Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2012, n. 8309 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 22 febbraio 2007, la s.p.a. Poste Italiane chiede con due motivi, la cassazione della sentenza depositata il 22 febbraio 2006, con la quale la Corte d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, ha condannato la società, a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 così come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – al contratto di lavoro intercorso con Ci.Cr. decorrente dal 2 gennaio 1999, a riammettere in servizio il lavoratore e al pagamento delle retribuzioni dall’atto di messa in mora del 30 gennaio 2002.

In particolare, la ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., nonchè il vizio di motivazione nella interpretazione dell’accordo del 25 settembre 1997, integrativo del C.C.N.L. 26 novembre 1994 nonchè violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità del termine.

Alle domande della società hanno resistito con controricorso gli eredi del lavoratore deceduto il 2 febbraio 2007 in epigrafe indicati.

Ambedue le parti hanno depositato una memoria.

Prima dell’udienza di discussione, la società ha depositato.una "comparsa di costituzione di nuovo difensore", la procura speciale quale, in quanto apposta a margine della comparsa medesima, deve ritenersi inammissibile ratione temporis. La possibilità di apposizione della procura speciale in tale atto è stata infatti introdotta unicamente dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 9, lett. a), con riguardo ai giudizi istaurati a decorrere dal 4 luglio 2009 (art. 58, comma 1 della predetta legge).

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

I giudici di merito hanno infatti individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998 e quindi in data antecedente a quella dei contratti di lavoro esaminati.

In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha operato una sorta di "delega in bianco" alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro del resistente per la causale indicata, in quanto stipulato successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Con riguardo al secondo motivo, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 commi 5, 6 e 7.

Tali disposizioni prevedono: il comma 5, che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8; il comma 6, che, in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purchè stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, i quali contemplino l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità è ridotto alla metà; il comma 7, che tali previsioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge.

In proposito, va premesso che nel giudizio di legittimità costituisce condizione necessaria per poter applicare lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente e in maniera ammissibile, secondo la disciplina loro propria, le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine; deve pertanto altresì trattarsi di motivi non tardivi, generici o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis.

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Premessi tali principi, è da rilevare che nel caso in esame la società ricorrente contesta che la corte di merito abbia, da un lato, erroneamente ritenuto che l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione integri, ai sensi dell’art. 1217 c.c., un valido atto di offerta della prestazione lavorativa e dall’altro, omesso di prendere in considerazione l’eccezione di sottrazione dal danno, da risarcire c.d. aliunde perceptum, pur genericamente dedotto.

In proposito, va peraltro rilevato che, a fronte degli accertamenti compiuti dalla Corte territoriale, costituiva onere della società ricorrente specificare, con la trascrizione degli atti richiamati, il contenuto degli atti relativi al tentativo obbligatorio di conciliazione oltre che delle richieste svolte in punto di aliunde perceptum, al fine di dedurne l’erronea valutazione delle risultanze di causa, come imposto dal principio di necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte (v., ad es., per tutte Cass. nn. 10913/1998 e 12362/2006; o, più recentemente, Cass. nn. 4201/10, 6937/10, 10605/10 e 11477/10).

Ne deriva, in difetto, l’inammissibilità delle censure svolte col terzo e quarto motivo e pertanto la non applicabilità al caso in esame della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5-7.

Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, secondo la liquidazione fatta in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare ai resistenti le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 2.500,00, per onorari, oltre accessori di legge (spese generali del 12,50%, IVA e CPA).

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