Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-05-2012, n. 8199 Licenziamento per riduzione del personalE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Bologna, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva parzialmente la domanda di R.D., proposta nei confronti della società Poste Italiane, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento collettivo intimatogli dalla predetta società.

La Corte del merito, dopo un articolata ricostruzione della normativa di cui alla L. n. 223 del 1991 riguardante l’istituto del licenziamento collettivo, poneva a base del decisum il rilievo fondante secondo il quale la società Poste Italiane non aveva investito, con i motivi di appello, la ratio decidendi della sentenza di primo grado che aveva ritenuto l’illegittimità del licenziamento sul presupposto che, pur avendo il R. i requisiti per l’accesso al pensionamento, la società non aveva provato l’esistenza dell’eccedenza di personale nella categoria Quadri di primo livello cui apparteneva il R.. Siffatta ratio, precisava la predetta Corte, del resto era coerente con l’orientamento della Cassazione la quale (sent. n. 21300 del 2006)aveva sancito che le esigenze tecniche produttive di cui alla prima parte della L. n. 223 del 1991, art. 5 rilevano indipendentemente dal criterio di scelta adottato ai sensi della seconda parte della stessa disposizione come limite dell’ambito in cui detta scelta può essere operata, in relazione al quale va verificato il nesso causale tra il programma di ristrutturazione aziendale e il singolo provvedimento di recesso, considerando, quanto a detto programma, l’enunciazione, con la comunicazione di cui all’art. 4, comma 2 dei motivi che determinano la situazione di eccedenza, alla quale va riferita anche l’indicazione dei profili del personale eccedente.

Avverso questa sentenza la società Poste italiane ricorre in cassazione sulla base di due censure, illustrate da memoria.

Resistono con controricorso gli eredi di R.D., i quali, in via preliminare, deducono l’inammissibilità del ricorso per mancata esposizione sommaria dei fatti di causa.

Motivi della decisione

Preliminarmente va disattesa l’eccezione d’inammissibilità, sollevata dalle parti resistenti, del ricorso.

Invero è giurisprudenza consolidata di questa Corte che il requisito della esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall’art. 366 c.p.c., n. 3 postula che il ricorso per cassazione, pur non dovendo necessariamente contenere una parte relativa alla esposizione dei fatti strutturata come premessa autonoma e distinta rispetto ai motivi o tradotta in una narrativa analitica o particolareggiata dei termini della controversia, offra, almeno nella trattazione dei motivi di impugnazione, elementi tali da consentire una cognizione chiara e completa non solo dei fatti che hanno ingenerato la lite, ma anche delle varie vicende del processo e delle posizioni eventualmente particolari dei vari soggetti che vi hanno partecipato, in modo che si possa di tutto ciò avere conoscenza esclusivamente dal ricorso medesimo, senza necessità di avvalersi di ulteriori elementi o atti, ivi compresa la sentenza impugnata (Cfr. per tutte Cass. 28 febbraio 2006 n. 4403).

Nella specie la descrizione dei fatti che hanno ingenerato la controversia, la posizione delle parti, le difese spiegate in giudizio dalle stesse, le ragioni sottese alle statuizioni adottate dal giudice di appello sono evincibili dalla complessiva lettura dell’atto d’impugnazione dove la prima parte è dedicata alla vicenda in generale della fase di ristrutturazione che ha coinvolto la società Poste italiane, la seconda a quella giudiziale riguardante in particolare l’attuale resistente e la terza all’enunciazione dei motivi di ricorso dalla quale si desumono anche le ragioni poste a base della decisione impugnata.

Tanto premesso rileva il Collegio che con la prima censura la società ricorrente, deducendo violazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 5 articola, ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito di diritto: "avuto riguardo al fatto che nell’accordo di definizione della procedura ex L. n. 223 del 1991 le parti abbiano convenuto la licenziabilità di tutto il personale in possesso dei requisiti pensionistici, è necessario che l’applicazione del predetto in fase di attuazione dei recessi tenga conto comunque di un necessario nesso eziologico tra le esigenze tecniche produttive e la scelta del personale e che, quindi, i soggetti da porre in mobilità siano individuati nell’ambito di settori o reparti in relazione ai quali siano state prospettate e riscontrate situazioni di eccedenza o è possibile l’applicazione dell’accordo nell’ambito dell’intero complesso aziendale?".

Con la seconda critica la società ricorrente, denunciando vizio di motivazione,formula il seguente quesito: "avuto riguardo al fatto che nell’accordo di definizione della procedura ex L. n. 223 del 1991 le parti abbiano convenuto la licenziabilità di tutto il personale in possesso dei requisiti pensionistici, dica la Corte che il licenziamento collettivo costituisce istituto autonomo, caratterizzato esclusivamente dalle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, dal numero dei licenziamenti e dall’arco temporale nel quale sono effettuati e sul quale il controllo è demandato al confronto ex ante con le organizzazioni sindacali, restando il sindacato giurisdizionale ex post ristretto alla sola correttezza procedurale dell’operazione".

I motivi, che in quanto strettamente connessi dal punto di vista logico e giuridico vanno trattati unitariamente, sono infondati.

La sentenza impugnata risulta ancorata a due distinte rationes decidendi, autonome l’una dalla altra, e ciascuna, da sola, sufficiente a sorreggerne il dictum: da un lato, all’affermazione della mancata impugnazione con l’atto di appello della specifica ratio decidendi posta a base della sentenza di primo grado secondo la quale l’illegittimità del licenziamento derivava dalla mancata prova dell’esistenza dell’eccedenza di personale nella categoria Quadri di primo livello cui apparteneva il R.; dall’altro, al rilievo che, comunque, siffatta ratio trovava conferma nella giurisprudenza della Cassazione secondo cui che le esigenze tecniche produttive di cui alla prima parte della L. n. 223 del 1991, art. 5 rilevano, indipendentemente dal criterio di scelta adottato come limite dell’ambito in cui detta scelta può essere operata.

Orbene è ius reception, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per il quale l’impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sè solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. 26 marzo 2001 n. 4349, Cass. 27 marzo 2001 n 4424 e da ultimo Cass. 20 novembre 2009 n. 24540).

Nella specie le censure articolate dalla società ricorrente riguardano tutte l’interpretazione fornita dal giudice del merito della L. n. 223 del 1991, art. 5 e non investono in alcun modo l’affermazione della mancata impugnazione della ratio decidendi posta a base della sentenza di primo grado che costituisce autonoma e sufficiente ragione idonea a sorreggere da sola il dictum della sentenza di appello.

Tanto del resto trova conferma nei quesiti formulati ex art. 366 bis c.p.c., alla cui stregua vanno valutate le censure (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420), nei quali si prescinde del tutto dalla richiamata – ultima – autonoma ed alternativa ratio su cui si basa il decisimi della sentenza in questa sede impugnata.

Il ricorso, di conseguenza, va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed oltre Euro 3500,00 per onorario oltre IVA, CPA e spese generali.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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