Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 04-11-2011) 16-11-2011, n. 42379Associazione per delinquere Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

K.N. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 3 dicembre 2010 della Corte di appello di Roma (che ha confermato la sentenza 18 febbraio 2005 del Tribunale di Roma, di condanna alla pena di anni 16 di reclusione per reati in tema di sostanze stupefacenti), deducendo vizi e violazioni nella motivazione della decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati. 1) le accuse.

Il ricorrente è accusato del reato p. e p. dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1 e 2, poichè si associava con altri soggetti, alcuni non identificati, allo scopo di commettere più delitti di importazione, detenzione, trasporto, cessione di sostanze stupefacenti del tipo eroina, cocaina; hashih e marijuana, nonchè di una serie di violazioni del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1, 4 e 6 per avere illegittimamente detenuto a fini di cessione a terzi, sostanza stupefacente del tipo marijuana, cocaina ed eroina in un arco temporale che va dei mese di (OMISSIS);

nonchè del reato p. e p. dall’art. 81 cpv. c.p., art. 416 c.p., commi 1 e 2 poichè si associava al fine di commettere uno o più delitti inerenti l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento della prostituzione, promuovendo e organizzando tutte le attività illecite e interscambiandosi i diversi ruoli a seconda delle concrete necessità. 2.) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione della Corte di legittimità.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, per omessa notifica di tutti gli atti introduttivi del giudizio in virtù dell’art. 179 c.p.p. in combinato disposto con l’art. 178 c.p.p., lett. c), artt. 295 e 296 c.p.p..

Sostiene il ricorrente che la Corte di Appello, nel respingere la tesi difensiva secondo la quale le ricerche effettuate al fine della emissione del decreto di latitanza non erano state esaustive, in quanto dirette a cercare una persona con un’identità diversa:

K.N. al posto di T.D..

Secondo la difesa il problema focale della vicenda, non superato dalla corte distrettuale, è quello relativo alla esattezza ed esaustività del verbale di vane ricerche, dal momento che esse erano appunto dirette alla ricerca di un soggetto diverso da quello risultante in atti.

Con un secondo motivo si lamenta ancora nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con riferimento alla identificazione del K.N., dato che i Giudici territoriali non hanno risolto il problema fondamentale attinente alla corretta identificazione dell’accusato, mancando nel fascicolo processuale il cartellino foto dattiloscopico.

Per il ricorrente comunque, la corte distrettuale, nella sua scarna motivazione, non avrebbe superato questo dato, limitandosi a riprendere pedissequamente quanto già scritto dal Tribunale di Roma nella sentenza di primo grado.

Con un terzo motivo si prospetta nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. d) con riferimento alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in relazione ad un nuovo esame del sig. M.D., ritenuto rilevante ai fini della corretta identificazione dell’odierno prevenuto, essendo egli la persona che avrebbe prestato la sua autovettura al cugino N..

Con motivi "nuovi ed aggiunti" depositati il 24 ottobre 2011 l’avv.ssa Lovelli rileva, con un primo motivo, nullità della sentenza per contraddittorietà ed insufficienza della motivazione in punto di verbale di vane ricerche.

Con una seconda censura si lamenta l’avvenuta identificazione del N. operata dal teste M.D. che avrebbe prestato la vettura Ford all’imputato poi riconosciuto per l’odierno ricorrente.

Con un terzo motivo si sostiene che la motivazione sulla responsabilità è basata su di una "motivazione sbrigativa" e fondata anche su di un cartellino foto segnaletico non rivenuto agli atti.

Con una quarta doglianza si critica l’omessa nuova escussione del teste, già esaminato, M.D. necessaria per chiarire i dubbi sulla identità della persona cui era stata data in prestito la vettura Ford. Con un ultimo quinto motivo si deduce vizio di motivazione sull’omesso giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.

Ritiene il Collegio che i motivi originari ed i motivi "nuovi ed aggiunti", che sostanzialmente ripetono (salvo il 4 in punto di responsabilità ed il 5 in tema di giudizio ex art. 69 c.p.) quelli precedenti, non superino la soglia dell’ammissibilità.

Tutte le doglianze infatti si incentrano sulla tesi difensiva secondo cui il " N.", persona il cui nominativo compariva più volte nelle conversazioni intercettate, non corrispondeva alla persona arrestata, la quale risponde invece alle generalità di T. D..

Da ciò l’irritualità delle ricerche e la nullità della sentenza.

I difensori – anche nei nuovi motivi – criticano la motivazione dei giudici di merito qualificandola come "scarna", "laconica" o "sbrigativa", e finiscono, comunque, con l’esigere dalla Corte di legittimità una rivalutazione dei dati probatori, in termini diversi da quelli fatti propri dalla corte distrettuale, reinterpretazione questa notoriamente non consentita in questa sede, avuto anche preciso riferimento alla accurata e ragionevole giustificazione sulla identità dell’accusato, quale diffusamente spiegata nella gravata sentenza e funzionalmente usata per validare gli esiti del verbale di vane ricerche.

In proposito va rammentato che la Corte di appello ha ritenuto infondata la pregiudiziale eccezione di nullità della sentenza di primo grado, per vizi attinenti al verbale di vane ricerche, richiamandosi tra l’altro alla sentenza della I sezione di questa Corte n. 932/2007, la quale decidendo sul ricorso del K.N. avverso la decisione 19 luglio 2006 del Tribunale di Roma, di restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso sentenza contumaciale, ha chiaramente evidenziato la ritualità del verbale di vane ricerche e dei successivi provvedimenti.

La Corte di legittimità – sezione 2 – infatti ha testualmente affermato che "nella fattispecie in esame, in ossequio al principio di diritto espresso sia pure in via incidentale (in punto di redazione del verbale di vane ricerche), va rilevato:

a) che le ricerche operate dalla Polizia giudiziaria furono complete in quanto i militari si recarono nei luoghi solitamente frequentati dal ricercato, non solo in Lanuvio ove aveva abituale dimora, ma anche in altre località, come Anzio, Pomezia, Aprilia, in cui vi erano possibili punti di collegamento con parenti e conoscenti;

b) che l’infruttuosità delle ricerche riscontrava del resto il contenuto di conversazioni intercettate da cui emergeva che il prevenuto K., appreso l’arresto di un coimputato, si era allontanato dal territorio dello Stato, preoccupandosi di garantire al correo un legale e di indicargli una strategia difensiva per evitare il proprio coinvolgimento e sviare le indagini;

c) che tutte le eventuali successive emergenze probatorie, quali le dichiarazioni rese in dibattimento dal teste P. o la lamentata ricerca con un nome diverso, non hanno alcuna rilevanza sulla legittimità del decreto di latitanza emesso.

Trattasi di un giudizio, sia pure espresso in via incidentale che va condiviso – anche ed ancora – in questa sede di legittimità, dopo il giudizio di merito, considerato che la situazione processuale facente capo all’odierno ricorrente non ha subito mutamenti o variazioni di sorta.

Da ciò la conferma della ritualità delle ricerche e del verbale di vane ricerche, il cui tenore essenziale e qualificante è dato dalle convergenti indicazioni sulle specifiche indagini svolte nei luoghi in cui si presume l’imputato possa trovarsi, senza che la Polizia giudiziaria debba essere vincolata, quanto ai luoghi di ricerca, dai criteri indicati in tema di irreperibilità.

Il provvedimento di irreperibilità che ne segue è pertanto subordinato al ritenuto "carattere esaustivo" delle ricerche stesse, come eseguite, sulla base di una valutazione ispirata a un criterio di certezza "rebus sic stantibus", cioè con riferimento alla situazione concreta, accertata in quel momento, senza che possano rilevare, ai fini della sua legittimità, e quindi delle notificazioni in virtù di esso eseguite, le eventuali informazioni successivamente pervenute (Cass. pen. sez. 6, 29702/2003 Rv. 225485.

Massime precedenti conformi: N. 2978 del 1992 Rv. 191948, N. 4802 del 1997 Rv. 209144).

Tale connotazione di esaustività, indicativa di una indagine esauriente e completa, è peraltro frutto di un giudizio che compete, salvo casi di palese e manifesta carenza degli atti di indagine, al solo giudice di merito e si sottrae a censure in sede di legittimità, quando – come nella specie – esso si caratterizza e si esprime con argomentazioni prive di incoerenze od illogicità, e fedeli alle emergenze ed allegazioni processuali.

Da ciò l’inammissibilità della corrispondente censura di merito.

Stessa conclusione di inammissibilità va assunta per la questione dei reali dati anagrafici del soggetto autore dei reati in contestazione.

Sul punto esiste una ampia e dettagliata argomentazione della corte distrettuale la quale ha puntualmente ed ineccepibilmente rilevato:

1) che dalla testimonianza dell’agente di Polizia giudiziaria C. risulta che dalle conversazioni intercettate emergeva il ruolo nell’organizzazione di tale N. e che da una conversazione intercettata si era appreso che detto N. il 16-7-2001 si sarebbe recato nell’officina Toyota di Genzano, per acquistare un pezzo di ricambio dell’auto;

2) che per giungere alla sua identificazione, i militari si erano appostati nei pressi dell’officina e, quando la persona giunta a bordo della Ford Mondeo era uscita dall’officina, l’avevano seguita e cosi erano riusciti ad individuare l’abitazione di N.;

3) che si era accertato poi che l’immobile in questione era stato dato in locazione a tale N.D., albanese, che era intestatario dell’utenza telefonica in uso al N.;

4) che da altre conversazioni la Polizia giudiziaria apprendeva che N. aveva timore di poter essere identificato perchè già fotosegnalato;

5) che erano stati svolti controlli presso le locali forze dell’ordine e si era accertato che un cittadino albanese di nome N. era stato fotosegnalato e identificato con il nome K. N., nato in (OMISSIS);

6) che gli operatori di Polizia giudiziaria riconoscevano il K. nella fotografia del cartellino fotodattiloscopico come la persona che era stato vista uscire dall’officina di Genzano;

7) che l’ordinanza custodiale, le ricerche, il decreto di citazione recano tutti i dati anagrafici forniti da N. in occasione del precedente controllo;

8) che il soggetto arrestato in esecuzione della condanna T. D., a prescindere dal nominativo fornito e dalla circostanza che questo sia anche il vero nome, è senz’altro la stessa persona indagata e poi condannata per i fatti de quo perchè i rilievi dattiloscopia corrispondono;

9) che, pertanto T.D. altro non e che la persona indagata e processata, e che l’imputato non può lamentarsi di non essere stato ricercato con il suo vero nome, ma con un nominativo forse inesistente, perchè gli sono state attribuite le identiche medesime generalità che lui stesso aveva fornito alle forze dell’ordine in occasione di un precedente controllo;

10) che dal contenuto delle conversazioni, era inoltre emerso che per sottrarsi all’arresto il " K.N. – T.D." si era allontanato dall’Italia e si era recato presumibilmente in Grecia, sicchè era inutile fare ricerche in Albania;

11) che il coimputato M.D. in dibattimento ha dichiarato di aver più volte dato in prestito la sua vettura Ford Mondeo al N., proprio la medesima autovettura di cui l’imputato era in possesso il giorno in cui i militari hanno avuto la possibilità: di dare un volto alla persona che, sulla base delle intercettazioni, risultava a pieno titolo inserita nell’associazione criminale; di individuare la sua abitazione e di attivare gli ulteriori controlli innanzi riferiti per dare un nome all’allora indagato.

Tanto premesso è agevole rilevare la presenza nella decisione impugnata di una motivazione in punto di identificazione fisica dell’imputato che, per come condotta e sviluppata, in modo lineare, senza incoerenze o salti logici, in assoluta aderenza alle emergenze processuali, si sottrae ad ogni possibile censura in sede di legittimità.

Invero le numerose (ed in parte ripetitive) censure, pur se titolate come violazione di legge e come vizi di motivazione, si risolvono essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonchè nella pretesa di contrastare valutazioni dei fatti e delle risultanze probatorie effettuate dai giudici di merito, la cui motivazione al riguardo, come sviluppata nella sentenza impugnata, è priva di carenze od invalidità qui apprezzabili.

Anche questa doglianza quindi non si sottrae al giudizio di inammissibilità.

Ciò posto vanno ora valutati il 3^ motivo del 1^ ricorso ed il 4^ motivo dei motivi nuovi circa il mancato "riesame" di M. D..

Anche per tale deduzione non si supera la soglia dell’ammissibilità per le ragioni chiaramente indicate dalla corte distrettuale ed ignorate nel ricorso, il quale ripropone la richiesta ai fini della diversa identificazione del reo, nonostante le contrarie assorbenti giustificazioni correttamente proposte dai giudici di merito.

Restano quindi le doglianze in punto di responsabilità ed in ordine al mancato giudizio di prevalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche.

Anche tali due ultime critiche sono inammissibili.

La prima, per palese infondatezza e genericità delle critiche (sul formulato e ampiamente giustificato giudizio di colpevolezza), le quali si limitano a proporre una rivalutazione dei dati probatori non consentita in sede di legittimità.

Quanto al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, va rilevato che esso non è censurabile in sede di legittimità, qualora – come nella specie – il giudice di merito abbia giustificato la soluzione adottata con la indicazione degli elementi ritenuti prevalenti ai fini del giudizio di comparazione, anche se non abbia confutato tutte le deduzioni delle parti volte a conseguire una diversa valutazione comparativa di tutte le circostanze del reato (Cass. Penale sez. 4, 11046/1984, Rv. 167072, Faenza, conf. mass n 155605).

Ne consegue che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Cass. Penale sez. 3, 26908/2004 – Rv. 229298), evenienza questa, nella vicenda, assolutamente non verificatasi.

Il ricorso va quindi in ogni sua parte dichiarato inammissibile.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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