Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2012, n. 8296 Accordi sindacali nazionali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al Giudice del lavoro di Venezia D.A.F. chiedeva che venisse accertato il suo diritto al rimborso delle spese legali sostenute nel processo penale conclusosi con la sentenza della Corte di Cassazione n. 811/2003, che l’aveva vista assolta in secondo grado, dopo una condanna in primo grado, con la formula "il fatto non sussiste" dall’accusa di abuso d’ufficio ( art. 323 c.p.) relativamente ad una procedura di concorso che l’aveva vista partecipare quale segretaria del presidente della commissione. La ricorrente riteneva applicabile l’ipotesi del D.P.R. n. 270 del 1987, art. 41 ma l’AULSS (OMISSIS) Veneziana non aveva aderito alla richiesta.

La convenuta si costituiva rilevando che nel caso di specie l’assoluzione della dipendente era dipesa da aspetti di configurazione giuridica del reato, perchè, al contrario, il fatto dal quale si desumeva un comportamento contrario ai doveri d’ufficio appariva confermato, di guisa che non era dovuto il rimborso delle spese legali.

Il giudice di primo grado rigettava il ricorso compensando tra le parti le spese del giudizio.

La D.A. proponeva appello deducendo che il primo giudice aveva errato nel ritenere che la pronuncia assolutoria penale non avesse escluso la condotta, che non fosse emersa la sua correttezza e buona fede e che sussistesse un conflitto di interessi, nonchè nel non considerare la nuova ricostruzione dei fatti eseguita in sede di appello.

L’azienda appellata si costituiva chiedendo il rigetto del gravame e la conferma della pronuncia di primo grado, ad eccezione delle spese per le quali proponeva appello incidentale chiedendo la condanna della dipendente.

La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza depositata il 22-12-2009, rigettava l’appello principale e in accoglimento dell’appello incidentale condannava la D.A. al pagamento delle spese di primo grado, condannando altresì la stessa al pagamento anche delle spese di appello.

In sintesi la Corte territoriale rilevava che la condotta della D. A., consistita nella alterazione dei voti a favore di un candidato, seppure non integrante il reato di abuso di ufficio, integrava senz’altro un comportamento di scorrettezza e mala fede, confliggente con gli interessi dell’azienda.

Per la cassazione di tale sentenza la D.A. ha proposto ricorso con quattro motivi.

La Azienda Unità Locale Socio Sanitaria (OMISSIS) Veneziana ha resistito con controricorso.

Infine la D.A. ha proposto memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente lamenta contraddittorietà e insufficienza della motivazione in ordine alle affermazioni della sentenza penale di appello circa la mancata prova in punto di fatto dei presupposti per pervenire al giudizio di colpevolezza della D. A., "atteso anche il ruolo assolutamente marginale da lei rivestito in questa vicenda".

Con il secondo motivo, denunciando violazione del D.P.R. n. 279 del 1987, art. 41 e vizio di motivazione, in sostanza la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello, sul punto decisivo del conflitto di interessi con l’azienda, "si limita ad affermare la dott. D.A. avrebbe ammesso in sede di interrogatorio dibattimentale davanti al giudice di primo grado di aver alterato il verbale recante il punteggio" e deduce che "nessun verbale è stato prodotto" e nella sentenza penale di primo grado "non vi è nessuna ammissione in tal senso". La ricorrente ribadisce inoltre di essere stata assolta con formula piena.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia contraddittorietà e insufficienza della motivazione "relativamente alla circostanza che l’Azienda ULSS (OMISSIS) avrebbe revocato il suo primo provvedimento favorevole solo dopo aver letto le sentenze penali non solo nel dispositivo ma in tutta la motivazione".

I detti motivi, connessi fra loro, non meritano accoglimento.

Così come già affermato da questa Corte con riferimento alla analoga norma (prevista per le aziende o amministrazioni autonome dello Stato) di cui al D.P.R. n. 335 del 1990, art. 20 (v. Cass. 20- 11-2003 n. 17651), ritiene il Collegio che, anche in relazione al D.P.R. 20 maggio 1987, n. 270, art. 41 (che prevede che "l’ente, nella tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile e penale nei confronti del dipendente per fatti e/o atti direttamente dei compiti d’ufficio assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interesse, ogni onere di difesa fin dall’apertura del procedimento e per tutti i gradi del giudizio, facendo assistere il dipendente da un legale") va enunciato che "spetta al giudice di merito accertare se l’imputazione è avvenuta per atti o comportamenti costituenti espletamento del servizio ovvero in conflitto di interessi con l’amministrazione e la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivata, non potendo il giudice di legittimità riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, disponendo della sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito." Nella fattispecie la Corte territoriale, premesso che "i fatti all’origine della contestazione penale riguardano una modifica effettuata dalla D.A., del punteggio di un candidato in un concorso pubblico per favorirlo rispetto ad un altro candidato", ha affermato che "questa condotta non è stata esclusa dalla sentenza di assoluzione della Corte di Appello penale di Venezia che ha rilevato, per altro, come tale condotta non poteva comportare il vantaggio richiesto per la realizzazione della fattispecie penale contestata ( art. 323 c.p.) perchè nella procedura di concorso vi era un’altra candidata in una posizione migliore rispetto al candidato favorito che aveva comunque diritto a vincere il concorso e l’imputata non era a conoscenza della circostanza che tale candidata avrebbe rifiutata l’assegnazione del posto a concorso".

In particolare, al riguardo, sul punto, la Corte di merito ha spiegato che "leggendo interamente la sentenza richiamata si comprende agevolmente che l’estraneità della D.A. è riferita alla circostanza della conoscenza del rifiuto della candidata classificatasi prima e vincitrice del concorso perchè il resto della condotta descritta nella sentenza di primo grado penale (cioè la circostanza che la D.A. in concorso con il presidente della commissione, aveva più volte deliberatamente e scientemente alterato il punteggio allo scopo di favorire un candidato) non è stato preso in considerazione perchè privo di rilevanza penale una volta escluso il profitto ritenuto indispensabile per la realizzazione di un reato di evento come l’art. 323 c.p. contestato" (motivo, quest’ultimo, per il quale la D.A. è stata assolta "perchè il fatto non sussiste").

La Corte, inoltre, ha aggiunto che soltanto dopo una approfondita valutazione della motivazione della sentenza penale di appello, l’azienda, che pur in un primo momento aveva risposto positivamente alla richiesta della dipendente, ha riscontrato nella fattispecie "una situazione tale da non consentire l’accoglimento della richiesta di rimborso sul presupposto della realizzazione di comportamenti configgenti con gli interessi dell’azienda stessa", evidenziando, peraltro, la netta autonomia tra la valutazione fatta in sede penale e quella "che ha portato alla decisione dell’azienda di non coprire le spese legali della propria dipendente".

Tale accertamento, effettuato sulla scorta degli elementi di fatto chiaramente emersi dalle risultanze del processo penale e confermati dalla sentenza penale di secondo grado, risulta conforme a diritto e congruamente motivato e resiste alle censure della ricorrente.

In particolare va osservato che la sentenza impugnata ha spiegato chiaramente che la "marginalità" del ruolo rivestito dalla D.A. nella vicenda ha riguardato gli elementi di fatto ulteriori necessari per la integrazione del fatto-reato, confermando per tutto il resto la condotta della dipendente (in concorso con il presidente della commissione).

E’ evidente, quindi, che la assoluzione "perchè il fatto non sussiste" (in sostanza per la mancanza del "vantaggio richiesto per la realizzazione della fattispecie penale contestata"), per nulla ha escluso la autonoma valutazione, ai fini della sussistenza del conflitto di interessi con l’azienda ai sensi dell’art. 41 citato, della condotta della lavoratrice, comunque chiaramente emersa nel processo penale.

La circostanza, poi, che tale condotta sia stata ammessa dalla stessa D.A. in sede di interrogatorio davanti al giudice penale in primo grado, in effetti è stata rilevata "ad abundantiam" dalla Corte di merito, per cui la relativa censura della ricorrente risulta inammissibile (v. Cass. 22-11-2010 n. 23635, Cass. 23-11-2005 n. 24591).

Peraltro al riguardo la ricorrente si è limitata a negare genericamente la sussistenza di tale ammissione richiamando la pagina 51 della sentenza penale di primo grado, senza riportarne affatto il contenuto in ossequio al principio di autosufficienza, con conseguente inammissibilità, anche sotto tale profilo, della censura relativa.

Infine parimenti infondato è il quarto motivo, con il quale la ricorrente denuncia contraddittoria e/o insufficiente motivazione, relativamente alla sua condanna alle spese del primo grado di giudizio, in accoglimento dell’appello incidentale di controparte, rilevando all’uopo che l’assoluzione con formula piena e il ruolo marginale nella vicenda hanno evidentemente indotto il giudice di prime cure alla compensazione delle spese.

Premesso che ai fini della compensazione delle spese, nei procedimenti instaurati dopo il 1-3-2006, i giusti motivi devono essere esplicitamente indicati in motivazione (v. fra le altre Cass. 27-9-2010 n. 20324, Cass. 30-5-2008 n. 14563), questa Corte ha altresì precisato che gli stessi possono "essere evincibili anche dal complessivo tenore della sentenza, con riguardo alla particolare complessità sia degli aspetti sostanziali che processuali, ma se nessuno di tali presupposti sussiste deve applicarsi il generale principio della condanna alle spese della parte soccombente, non potendo trovare luogo l’esercizio del potere discrezionale giudiziale di compensazione" (v. Cass. 30-3-2010 n. 7766).

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale ha accolto l’appello incidentale, rilevando espressamente che il solo generico richiamo a ragioni di opportunità, fatto al riguardo dal giudice di primo grado "non costituisce adeguata motivazione sul punto", richiamando la pronuncia di questa Corte n. 16205/2007 (che ha escluso la legittimità di una compensazione delle spese giustificata da generici "motivi di opportunità e di equità" non sorretti "nè da una motivazione esplicitamente specifica nè, quanto meno, da quella complessivamente adottata a fondamento dell’intera pronuncia").

Tale decisione risulta conforme ai principi sopra richiamati e resiste alla censura della ricorrente.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 22 marzo 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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