Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-10-2011) 16-11-2011, n. 42376

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

R.L. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 8 novembre 2010 della Corte di appello di Venezia (la quale, in parziale riforma della sentenza 11 febbraio 2009 del Tribunale di Verona, ha dichiarato assorbito il reato di cui all’art. 612 c.p. in quello di cui all’art. 572 c.p. e, ritenuta l’ipotesi attenuata di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 quanto al capo c), fermo il giudizio di equivalenza con la recidiva ritenuta, ha confermato la pena inflitta), deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1.) i capi di imputazione e la decisione di primo grado.

Il R. è accusato:

a) del delitto di cui agli artt. 81 cpv., 572 e 582 in relazione all’art. 585 c.p., art. 576 c.p., n. 1 e art. 61 c.p., n. 2, art. 612 c.p, perchè maltrattava la moglie M.A. con violenze fisiche (pugni e calci inferti anche davanti alle figlie I. n. (OMISSIS) e M.C. n. (OMISSIS)) anche durante la gravidanza della seconda figlia M.C., cagionandole in data (OMISSIS) lesioni ritenute guaribili in giorni 10, consistite in trauma cranico facciale, e con vessazioni psicologiche (minacciandola con un coltello, stringendole la gola con la cintura dei pantaloni):

b) del delitto di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, artt. 3, nn. 5) e 8), art. 4, nn. 1) e 3) perchè, con violenza e minaccia costituite dalle condotte indicate al punto che precede, induceva la moglie M.A. alla prostituzione e ne favoriva e sfruttava la prostituzione indicandole in luogo di esercizio del meretricio nei pressi dei cd. (OMISSIS), le tariffe da praticare, il tipo di rapporti da intrattenere con i clienti (preferibilmente anali, senza profilattico e con più clienti contemporaneamente), controllandola telefonicamente e appropriandosi quasi interamente dei profitti di tale attività;

c) del delitto di cui all’art. 81 cpv. c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, perchè con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, cedeva alla moglie M.A. sostanza stupefacente del tipo cocaina.

Il Tribunale di Verona con sentenza 11 febbraio 2009 ha dichiarato l’imputato colpevole di tutti i reati lui ascritti e ritenuto sussistente il vincolo della continuazione e considerato più grave il capo c), concesse le attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, lo ha condannato alla pena di anni 8 di reclusione ed Euro 30.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

2.) la decisione della Corte di appello impugnata.

La corte distrettuale con la decisione impugnata, in parziale riforma della sentenza del primo giudice, ha dichiarato assorbito il reato di cui all’art. 612 c.p. in quello di cui all’art. 572 c.p. e, ritenuta l’ipotesi attenuata di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 quanto al capo c), fermo il giudizio di equivalenza con la recidiva ritenuta, ha confermato la pena inflitta.

Va subito annotato che il capo di imputazione sub a) – come ripreso per ben due volte a pag. 2 e a pag. 3 della sentenza impugnata- risulta privo della contestazione "minacciandola con un coltello, stringendole la gola con la cintura dei pantaloni".

Tanto premesso,secondo la corte veneta, la pena, pur dopo l’assorbimento ed il riconoscimento della attenuante, doveva essere rideterminata negli stessi termini, rimanendo reato più grave quello di cui al capo e), in quanto l’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 unitamente alle già concesse attenuanti non poteva che essere, secondo la nuova normativa in vigore all’epoca dei fatti, valutata equivalente alla recidiva reiterata specifica infraquinquennale, contestata al R., ed essendo egualmente vincolato anche l’aumento per la continuazione che, nel caso di recidiva aggravata, non può essere inferiore ad 1/3.

In conclusione, nonostante l’accoglimento di alcuni motivi d’appello, è stata confermata la misura finale della pena inflitta.

3.) i motivi di gravame e le ragioni della decisione della Corte di legittimità.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, in relazione ai disposti dell’art. 597 c.p.p., dell’art. 99 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. a) in relazione all’art. 597 c.p.p. osserva il ricorrente che, per quanto concerne i reati in continuazione, i giudici della Corte d’Appello di Venezia hanno dichiarato il reato di cui all’art. 612 c.p. assorbito in quello di cui all’art. 572 c.p., ma non hanno – come dovuto – ridotto la pena ad anni 7 e mesi 6 (pena così richiesta dallo stesso P.G.), applicando per il reato in continuazione rimanente (quello p.p. dall’art. 572 c.p.) un aumento maggiore (a.2) di quello applicato dai giudici di primo grado (a. 1 – m. 6), ritenendo quest’ultimo errato.

Sul punto peraltro non vi era stato appello da parte del P.M. e/o del P.G..

I giudici della Corte d’Appello di Venezia hanno valutato la recidiva contestata che in concreto non era stata applicata dai giudici di 1^ grado. b) in relazione alla contestazione ex art. 99 c.p. la recidiva reiterata specifica infraquinquennale non sussisterebbe in quanto dal Casellario Giudiziale in atti risulta che l’imputato è gravato da tre precedenti di cui solo gli ultimi due (quelli per i reati di ricettazione e di evasione), sono infraquinquennali a quello per cui è processo e per i quali tutti vi è stata pronuncia di sospensione condizionale della pena. c) in relazione al giudizio della necessaria equivalenza tra "l’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, unitamente alle già concesse attenuanti generiche, alla recidiva reiterata specifica infraquinquennale" (ultime righe pag. 6 e prime righe pag. 7) sostiene il ricorrente che il comma 4 dell’art. 69 prescrive che il suddetto giudizio di comparazione delle circostanze sia esteso anche alle circostanze inerenti la persona del colpevole.

Il motivo, per il profilo sub a) risulta fondato per le ragioni di seguito indicate.

Va subito chiarito che il Tribunale ha ritenuto più grave il reato in tema di stupefacenti (capo C) e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, ha così determinato la sanzione:

– pena base per il reato sub C: anni 6 di reclusione ed Euro 26 mila di multa;

– aumentata di anni 1 e mesi 6 di reclusione ed Euro 2 mila di multa, per il reato sub A (=anni 7 mesi 6 di reclusione ed Euro 28 mila di multa);

– aumentata di mesi 6 ed Euro 2 mila di multa per il reato sub B (=anni 8 di reclusione ed Euro 30 mila di multa).

La Corte veneta, deciso l’assorbimento del delitto di minaccia nei maltrattamenti, e ritenuta la sussistenza dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, art. ex art. 73, comma 5 per il più grave il reato sub C, lo ha utilizzato per il calcolo della pena base.

E’ quindi fondata la critica sull’avvenuta violazione dell’art. 597 c.p.p. e pertanto, pure in assenza di indicazione dei singoli aumenti a titolo di continuazione ad opera del Tribunale, ritiene la Corte di provvedere direttamente alla eliminazione dell’aumento per il titolo di reato ritenuto assorbito, riducendo la sanzione inflitta continuazione di mesi 6 di reclusione ed Euro 640 di multa così rideterminando la pena finale in anni 7 mesi 6 di reclusione ed Euro 29.360 di multa.

Infondata risulta invece la doglianza circa l’insussistenza della recidiva specifica infraquinquennale, attese le risultanze del certificato penale che attestano un reato di lesioni del settembre 1995, una ricettazione dell’ottobre 2001 ed una evasione del novembre 2001, reati tutti per i quali è indifferente l’avvenuta concessione della sospensione condizionale della pena.

Del pari non accoglibile è la critica al giudizio di equivalenza tra opposte circostanze, ex art. 69 c.p., in quanto i giudici di merito, in una complessiva valutazione della vicenda, in cui la recidiva reiterata concorreva con due attenuanti (ex art. 62 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5), hanno proceduto al giudizio di bilanciamento, a norma dell’art. 69 c.p., comma 4, come modificato dalla L. n. 251 del 2005, ritenendo la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sè, sul trattamento sanzionatorio del fatto illecito in questione (cfr. in termini cass. pen. sez. 5, 22871/09, r.v. 24409).

Con un secondo motivo si lamenta inosservanza delle norme processuali in relazione all’art. 192 c.p.p. e in relazione all’art. 111 Cost., commi 6 e 7, in merito al reato di illecita detenzione (e cessione) per l’immotivato credito dato alla versione della persona offesa.

Il motivo non ha fondamento.

I giudici di merito hanno sì valorizzato la deposizione della persona offesa, dando ad essa totale credibilità, ma ciò hanno fatto a seguito del rigoroso rispetto delle regole elaborate da questa Corte di legittimità.

E’ invero noto, per risalente giurisprudenza (ex plurimis: Cass. sez. 1, 2 giugno – 3 agosto 1993 in ric. Pulella; Cass. sez. 1, 13 marzo- 27 marzo 1992, in ric. Di Leonardo e successive conformi), che in tema di valutazione della prova e con specifico riguardo alla prova testimoniale, il giudice, pur essendo tenuto a valutare criticamente, verificandone l’attendibilità, il contenuto della testimonianza, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio ragionamento – come sembra prospettare il ricorrente – l’ipotesi che il teste dica scientemente il falso o si inganni su ciò che forma l’oggetto essenziale della propria deposizione, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere.

Detta incompatibilità inoltre deve essere ravvisata solo quando essa incida sull’elemento essenziale della deposizione e non su elementi di contorno, relativamente ai quali appaia ragionevolmente prospettabile l’ipotesi che il teste sia caduto in errore di percezione o di ricordo, senza però perdere di obiettiva credibilità per ciò che attiene l’elemento centrale del suo dire.

Da ciò consegue che, in assenza di siffatti elementi, come nella specie, il giudice deve partire invece dal presupposto che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve, perciò, limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come certamente vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti probatorie di pari valore.

In conclusione, le dichiarazioni del testimone per essere positivamente utilizzate dal giudice devono risultare "credibili", oltre che avere ad oggetto "fatti di diretta cognizione": esse pertanto non abbisognano di riscontri esterni che non siano quelli, eventualmente necessari, per saggiare la generica credibilità del teste medesimo (Cass. Pen. sez. 1, 1 febbraio 1993- 23 marzo 1994, Pres. La Cava, rel. Campo, in ric. Mauriello).

Va tuttavia e da ultimo rammentato che la "valutazione improntata a prudente apprezzamento e spirito critico" (così come richiesta dalla Corte costituzionale nella sua pronuncia 115/92), non può che limitarsi ad un solo "riscontro interno" di "intrinseca coerenza logica" della deposizione della vittima (anche se costituita parte civile), tutte le volte in cui, come nella vicenda di specie, non sono possibili altri riscontri per l’assenza di altri dati probatori a corredo (cass. pen. sez. 3, 1818/2011, r.v. 2549136).

In definitiva la deposizione della persona offesa dal reato, pur se essa non possa essere equiparata al testimone estraneo, può essere da sola assunta come fonte decisiva di prova, a condizione che sia sottoposta ad una indagine positiva sulla sua soggettiva affidabilità, accompagnata da un controllo della sua concreta e puntuale credibilità.

Sulla discrezionalità di tale indagine preliminare,la Corte di Cassazione si è pronunciata (sia con riferimento al vecchio che al nuovo rito) affermandone peraltro, l’implicita necessità, soltanto quando siano emersi elementi che giustifichino la pretesa incapacità del teste (cfr. in termini: Cass. sez. 1, 7 marzo – 31 marzo 1994, Pres. Valente, rel. Saccucci, in ric. Bonaccorsi), circostanza questa assente e neppure dedotta nella fattispecie.

Da ciò il rigetto del secondo motivo di gravame. La gravata sentenza va quindi annullata senza rinvio limitatamente alla determinazione della pena che si determina nella misura di anni sette e mesi sei di reclusione ed Euro ventinovemilatrecentosessanta di multa. Rigetta nel resto il ricorso.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena che ridetermina nella misura di anni sette e mesi sei di reclusione ed Euro ventinovemilatrecentosessanta di multa. Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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