Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-05-2012, n. 8244 Revocatoria fallimentare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 6.8.1990 il fallimento della società di fatto di Salvatore, Luciano, Iolanda Garofalo e Carmela Cortese conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Siracusa C. M. e C.L., per sentir revocare, ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1, l’atto di compravendita del 17.8.1988 avente ad oggetto una villetta contrassegnata con il n. 24, per la quale era stato corrisposto un prezzo di L. 26.000.000, versato prima della stipula.

I convenuti, costituitisi, chiedevano il rigetto della domanda, sostanzialmente sostenendo che l’atto da considerare sarebbe stato quello del preliminare -essendo quello di trasferimento un atto dovuto -, e che il prezzo di acquisto, da valutare con riferimento all’epoca della prima pattuizione, sarebbe stato congruo, prospettazioni che il tribunale disattendeva dichiarando l’inefficacia del trasferimento. La sentenza, impugnata dal M. (la C., nuda proprietaria, era nel frattempo deceduta), veniva confermata dalla Corte di Appello di Catania, che in particolare escludeva che il trasferimento di proprietà dell’immobile fosse avvenuto con la stipulazione del preliminare, rilevava che correttamente il giudice di primo grado aveva ritenuto che gli attori non avessero dato prova della dedotta mancata conoscenza dello stato di insolvenza del venditore, osservava al contrario che dagli atti processuali si evincevano elementi deponenti in senso contrario, precisava infine che non era condivisibile neppure la doglianza concernente la congruità del prezzo versato, dovendosi a tal fine fare riferimento alla data della stipula dell’atto di compravendita, avvenuta nel 1988.

Avverso la decisione M. proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, poi ulteriormente illustrati da memoria, cui resisteva con controricorso il fallimento.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 23.4.2012.

Motivi della decisione

Con i motivi di impugnazione M. ha rispettivamente denunciato: 1) violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., degli artt. 101, 112, 324 c.p.c. e vizio di motivazione, con riferimento alle affermate diversità sia della parte promissaria acquirente che dell’immobile oggetto del preliminare, rispetto a quelli indicati nel definitivo.

La Corte di Appello non si sarebbe infatti avveduta che la villetta contrassegnata con il n. 28, richiamato nell’atto definitivo, era la stessa indicata con il n. 24 nel preliminare, come desumibile dalla documentazione in atti, e comunque la censurata affermazione avrebbe integrato gli estremi di una violazione di legge, atteso che sul punto (vale a dire in ordine all’esatta individuazione dell’immobile) la controparte non aveva mai sollevato alcuna riserva;

2) violazione degli artt. 1362, 1363, 1470 c.c., L. Fall., art. 67, n. 1 e vizio di motivazione, in relazione al giudizio secondo il quale nella specie il contratto preliminare non avrebbe potuto essere qualificato come atto di trasferimento. Detto giudizio sarebbe infatti errato, perchè basato su principi astratti e non calibrati sul caso concreto, mentre sotto questo ultimo aspetto sarebbero stati rilevanti in senso contrario la formulazione dell’atto negoziale, l’integrale pagamento del prezzo a far tempo dal 1974, l’avvenuta consegna dell’immobile;

3) violazione della L. Fall., art. 67, comma 1, n. 1, artt. 2697, 2727, 2729 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, in ragione della ritenuta carenza di prova circa la mancata conoscenza dello stato di insolvenza del venditore. La documentazione prodotta al riguardo a sostegno dell’inesistenza di protesti ed esecuzioni sarebbe stata infatti male interpretata, perchè a torto riferita al 2000 (e quindi non al periodo di definizione dell’accordo), mentre invece detta data avrebbe rappresentato solo il momento del rilascio della certificazione. Inoltre la Corte avrebbe erroneamente escluso l’ammissione di prova testimoniale rilevante sul punto, fra l’altro facendo ricorso a motivazione del tutto non condivisibile ("la prova … verte in parte più su atteggiamenti psicologici che su fatti …"), valorizzando altresì esageratamente l’esistenza di ipoteche giudiziali, che non sarebbero state riconducibili all’esistenza di uno stato di insolvenza;

4) violazione della L. Fall., art. 67, comma 1, n. 1, artt. 2697, 2727, 2729 c.c. e vizio di motivazione, poichè non sarebbe stata in realtà configurabile l’ipotizzata sproporzione, dovendosi far risalire la valutazione da effettuare in proposito alla data dell’effettivo trasferimento dell’immobile, e quindi al 1974;

5) violazione dell’art. 91 c.p.c. per la disposta condanna al pagamento delle spese processuali, condanna che la Corte di appello non avrebbe inflitto ove avesse emesso la decisione che avrebbe dovuto adottare. I primi due motivi di impugnazione devono essere esaminati congiuntamente perchè fra loro connessi, avendo entrambi ad oggetto la pretesa erroneità della qualificazione del contratto in questione come preliminare anzichè come definitivo, e sono infondati. Al riguardo va infatti osservato che la Corte di Appello, cui era stata sottoposta identica censura, ha espressamente precisato "che il contratto preliminare non possiede alcun elemento che possa farlo qualificare come atto di trasferimento", così interpretando l’accordo sottoposto al suo esame.

Si tratta dunque di valutazione di merito, per di più confortata dalla non coincidenza di dati fra i due atti (più precisamente nell’indicazione dell’acquirente e del numero di contrassegno dell’immobile oggetto del trasferimento), che non risulta adeguatamente contrastata dal ricorrente con i motivi di censura. Ed invero la diversità delle parti (la C., promissaria acquirente, ha poi acquisito con il definitivo soltanto l’usufrutto dell’immobile) non è stata contestata, mentre l’esame dei rilievi attinenti all’identità dell’immobile indicato nei due atti (preliminare e definitivo) imporrebbe inammissibili valutazioni e ricostruzioni in fatto, non consentite in questa sede di legittimità.

Inoltre, come detto, la Corte di Appello ha interpretato nel senso indicato il contratto oggetto di controversia, sicchè il manifestato dissenso rispetto alle conclusioni formulate avrebbe dovuto essere sostenuto dall’indicazione dei canoni ermeneutici asseritamente male applicati e dei profili idonei a sostenere la denunciata erroneità, indicazione che viceversa non è stata prospettata.

Nè per vero rilevano in senso contrario le circostanze rappresentate dal ricorrente, essenzialmente consistenti nella pretesa esecuzione del contratto (pagamento prezzo e consegna dell’immobile) fin dalla data del preliminare e nelle spese sostenute in relazione all’acquisita disponibilità dell’immobile. Quanto alla prima, per la mancata considerazione sul punto della Corte di Appello e l’omessa indicazione delle modalità concernenti la relativa allegazione, quanto alla seconda perchè, oltre a non essere provata, sarebbe comunque inidonea a comprovare l’avvenuto trasferimento di proprietà fin dalla data del preliminare.

Ad analoghe conclusioni di infondatezza deve poi pervenirsi per quanto concerne il terzo motivo. In proposito la Corte, dopo aver preliminarmente precisato che per gli atti indicati dalla L. Fall., art. 67, comma 1 è onere dell’acquirente dare prova della "inscientia decoctionis", ha poi ritenuto che tale prova non fosse stata fornita e che viceversa vi fosse addirittura prova del contrario.

La detta affermazione è stata contrastata dal ricorrente con la deduzione dell’errore in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello nel non considerare la certificazione comprovante l’inesistenza di protesti e di istanze di fallimento pendenti – poichè rilasciata nel corso del giudizio di primo grado – e nel negare l’ammissione dei dedotti capitoli di prova testimoniale.

Tuttavia, anche se può essere condiviso il primo rilievo per essere irrilevante la data del rilascio della detta certificazione, occorrendo invece a tal fine fare riferimento al contenuto della stessa, allo stesso non può essere attribuita la valenza assegnata dal ricorrente, atteso che la Corte di Appello ha considerato il detto argomento come rafforzativo, e non come decisivo rispetto alla delibazione effettuata. In proposito è invero sufficiente ricordare che, dopo aver affermato l’inidoneità della documentazione in questione a fornire la prova dell’"inscientia decoctionis", la Corte ha poi precisato "Ma soprattutto va ribadito quanto già rilevato dal giudice di primo grado, ovverosia la sussistenza della prova contraria .. ", così manifestando chiaramente il limitato ed inifluente peso probatorio assegnato al contenuto della certificazione in oggetto. Piuttosto la ragione della contestata decisione risulta al contrario incentrata sull’esistenza di ipoteche giudiziali su altri immobili dei venditori fin dalla data del contratto oggetto di esame, profilo che il ricorrente ha ignorato (mentre avrebbe dovuto indicare i motivi per i quali le dette ipoteche non avrebbero potuto esser interpretate come sintomo di insolvenza) ed ha omesso di censurare.

L’affermata sussistenza della prova contraria (e cioè dell’esistenza dell’insolvenza) ha poi determinato, nella valutazione della Corte di appello, l’inammissibilità della prova testimoniale per la ininfluenza sulla decisione, oltre che per la sua genericità, valutazione che è espressione di non sindacabile giudizio di merito, contrastato per di più esclusivamente con la prospettazione di una diversa – e ritenuta preferibile – interpretazione degli atti processuali.

Sono infine infondati anche il quarto ed il quinto motivo.

Per il quarto va rilevato che la sollecitata valutazione della congruità del prezzo di acquisto alla data del preliminare è essenzialmente da porre in relazione alla pretesa qualificazione dell’atto in questione come definitivo, assunto non condivisibile per le ragioni svolte nell’esame dei primi due motivi di censura.

Una volta affermata, viceversa, la natura preliminare dell’atto del 4.7.74 e la natura definitiva di quello successivo del 17.7.88, è a quest’ultimo cui occorre fare riferimento al fine di stabilire la congruità o meno del prezzo – come d’altro canto stabilito nella sentenza impugnata – essendo quello il momento in cui si determina il pregiudizio per i creditori. Per il quinto motivo è infine sufficiente considerare che è insussistente la denunciata violazione di legge, poichè la statuizione sulle spese processali risulta correttamente ancorata alla soccombenza, e la censura è stata sollevata in ragione della ritenuta erroneità della decisione adottata.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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