Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2012, n. 8293 Concorso di colpa del danneggiato Liquidazione e valutazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 3.7.2009, il Tribunale di Pesaro ha rigettato l’impugnativa del recesso per giusta causa comunicato in data 19.7.2005 dalla Banca delle Marche S.P A. a G.R., quadro direttivo di terzo livello con mansioni di direttore della filiale di (OMISSIS), e la domanda riconvenzionale proposta dal datore di lavoro per il risarcimento del danno consistito nelle perdite conseguenti alle incaute aperture di credito autorizzate dal G., oggetto delle contestazioni sanzionate con l’impugnato licenziamento.

L’impugnazione del ricorrente era fondata sul rilievo che la sanzione non poteva ritenersi giustificata, in quanto: si trattava di lavoratore con eccellente curriculum e mai in precedenza oggetto di provvedimenti disciplinari; sei delle tredici contestazioni riguardavano aperture di credito disposte in favore di soggetti "segnalati" da un autorevole responsabile del "Client Corporate" le cui indicazioni venivano per prassi senz’altro eseguite e che doveva ritenersi l’ideatore ed artefice di un truffaldino sistema inteso a godere dei finanziamenti ottenuti in favore di soggetti inaffidabili;

le altre contestazioni erano riferite a inadempimenti di modesta entità e ricorrenti nella prassi di agenzie impegnate nella gestione di centinaia di posizioni; altri dipendenti responsabili di condotte analoghe a quelle contestate al G. non erano stati sanzionati, così come il suddetto che si era volontariamente dimesso; la responsabilità dell’accaduto era da imputarsi alla Banca medesima, la quale non aveva predisposto ed attivato i necessari sistemi di controllo interno.

L’istituto di credito resistente, attore in riconvenzionale, aveva dedotto che: già in data 14.2.2005 il G. era stato destinatario, all’esito di verifica ispettiva presso la filiale da lui diretta, era stato sanzionato con un giorno di sospensione dal servizio e dalla retribuzione; che le ulteriori verifiche avevano condotto all’accertamento di ulteriori inadempienze, tali da configurare un quadro di sistematica e grave violazione delle più elementari regole di prudenza e avvedutezza nell’erogazione del credito e dei regolamenti interni; che le condotte del T. – soggetto peraltro non in posizione di supremazia gerarchica e le cui competenze esulavano del tutto dalle aperture di credito autorizzate dal G. – non giustificavano le inadempienze del ricorrente.

G.R. ha appellato la citata decisione nella parte in cui ha rigettato l’impugnazione del licenziamento, chiedendone la riforma nel senso dell’annullamento per difetto di giusta causa del licenziamento, per i seguenti motivi: la sussistenza della violazione del principio c.d. del ne bis in idem era stata erroneamente esclusa relativamente alle contestazioni relative alle aperture di credito accordate a quattro società, sulle quali era stata fondata la sanzione irrogata il 14.2.2005; la "sproporzione" della sanzione impugnata era stata esclusa sulla base di considerazioni conferenti solo rispetto al diverso problema della disparità di trattamento, cosicchè risultava omessa la necessaria valutazione dei profili di proporzionalità e gradualità della sanzione disciplinare, anche in relazione a rilevanti circostanze di tipo obbiettivo, soggettivo ed "ambientale"; nessuna motivazione era stata fornita sotto il profilo del diverso trattamento riservato ad altri dipendenti.

2. La Banca delle Marche si è costituita in giudizio, domandando il rigetto dell’appello principale sul rilievo della correttezza ed esaustività della motivazione che aveva condotto al rigetto della domanda del ricorrente, proponendo domande subordinate per l’ipotesi di riforma sul punto ed incidentalmente chiedendo la riforma della sentenza nel senso della riconvenzionale condanna del G. al risarcimento del danno consistito nelle irrecuperabili perdite sui crediti conseguenti agli incauti affidamenti disposti, di cui la c.t.u. esperita in prime cure aveva dato puntuale conferma, con compensazione impropria delle somme così determinate e dei relativi accessori, con i crediti spettanti all’altra parte. Lamenta sul punto l’appellante incidentale che l’obbligo di attivarsi per la riduzione del danno non potrebbe estendersi ad iniziative giudiziarie di probabile inutilità, in considerazione delle arguibili condizioni patrimoniali dei soggetti debitori, mentre la circostanza che taluni dei soggetti affidati disponessero di effettiva e non meramente fittizia organizzazione imprenditoriale si palesa irrilevante sotto il profilo in questione.

3. Con sentenza del 18.6.2010 la Corte d’appello di Ancona ha rigettato l’appello principale proposto da G.R. ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale proposto da Banca delle Marche S.P.A.; in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pesaro n. 157/09, ha condannato G.R. al pagamento della somma di Euro 1.524.700,09, oltre rivalutazione secondo gli indici ISTAT del costo della vita per le famiglie dei lavoratori dipendenti e interessi al saggio legale sulla somma annualmente rivalutata dalla esigibilità dei crediti della Banca delle Marche S.P.A. rimasti insoddisfatti alla data della sentenza, da diminuirsi della somma corrispondente ad un quinto dei credito di Euro 26.750,00 spettante al G. e dei relativi rivalutazione ed interessi di legge fino alla data della decisione – nonchè alla rifusione delle spese di lite.

4. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione il ricorrente con sei motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata che ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è articolato in sei motivi, dei quali i primi tre riguardano la contestata legittimità del licenziamento.

1.2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del principio generale di diritto del "ne bis in idem" e del principio della legittimità delll’"emendatio libelli" in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e all’art. 2119 c.c. Il ricorrente si lamenta in particolare del fatto che il licenziamento è stato dichiarato legittimo anche per condotte che avevano trovato già apposita sanzione nel febbraio del 2005, con l’erogazione di un giorno di sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Inoltre sostiene che nella specie non può parlarsi di domanda nuova in grado d’appello, atteso che in quel grado c’era stata una mera specificazione di integrazione dei motivi di diritto posti alla base dell’iniziale ricorso.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del principio generale della proporzionalità della sanzione disciplinare in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e all’art. 2119 del c.c. nonchè all’art. 1455 c.c.. In particolare il ricorrente lamenta la disparità di trattamento rispetto ad altri dipendenti, anch’essi responsabili dei medesimi addebiti.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. In particolare il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che il danno per la banca poteva considerarsi attuale già al momento in cui risultava definitiva la non recuperabilità dei crediti erogati per effetto di un suo allegato comportamento negligente.

1.2. Altri tre motivi (quarto, quinto e sesto) riguardano il capo della sentenza inerente alla condanna al risarcimento del danno.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2104 e 2697 c.c., in ordine alla prova della responsabilità e del nesso causale tra diligenza e danno risarcibile. In particolare nega che sia risultata provata la sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta contestata dagli come addebito disciplinare e le perdite lamentate dalla banca.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione falsa applicazione degli artt. 1292, 1294, 2055 c.c. Secondo il ricorrente la Corte d’appello non ha tenuto conto del fatto che altri dipendenti della banca erano responsabili delle stesse negligenze che avevano avuto conseguenze meno gravi, così rivelando un ingiustificato comportamento discriminatorio della banca.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 2, e dell’art. 2697 c.c..

Secondo il ricorrente il mancato esperimento di iniziative giudiziarie stava a significare una negligenza della banca che era rilevante ai fini della quantificazione del danno risarcibile.

2. Il ricorso – quanto ai primi tre motivi che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi – è infondato.

2.1. Innanzitutto non è fondato il primo motivo di ricorso.

La Corte d’appello ha correttamente rilevato in rito che il ricorrente in primo grado non aveva dedotto la violazione del principio del ne bis in idem, nel senso che non si era doluto del fatto che la banca, dopo aver irrogato la prima sanzione disciplinare (un giorno di sospensione dai servizio e dalla retribuzione) per irregolarità emerse a seguito di una prima verifica ispettiva effettuata presso la filiale di Riccione e relative a quattro posizioni di apertura di credito, aveva successivamente contestato, all’esito di un’ulteriore verifica della medesima filiale (successiva di pochi mesi), irregolarità relative a 13 posizioni, comprensive delle prime quattro. La Corte d’appello non ha disconosciuto quindi il principio del "ne bis in diem" per cui il potere disciplinare, una volta esercitato, si consuma; cfr. Cass., Sez. Lav., 27 marzo 2009, n. 7523, che ha affermato che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonchè dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati – ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati – ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati). La Corte d’appello ha invece argomentato in rito ritenendo che la deduzione della suddetta circostanza di fatto (i.e. continenza dei fatti della prima contestazione in quella della più ampia seconda contestazione di addebito) e della violazione del principio del "ne bis in idem" non fosse possibile per la prima volta in grado d’appello. Valutazione questa corretta perchè il ricorrente, introducendo per la prima volta in appello un tema di indagine del tutto nuovo (i.e. parziale consumazione del potere disciplinare) rispetto a quello dibattuto nel giudizio di primo grado (sussistenza, o no, dell’addebito disciplinare, oggetto della lettera di contestazione che ha preceduto il licenziamento disciplinare), ha operato una vera e propria modifica della censura di illegittimità del licenziamento (che ridonda in mutatio libelli essendo mancata in primo grado l’autorizzazione del giudice alla modifica della domanda ai sensi dell’art. 420 c.p.c.) e non già una mera precisazione della censura oggetto dell’originario ricorso di primo grado (ossia una emendatio libelli, compatibile con il divieto del novum in appello).

Correttamente la Corte d’appello ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. Lav., 10 settembre 2003, n. 13291) che ha affermato che, qualora il lavoratore abbia dedotto, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la illegittimità del proprio licenziamento per difetto di giusta causa o giustificato motivo, sotto un profilo specifico determinato, il giudice d’appello non può dichiarare la illegittimità dello stesso licenziamento sotto un profilo diverso, ancorchè dedotto dal lavoratore con l’atto di appello, senza che ne risulti violato il principio della domanda e quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, trattandosi di domanda nuova – quanto a causa petendi semprechè ne risulti dedotto a fondamento un fatto nuovo, e non già soltanto una diversa qualificazione giuridica di un fatto già dedotto nel corso del giudizio di primo grado. Cfr. anche Cass., Sez. Lav., 26 giugno 2000, n. 8702.

Quindi analogamente va ora affermato che, qualora il lavoratore abbia dedotto, con il ricorso introduttivo di primo grado, l’illegittimità del licenziamento disciplinare deducendo l’insussistenza dei fatti addebitatigli, costituisce inammissibile mutamento della domanda, la richiesta in appello di accertamento della illegittimità del medesimo licenziamento per consumazione, in tutto o in parte, del potere disciplinare deducendo per la prima volta in appello che i fatti posti a fondamento dell’impugnato licenziamento erano già stati oggetto di una precedente contestazione disciplinare seguita dalla irrogazione di una sanzione disciplinare.

Può solo aggiungersi infine che non è controverso tra le parti che i fatti oggetto della contestazione di addebito (relativi a 13 posizioni di aperture di credito fatte dal G. – secondo la Banca resistente – con negligenza e con violazione delle procedure interne di istruttoria dell’erogazione del credito) siano gli stessi posti a fondamento del licenziamento disciplinare e che quindi fossero ben noti al ricorrente; il quale, nell’atto introduttivo del giudizio, si è doluto dell’insussistenza di tali addebiti e non già della parziale sovrapposizione degli stessi con gli addebiti relativi a una precedente sanzione disciplinare di natura conservativa.

Come anche non è contestato il rispetto delle garanzie procedimentali di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 che trova applicazione anche nel caso del licenziamento disciplinare del dirigente (Cass., sez. un., 30 marzo 2007, n. 7280).

2.2. Inammissibili sono poi il secondo e il terzo motivo di ricorso che censurano in particolare la ritenuta proporzionalità della sanzione del licenziamento disciplinare rispetto agli addebiti contestati, requisito questo che parimenti trova applicazione nel caso di licenziamento disciplinare del dirigente. Si tratta di una valutazione devoluta al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità ove – come nella specie – sia sorretta da sufficiente e non contraddittoria motivazione. In particolare la Corte d’appello ha rilevato il carattere reiterato e grave che aveva connotato il comportamento negligente del ricorrente nelle aperture di credito di cui alla lettera di contestazione, con violazione di specifiche disposizioni regolamentari e delle regole di best practices (buona gestione) nella materia del credito. L’accertamento della sussistenza dei singoli addebiti è risultata dalla consulenza tecnica d’ufficio che ha riconosciuto, nella specie, la violazione delle norme interne di materia di erogazione del credito, essendo stati affidati, per importi ingenti, soggetti in precedenza mai sperimentati, senza alcuna previa approfondita istruttoria delle loro condizioni economiche e senza apprezzabili garanzie.

Motivatamente quindi la Corte d’appello, che peraltro ha confermato in questa parte la pronuncia di primo grado, ha ritenuto che la gravità delle condotte negligenti del ricorrente integrasse il presupposto giustificativo del licenziamento disciplinare, stante anche il particolare vincolo fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro. La circostanza che in precedenza al dirigente era stata applicata una sanzione conservativa per una condotta analoga (erogazione del credito in violazione della normativa interna, relativamente a quattro posizioni) non fa venir meno il requisito della proporzionalità della sanzione espulsiva allorchè tale condotta è proseguita nel tempo in riferimento ad un maggior numero di posizioni della clientela individuale della banca.

Inammissibile è parimenti, in particolare, il terzo motivo di ricorso, strettamente connesso con il secondo motivo, atteso che la Corte d’appello motivatamente, con valutazione di merito ad essa riservata, ha ritenuto che la grave e reiterata violazione, da parte del ricorrente, delle regole interne nell’erogazione del credito costituisse giusta causa di licenziamento perchè esponeva la Banca ad un rischio anomalo, poi nella specie concretizzatosi nella parziale insolvenza dei soggetti affidati.

La Corte d’appello ha fatto riferimento alla nozione di giusta causa, ma nella specie era sufficiente – per legittimare il licenziamento – la sua giustificatezza. Cfr. Cass., Sez. Lav., 13 dicembre 2010, n. 25145, che ha ribadito che la disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi 15 L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 10 ai dirigenti. Occorre quindi far riferimento al canone della giustificatezza del recesso, che costituisce un quid minoris rispetto alla giusta causa; cfr. Cass., Sez. Lav., 11 giugno 2008, n. 15496, che ha precisato che la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo L. n. 604 del 1966, ex art. 1 potendo rilevare qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore.

3. Gli altri tre motivi del ricorso, che attengono alla pretesa risarcitoria della banca e che possono anche essi essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono fondati per la parte e sotto il profilo di cui si viene ora a dire.

3.1. La Corte d’appello, con valutazione di merito, fondata sulla consulenza tecnico d’ufficio e sulla documentazione prodotta, ha ritenuto la definitiva perdita dei crediti erogati in ragione della condotta negligente del ricorrente. In particolare la Corte d’appello ha affermato che "il danno può considerarsi attuale già al momento in cui emergano elementi che consentano di fondare la presunzione della definitiva irrecuperabilità del credito, segnatamente dando contezza dell’inesistenza di beni dei debitori assoggettabili ad esecuzione di garanzie utilmente escutibili".

Il danno risarcibile però consiste nella "perdita" (art. 1223 c.c.) per la Banca che non può non raccordarsi allo stato di insolvenza dei debitori che abbiano beneficiato del credito negligentemente autorizzato dal ricorrente. A tal fine non è sufficiente la mera presunzione di definitiva irrecuperabilità del credito, fondata sull’inesistenza di beni dei debitori e di garanzie del credito stesso. Occorre che la Banca abbia costituito in mora il debitore o abbia attivato un procedimento monitorio o esecutivo che attesti l’inadempienza del debitore, coonestandone l’insolvenza.

L’assenza di tentativi di recupero coattivo dei crediti nei confronti dei clienti insolventi rileva proprio sul piano della integrazione del presupposto del danno risarcibile (i.e. la " perdita" del creditore) prima ancora che ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, secondo cui il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza….).

E’ vero che – come affermato da Cass., sez. 1, 5 maggio 2010, n. 10895 – l’obbligo di diligenza gravante sul creditore, che rappresenta espressione del più generale dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati tendendo a circoscrivere il danno derivante dall’altrui inadempimento entro i limiti che rappresentino una diretta conseguenza dell’altrui colpa, non comprende anche l’obbligo di esplicare una straordinaria o gravosa attività, nella forma di un tacere non corrispondente all’id quod plerumque accidit;

ciò perchè l’art. 1227 c.c., comma 2, nel porre come condizione per il risarcimento dei danni l’inevitabilità degli stessi da parte del creditore, impone a quest’ultimo un dovere di cooperazione che si deve estrinsecare in un comportamento certamente operoso, improntato all’ordinaria diligenza, che non può però comprendere, per sua stessa definizione, attività tali da comportare sacrifici, esborsi, o assunzione di rischi, quale può essere l’esperimento di un’azione giudiziaria, sia essa di cognizione o esecutiva, che rappresenta esplicazione di una mera facoltà, dall’esito non certo.

Però per altro verso il danno risarcibile non può ritenersi accertato in ragione della mera presunzione di definitiva irrecuperabilità del credito della Banca, ma occorre che l’insolvenza del debitore, beneficiario del credito nella specie colposamente autorizzato dal dirigente della filiale della banca, sia attuale ed attestata in modo formale.

Fondata quindi è la doglianza del ricorrente che ha censurato la sentenza impugnata per aver accolto la domanda risarcitoria della banca sui presupposto della mera probabilità della definitiva irrecuperabilità dei crediti negligentemente autorizzati, e non già della attestata insolvibilità dei beneficiari di tali crediti.

3.2. Deve poi aggiungersi che il ricorrente ha molto insistito anche sulla responsabilità solidale del back office (struttura di supporto per l’istruttoria delle domande di credito), del vice titolare e della direzione generale nell’erogazione del credito in riferimento alle 13 posizioni di cui alla lettera di contestazione degli addebiti. Ossia nella sostanza il ricorrente ha lamentato la mancata considerazione, nella quantificazione del danno risarcibile, della concorrente responsabilità di altri addetti alla complessiva operazione di erogazione del credito.

Anche sotto questo profilo si coglie nella sentenza impugnata un elemento di contraddittorietà.

Infatti è sì vero che la Corte d’appello, nel valutare la incidenza degli addebiti contestati al ricorrente, correttamente afferma che la gravità della condotta negligente del ricorrente, direttore della filiale della Banca e quindi dipendente più alto in grado in tale unità produttiva, non veniva meno in ragione della concorrente responsabilità di altri addetti alle operazioni di erogazione del credito nella complessa procedura interna. Più specificamente afferma la sentenza impugnata: "si tratta, infatti, di semplici concause, che nulla tolgono alla gravità e alla pericolosità intrinseca della negligenza del G. e all’ingiustificabile trascuratezza con cui egli ha svolto le delicate mansioni affidategli, tradendo la fiducia accordatagli".

Se però queste "concause" della complessiva esposizione debitoria dei soggetti affidati nelle 13 posizioni di cui alla contestazione degli addebiti non sminuiscono la gravità della condotta negligente del ricorrente, le stesse per altro verso non sono ininfluenti al fine del risarcimento del danno in favore della banca. Infatti, trattandosi di responsabilità contrattuale, non opera il disposto dell’art. 2055 c.c. che prevede che, se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno, salvo il diritto di regresso che colui che ha risarcito il danno ha nei confronti di ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Nel caso dell’inadempimento contrattuale opera il diverso principio della responsabilità personale del debitore che versi nella situazione di inadempimento. Sicchè, ove siano configurabili plurimi inadempimenti contrattuali, quali quelli di dipendenti che, ciascuno di essi singolarmente, abbiano violato gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, il giudice adito con domanda risarcitoria proposta dal creditore deve accertare in concreto la riferibilità del danno alla condotta specifica posta in essere dal lavoratore.

Va quindi affermato in generale – come principio di diritto – che, quando un medesimo danno è provocato da più lavoratori, per inadempimenti contrattuali diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il datore di lavoro danneggiato, i lavoratori non possono essere considerati corresponsabili in solido sulla base della mera estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell’art. 2055 cod. civ., dettata solo per la responsabilità extracontrattuale, ma occorre accertare per ciascuno di essi il nesso di causalità con l’evento dannoso complessivo e quindi la concreta incidenza dell’inadempimento di ciascuno (cfr., in materia non di rapporto di lavoro, Cass., Sez. 3, 30 marzo 2010, n. 7618).

Nella specie la Corte d’appello da una parte ha ritenuto che, oltre alla condotta negligente del ricorrente nell’erogazione del credito, vi erano state delle "concause", consistenti in condotte parimenti negligenti di altri dipendenti (vice direttore della filiale, addetti alla istruttoria delle pratiche di erogazione del credito); d’altra parte però nel riconoscere la responsabilità per danni del ricorrente per l’intera "perdita" subita dalla banca, ha del tutto pretermesso tali "concause" sicchè l’affermazione della responsabilità risarcitoria del ricorrente per l’intero non risulta sorretta da sufficiente motivazione.

Si ha invece che l’eventuale incidenza di altri comportamenti negligenti nella procedura di erogazione del credito – che certo non valeva a scriminare il ricorrente sotto il profilo della valutazione di legittimità del licenziamento disciplinare, così come correttamente affermato dalla Corte d’appello – avrebbe richiesto l’accertamento in concreto dell’addebitabilità, per l’intero o in parte, al ricorrente della "perdita" subita dalla banca, in presenza di riconosciute "concause" consistenti in comportamenti parimenti censurabili di altri dipendenti appartenenti allo staff deputato all’istruttoria delle pratiche di erogazione dei credito.

Sotto entrambi questi profili (verifica dell’effettiva insolvenza dei soggetti beneficiari del credito ed accertamento in concreto dell’addebitabilità al ricorrente dell’intera perdita della banca) le censure del ricorrente sono fondate.

3. Il ricorso va quindi rigettato nei suoi primi tre motivi, relativi alla legittimità del licenziamento disciplinare, e va invece accolto negli altri tre motivi relativi al risarcimento del danno, quanto ai profili suddetti.

La sentenza impugnata va quindi cassata limitatamente ai motivi accolti con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello dell’Aquila, enunciando il principio di diritto sopra formulato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto, quinto e sesto motivo del ricorso, rigettato gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello dell’Aquila.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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