sentenza, nè consta che sia stato oggetto di dibattito processuale. In ogni caso il valore di questa affermazione è sempre teso a ribadire di chi era onere provare la proprietà dei beni, questione risolta dalla riaffermata circostanza che la contesa riguarda i beni oggetto dell’arredo e che su di essi, singolarmente e complessivamente, è maturata l’usucapione.

6.4) Incensurabile, in quanto logica e plausibile, è la valutazione delle testimonianze discusse sub 5.6, riferite a comportamenti (una discussione su spostamento mobili avvenuta nel 1965-66) irrilevanti a fronte della anteriorità, evidenziata in sentenza, circa il tempo utile all’usucapione.

E’ anzi possibile rilevare che la valutazione è quanto mai congrua in relazione al fatto che non sono emersi successivi analoghi episodi, il che si rileva, senza in alcun modo negare l’onere della prova dell’usucapione in capo alla R., per evidenziare come l’assenza di risultanze contrarie sia di portata imponente in relazione al valore dei beni e la lunghezza del tempo, si da circondare di attendibilità la valutazione dei giudici di merito, che ne hanno fatto buon uso.

Si scontra con questi rilievi anche la rilevanza che il motivo 5.7 vorrebbe dare al dono del 1972 di una bussola e un gioco di vele, di cui si è già detto. Circostanze marginali e lontane nel tempo, con tutta evidenza prive di portata decisiva, come è richiesto in sede di legittimità per denunciare violazione di legge circa le norme invocate (ancora artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2727, 2729 c.c. e art. 2697 c.c.), censure che si risolvono in denunce di vizi motivazionali.

Queste considerazioni valgono anche per il motivo successivo, che insiste sulla pretesa inversione dell’onere della prova e sul valore dei pochi beni appresi da G. in tempi remoti. Nè risulta illogico il rilievo dato al silenzio del testamento del 1966 in ordine alla destinazione dei beni che la O. vorrebbe comuni. Si tratta di uno dei tanti argomenti presuntivi legittimamente utilizzati per costruire il convincimento circa la esclusiva proprietà in capo ai coniugi O. R., quantomeno maturata per usucapione, ma verosimilmente, si è ritenuto, con atto non documentabile dopo tanto tempo, di tutto il compendio immobiliare.

Parte ricorrente vorrebbe che il proprio comportamento fosse qualificato come bonaria tolleranza (5.10), e critica che la Corte abbia dato rilevanza al fatto che per undici anni (dal 1972 al 1983) O.G. non abbia avviato alcuna pretesa circa il possesso dell’ingente patrimonio, ma ancora una volta la censura manifesta solo un modo alternativo di valutare una realtà di fatto e non certo una violazione di legge.

La sentenza ha valorizzato un insieme di comportamenti e di fatti che ha accuratamente descritto; ha indicato alcuni elementi più rilevanti, altri meno probanti, ma non si può negare che anche in questo caso la scelta sia logica e coerente. E’ più plausibile la tesi accolta in sentenza, che non quella di una mera tolleranza del possesso altrui, relativa a beni così ingenti e lasciati per tanto tempo a una cognata.

6.5) Il ricorso sostiene che la O. non doveva preoccuparsi della prova futura del proprio diritto (5.11); non è così: la possibilità che maturasse l’usucapione a fronte di un pacifico ed esclusivo possesso protratto per tanti anni, nonostante tre successioni ereditarie ( M., O.M., poi G. O.) sussisteva e non avrebbe dovuto sfuggire nè a quest’ultima, nè alla di lei figlia adottiva. Ciò valeva soprattutto con riguardo a beni mobili, privi, ha detto la Corte con opportuno spunto discorsivo, di etichetta attributiva di proprietà.

Il motivo si spinge perfino a contestare questa considerazione e indica a riprova l’esistenza di due foto e alcune lettere di G. quali effetti personali. Ancora una volta la pochezza, quantitativa e qualitativa, del rilievo, a petto della consistenza enormemente maggiore del compendio, ridonda a favore dell’apprezzamento di merito svolto dalla Corte di appello.

Non vi può essere violazione di legge neppure con riguardo (censura 5.12) al rilievo dato nei punti l, m, n, o della sentenza, sempre relativamente al valore del comportamento silente dei fratelli O..

Se ne è già scritto sopra : rimane da aggiungere che improprio appare, per questo come per successivi e precedenti motivi, il tentativo di censurare un apprezzamento di fatto, congiunto a un insieme coerente di altre valutazioni, con la via della censura ex art. 360, n. 3; la Corte d’appello ha valutato questi comportamenti e sebbene essi non fossero in astratto inequivocabili (un mancato testamento non è certo tale in ordine all’essere o meno proprietari di un bene) ha dato loro un senso sia intrinseco (l’anomalia della mancata disposizione di beni di grande valore, asseritamente propri per la maggior parte, ma mai detenuti), sia connesso ad altri elementi. Non v’è materia per dirsi che siano state violate le norme invocate, soprattutto se si ha di mira il fatto che il titolo opposto a chi rimaneva silente era l’usucapione nel frattempo maturata a favore di chi esercitava il possesso.

Cadono in questi modi anche i motivi da 5.13 a 5.15 relativi alla condotta silente assunta anche da O.J..

6.6) I buoni rapporti tra le due congiunte e l’intervento della defunta R. in favore dell’iscrizione del figlio di J. O. allo Yacht club nulla modificano circa la possibilità di valorizzare in senso coerente con l’avvenuta usucapione il comportamento silente della figlia adottiva di G.. E compatibile, anzi rafforzativa della tesi accolta è l’interpretazione della testimonianza del figlio della ricorrente di cui al punto S della motivazione.

Non lede alcuna "norma generale" affermare, come ha fatto la Corte, che se solo nel 2000, come testimoniato, la ricorrente incaricò il figlio di fare ricerche sull’asse ereditario, ciò fosse sintomo di assenza di consapevolezza (per 17 anni) di essere comproprietaria dei beni: il che non dimostra di per sè l’usucapione, ma contribuisce molto, come è stato detto, a far credere che pacificamente e ininterrottamente già da molto tempo prima la R. e il defunto O.M. possedessero indisturbati la villa e il suo contenuto.

6.7) Irrilevante è poi il denunciato modesto errore di cui al motivo 5.16: non erano parte dell’arredo della villa, ma della casa di (OMISSIS) i libri di cui la R. aveva disposto per testamento:

la circostanza non inficia la complessiva valutazione di merito.

6.8) Quanto al motivo 5.17, valgono per respingerlo, poichè esso ribadisce argomenti in tema di onere probatorio attinenti i presupposti dell’usucapione, i rilievi già svolti sub 6.1.

Le stesse e le ulteriori argomentazioni svolte valgono a rendere vano il motivo successivo, sempre concernente i limiti della prova richiedibile a parte O..

E’ poi da rigettare l’ultima censura di questo paragrafo, che riguarda il capo della sentenza di primo grado con cui era stata ordinata l’inclusione dei diritti di O.J., riconosciuti in quella sentenza, nell’inventario dell’eredità beneficiata di R. V..

La O. afferma che detto capo di sentenza è passato in giudicato per difetto di impugnazione, tesi vanificata dal rilievo opposto della parte controricorrente R..

La formazione della cosa giudicata per mancata impugnazione su un determinato capo della sentenza investita dal gravame, può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di impugnazione, perchè fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno, mentre, invece, non può verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove quest’ultima sia oggetto del gravame (Cass. 4363/09).

Lo stretto collegamento tra l’impugnazione in punto di usucapione e l’incompatibile accertamento di un credito attinente il valore degli stessi beni (usucapiti e) venduti all’asta dall’erede R. esclude che si sia formato il giudicato di cui alla censura (Cass. 4934/10).

7) Il sesto gruppo di censure si concentra sulle domande aventi ad oggetto le società (OMISSIS).

Esso muove dalla decisiva premessa del:’accertamento della qualità di erede di O.M. in capo a O.G., premessa rivelatasi infondata in forza di quanto osservato sub 5) della odierna motivazione (con effetto anche sulle deduzioni di cui ai motivi successivi, v. p. es. il motivo 6.5 pag. 182). Va aggiunto, per completezza, che l’inesistenza di diritti di O.G. su detti beni azionari, peraltro mai con certezza identificati, è stata sancita, questa volta concordemente, sia dal tribunale che dalla Corte d’appello. Quest’ultima ha ripetuto che conti e movimenti di beni concentrati in (OMISSIS) sin dal 1962 facevano capo al solo O.M., senza che G., asseritamente comproprietaria ne avesse mai potuto disporre o vantato il possesso.

Parte ricorrente deduce che secondo il diritto svizzero, che reputa applicabile a questi beni, non è ipotizzabile l’usucapione di questi beni, ma solo la prescrizione acquisitiva quinquennale fondata sulla buona fede, dimostrata dal possessore.

La questione è nuova e poichè implica una accertamento di fatto (l’esistenza della buona fede), non è rilevabile in sede di legittimità. Vale invece a confortare implicitamente che di questi beni non vi fosse traccia nel patrimonio di G. a seguito delle remote movimentazioni rintracciate.

La motivazione dei giudici di merito è anche corretta nel rigettare la pretesa di sospensione del giudizio in attesa di "rogatorie" che sarebbero state avviate in sede di volontaria giurisdizione per accertare esistenza e vicende di queste entità patrimoniali. Se attività istruttoria v’era da compiere per stabilire la consistenza ereditaria, la sede propria era questa causa, con i vincoli istruttori che le erano propri, essendo del tutto infondata la pretesa di ammettere un’istruttoria parallela, non certo dovuta officiosamente, posto che la prova della consistenza ereditaria, cioè dell’appartenenza del bene all’asse ereditario al momento dell’apertura della successione, deve essere data da chi agisce per la petitio (Cass. 5304/84 e utilmente Cass. 3181/11).

Queste considerazioni travolgono le censure da 6.3. a 6.5 che, al cuore, mirano ad affermare che era la Corte d’appello a dover verificare d’ufficio (ricorso pag. 180) eventuali passaggi azionari e la sorte della proprietà di queste azioni (con il relativo patrimonio societario) di cui da circa trenta – quaranta anni G. O. non aveva disponibilità.

Anche la censura sub 6.6 non merita accoglimento: concerne la proprietà di una villa in (OMISSIS) che era intestata prima a una società (OMISSIS) e che era stata alienata a R.V.. La Corte d’appello ha rilevato che bene aveva fatto il primo giudice ad escludere che il bene facesse parte dell’eredità di G., posto che sin dal 1976 la società (OMISSIS) Lark Etablissement l’aveva alienata a R.V. e non era stata rinvenuta nè una controdichiarazione nè altro elemento idoneo a inficiare gli effetti di questo rogito e la conseguente persistente comproprietà di O.G..

Il ricorso deduce che non trattasi di simulazione, ma di negozio fiduciario che le azioniste vollero per motivi fiscali, risalenti alla L. n. 159 del 1976, attestati dal commercialista assunto quale testimone. Non emerge dal nucleo della deposizione, per quanto dedotto in ricorso, che vi sia stata interferenza di O.G. nella scelta di alienare alla sola R. il bene ed è congrua e logica la deduzione che in assenza di prova del titolo che valesse a sconfessare il valore giuridico di quella vendita, ha negato che il bene fosse riferibile alla madre adottiva di O.J..

Non si è discusso in fase di appello, per quanto consta dalla sentenza, di simulazione o di negozio fiduciario, ma della necessaria prova di proprietà comune nel 1976 e di permanere di essa "in contrasto con risultanze di prova scritta". Tale valutazioni non è scalfita dalle ragioni svolte in ordine alla controdichiarazione, indicata in sentenza come possibile mancato elemento di prova che avrebbe potuto superare l’atto del 1976. 8) Quanto all’ultimo gruppo di censure, parte ricorrente lamenta infondatamente che siano state compensate le spese del giudizio di appello tra la rinunciante Provincia Don Orione e la O.. In ordine alla validità della rinuncia alla domanda formulata dalla Provincia è sorta controversia, davanti al giudice di appello, a seguito della deduzione di parte O. (cfr. conclusioni a pag. 4 della sentenza impugnata) della nullità di tale rinuncia. Ne consegue che non poteva farsi pedissequa applicazione dell’art. 306 c.p.c., u.c. relativo alla rinuncia agli atti del giudizio, e che la Corte, disattese queste conclusioni della odierna ricorrente, ben poteva far luogo a compensazione delle spese di lite, provvedimento che risulta sinteticamente e forse ellitticamente motivato, ma che rinvia al complesso della vicenda processuale sviluppatasi.

Quanto alle spese di consulenza, sono state ripartite motivatamente tra O. e Provincia in relazione al fatto che la consulenza investiva l’autografia di testamenti disconosciuti "rispettivamente" dalle due parti.

O. sostiene erroneamente che il capo di sentenza era stato impugnato solo dalla Provincia rinunciante.

A pag. 28 punto III dell’atto di appello R. (parte che era stata condannata dal tribunale in solido con la Provincia al pagamento delle spese di ctu) risulta esplicitamente l’impugnazione di questo capo di domanda anche "nei confronti di O.J.".

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo in relazione all’alto valore della lite e agli atti depositati.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione delle spese di lite liquidate in favore: di parte R. in Euro 18.000,00 (diciottomila/00) per onorari, 200,00 per esborsi oltre accessori di legge; di parte Provincia (OMISSIS) e (OMISSIS), per ciascuna, in Euro 12.000,00 per onorari, 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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