Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2012, n. 8306 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 25 gennaio 2007, la s.p.a. Poste Italiane chiede con un unico articolato motivo, la cassazione della sentenza depositata il 26 gennaio 2006, con la quale la Corte d’appello di Roma, riformando parzialmente la decisione di primo grado, aveva dichiarato la nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 così come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – al contratto di lavoro intercorso con C.I. decorrente dal 17 febbraio 2000 e la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato da tale data e aveva condannato la società al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni perdute dall’atto di costituzione in mora del 4 ottobre 2000 nei limiti del triennio dalla cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta il 30 giugno 2000.

In particolare, la ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., e dell’art. 425 c.p.c. nonchè il vizio di motivazione nella interpretazione dell’accordo del 25 settembre 1997, integrativo del C.C.N.L. 26 novembre 1994.

Alle domande della società ha resistito con controricorso C. I., proponendo altresì ricorso incidentale, per la violazione degli artt. 1175, 1218, 1226, 1227, 2094, 2099 e 2967 c.c., artt. 112, 114 e 432 c.p.c. e per vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale aveva limitato al triennio dalla cessazione del rapporto il risarcimento dei danni.

Infine la difesa della ricorrente incidentale ha depositato una memoria prima dell’udienza del 13 gennaio 2012 ed altra prima della nuova udienza successiva, fissata in data odierna a seguito del rinvio a nuovo ruolo della prima.

Motivi della decisione

I due ricorsi, principale e incidentale, vanno riuniti, avendo ad oggetto la medesima sentenza.

Il ricorso principale è infondato.

I giudici di merito hanno infatti individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998 e quindi in data antecedente a quella dei contratti di lavoro esaminati.

In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr, Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha operato una sorta di "delega in bianco" alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della parte resistente per la causale indicata, in quanto stipulato successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Alla luce di quanto sopra, resta altresì assorbita la censura fondata sulla pretesa irregolarità ed erronea interpretazione delle informazioni sindacali assunte dai giudici dell’appello.

Il ricorso incidentale introduce il tema delle conseguenze economiche della conversione a tempo indeterminato del contratto di lavoro tra le parti, il conseguenze che la Corte territoriale avrebbe erroneamente limitato, secondo la ricorrente incidentale, in violazione delle norme del codice civile e di quello di rito invocate nella relativa rubrica e più sopra indicate.

In proposito, devesi peraltro rilevare che successivamente all’instaurazione del presente giudizio di cassazione è intervenuto, come ius superveniens avente efficacia retroattiva, la L. n. 283 del 2010, art. 32, commi 5-7.

Tali disposizioni prevedono: il comma 5, che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8; il comma 6, che, in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purchè stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, i quali contemplino l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità è ridotto alla metà; il comma 7, che tali previsioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge.

Questa Corte, avendo ritenuto, in un giudizio analogo al presente, di dover fare applicazione della nuova disciplina, cassando con rinvio la sentenza impugnata in quanto investita anche da censure relative alle conseguenze della dichiarazione di illegittimità del termine, ha sollevato, con ordinanza del 28 gennaio 2011, questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 111 Coat. e art. 117 Cost., comma 1, della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Conseguentemente, il collegio ha rinviato a nuovo ruolo la presente causa in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sulle norme di legge indicate, ritenute rilevanti anche nel caso in esame.

Con la sentenza del 9 novembre 2011 n. 303, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le suddette questioni di legittimità costituzionale sollevate anche dal Tribunale di Trani.

Ciò premesso, va qui ribadito che la disciplina citata della legge n. 183/10 è applicabile anche a tutti i giudizi in corso (e quindi anche al giudizio di cassazione: cfr., al riguardo, recentemente, anche Cass. 29 febbraio 2012 n. 3056), senza che ciò ne determini l’illegittimità costituzionale, in particolare quanto alla violazione della norma interposta rappresentata dall’art. 6 della C.E.D.U..

Come infatti affermato dalla Corte costituzionale nella citata recente sentenza n. 303 del 2011, tale contrasto non sussiste, proprio alla luce della giurisprudenza europea, ricorrendo nel caso in esame le condizioni che secondo la Corte di Strasburgo escludono una valutazione di incompatibilità con l’art. 6 CEDU delle "nuove disposizioni diportata retroattiva volte a regolare, in materia civile, diritti già risultanti da leggi in vigore".

In proposito, la Corte ha infatti soprattutto valorizzato il carattere generale della nuova disciplina retroattiva e il suo collegamento con "motivi imperativi di carattere generale", individuati nella necessità, nella materia, di una disciplina più adeguata all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici per tutte le parti coinvolte, attraverso "la scelta di forfetizzazione indennitaria del risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente assunto a tempo determinato, in sè proporzionata nonchè complementare e funzionale al riaffermato primato della garanzia del posto di lavoro" (attraverso la conversione del rapporto a tempo determinato, con la conseguente sua prosecuzione ad ogni effetto).

Con riguardo al presente giudizio, va altresì ribadito che nel giudizio di legittimità costituisce condizione necessaria per poter applicare lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass., 8 maggio 2006 n. 10547).

Con riferimento alla disciplina qui richiamata, la ribadita necessita della sussistenza, nel giudizio di cassazione, della questione ad essa pertinente presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine.

Orbene, va anzitutto rilevato che nel caso in esame censure siffatte non sono contenute nel ricorso principale, per cui l’ammontare del danno liquidato con la sentenza impugnata è divenuto intangibile.

Censure in ordine all’ammontare del risarcimento del danno conseguente alla conversione del contratto a tempo indeterminato sono peraltro contenute nel ricorso incidentale, che lamenta la limitazione dello stesso al triennio successivo alla scadenza del termine avvenuta il 30 giugno 2000 e a partire dal momento della comunicazione dell’atto di messa in mora del 4 ottobre 2000.

La ricorrente incidentale non sembra avere in proposito abbandonato, alla luce del citato ius superveniens, la richiesta di liquidazione del maggior danno non riconosciutole, successivo al suddetto triennio e fino alla sentenza di conversione del contratto di lavoro.

Applicando detta normativa sopravvenuta con effetto retroattivo, tale domanda deve essere respinta, avendo la ricorrente incidentale definitivamente conseguito con la sentenza impugnata più del massimo importo che potrebbe ottenere, fino alla sentenza di conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, con l’applicazione di tale normativa.

Concludendo, in base alle considerazioni svolte, i due ricorsi, principale e incidentale, vanno respinti, con compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, compensando integralmente tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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