Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-05-2012, n. 8494 Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 15 aprile 1987 la signora T.M., ved. P., e la signora P.A.M. esponevano: – che con scrittura privata del 31 dicembre 1972 B.U. aveva ceduto a P.F., rispettivamente coniuge e genitore, la metà indivisa della proprietà dell’azienda agricola (OMISSIS), per il corrispettivo di L. 46.000.000 e che, con successiva scrittura del 1 luglio 1974, le parti avevano concordato di ridurre al 44% la quota del compratore, dandosi atto dell’intervenuto pagamento del corrispettivo, ridotto in L. 43.120.000;

– che, nonostante i solleciti, la compravendita non era stata mai formalizzata e che il P.F., deceduto il (OMISSIS), aveva lasciato eredi esse attrici; tanto premesso, convenivano il predetto B.U. dinanzi al Tribunale di Verona per sentir accertare, in via principale, l’autenticità delle sottoscrizioni apposte alle scritture e, conseguentemente, dichiarare esse attrici proprietarie, per la metà ciascuna, della quota indivisa del 44% dei terreni di cui all’azienda agricola, censiti in Comune di (OMISSIS), al foglio 90, mapp. nn. 7/89/90/92/93/94/95/96/126/182, nonchè al foglio 97, iscritti al mappale 1/2/3/4/36/37/38/39/188/313/314/315/316/317/319/315/321/316/328/333/3 25 e ancora al foglio 90 nn. 7 e 125, con condanna del convenuto al risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi, e, in via subordinata, per l’ipotesi in cui si fosse ritenuto che il negozio integrava un preliminare di compravendita, chiedevano l’emissione di una pronuncia ex art. 2932 c.c., sostitutiva del contratto non concluso; in ogni caso, instavano per lo scioglimento della comunione e l’attribuzione della quota in natura ad esse spettante. Radicatosi il contraddittorio, il convenuto si costituiva in giudizio e, pur non disconoscendo l’autenticità delle due scritture indicate nella domanda delle attrici, deduceva che, tuttavia, con successivi scritti dell’11 ottobre 1977, 22 agosto 1978 e del 30 agosto 1987, il P.F. gli aveva restituito la somma di L. 50.000.000, con l’accordo di una congrua e proporzionale riduzione della quota di proprietà allo stesso spettante, prospettando che tale condotta si sarebbe dovuta considerare significativa di una sopravvenuta risoluzione consensuale del contratto; pertanto, instava, in via principale, per la dichiarazione di risoluzione del contratto e, in linea subordinata, per la rideterminazione della quota di proprietà rimasta in capo alle attrici e, in ulteriore subordine, per la condanna alle spese e alla restituzione di quanto percepito dal loro dante causa, con interessi e rivalutazione, chiedendo, in via riconvenzionale, che le attrici venissero condannate all’immediato rilascio del fondo (OMISSIS) e del terreno, non ricompreso in tale azienda, denominato (OMISSIS), dalle medesime arbitrariamente detenuto. Esperita l’istruzione probatoria, il Tribunale adito, con sentenza non definitiva n, 954 del 1993 (depositata il 22 luglio 1993), dichiarava la nullità del negozio del 31 dicembre 1972 per indeterminatezza dell’oggetto e, con separata ordinanza, rimetteva la causa sul ruolo per il rilascio del fondo e la determinazione dell’indennizzo domandato per le sue migliorie. Avverso detta sentenza proponevano appello le originarie attrici, con la costituzione dell’appellato B.U.. Nelle more del giudizio di secondo grado decedevano sia l’appellante T.M. (e, per la stessa, la P.A.M., si costituiva quale sua unica erede), sia il B.U., per il quale si costituivano i figli P., L. ed A..

Con sentenza non definitiva n. 868 del 2002, la Corte di Appello di Venezia, in riforma dell’impugnata sentenza, così provvedeva: a) dichiarava l’autenticità delle sottoscrizioni di B.U. e P.F. apposte in calce alle scritture private del 31 dicembre 1972, del 1 gennaio 1974, dell’11 ottobre 1978 e del 24 gennaio 1978 dedotte in controversia; b) dichiarava, per l’effetto, P.A.M., quale erede di P.F., proprietaria nella misura del 38% del fondo agricolo (OMISSIS) (come precedentemente individuato); c) dichiarava, altresì, sciolta la comunione tra la P.A. M. e B.P., B.L. e B.A., quali eredi di B.U., ed assegnava alle parti le porzioni di cui all’elaborato peritale del c.t.u., con allegata planimetria, da intendersi parti integranti della sentenza; d) ordinava la trascrizione della sentenza al competente Conservatore dei RR.II.; e) respingeva la domanda di risarcimento danni; f) rimetteva la causa in istruttoria come da separata ordinanza in ordine alla necessità di procedere al necessario frazionamento e ai fini della cognizione della domanda relativa alle migliorie per la quale il Tribunale aveva espressamente riservato ogni delibazione al prosieguo del giudizio di primo grado. Con successiva sentenza definitiva n. 613 del 2008 (depositata il 21 aprile 2008), la stessa Corte di appello di Venezia, in riforma dell’impugnata sentenza n. 954 del 1993 del Tribunale di Verona e ad integrazione delle statuizioni della sentenza non definitiva n. 868 del 2002 della stessa Corte, confermate le assegnazioni relative ai fabbricati insistenti sul mappale 188 del foglio 97 e sul mappale 2 dello stesso foglio agli eredi di B.U. e di quelli insistenti sui mappali 95 e 96 del foglio 90 a P.A.M., così provvedeva ulteriormente: – assegnava agli eredi di B.U. i mappali 1059, 1061, 1063, 126,245, 246 del foglio 90 e 1, 3, 743, 310, 313, 314, 315, 316, 317, 321, 325, 328, 333, 189, 745 del foglio 97; – assegnava a P.A.M. i mappali 1060, 1062, 1064, 247 del foglio 90 e 36, 37, 38, 39, 744, 746 e 414 del foglio 97 come meglio indicati con corredo di frazionamento nella relazione di c.t.u.; – dichiarava interamente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio, accollando alle spese, in proporzione delle rispettive quote, le spese occorse per la c.t.u..

Nei riguardi di entrambe le sentenze della Corte veneta (per la prima delle quali era stata fatta tempestiva riserva di impugnazione) ha proposto ricorso per cassazione il B.L. riferito a tre motivi, avverso il quale si è costituita in questa sede la sola intimata P.A.M., mentre le altre due parti intimate non hanno svolto attività difensiva. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata deducendo la nullità dell’intero procedimento di secondo grado e, quindi, la nullità di entrambe le sentenze impugnate (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4) per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di Ba.El., quale moglie del B.U. (ancora in vita alla sua morte, in conseguenza della quale il giudizio era stato interrotto, ed erede dello stesso), oltre che nei riguardi di tale Bo.Si., assunta come figlia naturale (ancorchè non formalmente riconosciuta) del medesimo B. U., nata da una sua relazione extraconiugale. A corredo di tale doglianza il ricorrente ha formulato, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. ("ratione temporis" applicabile) il seguente quesito di diritto: "dica la Corte se la mancata tempestiva costituzione in giudizio, interrotto per decesso di una parte del processo, dei legittimari, senza che questi si siano nemmeno mai costituiti spontaneamente, determini la mancata necessaria completa integrazione del contraddittorio e, di conseguenza, la nullità di tutti gli atti processuali a decorrere dal decesso del dante causa; in subordine si chiede se tale ipotesi di nullità si verifica, soltanto per gli eredi potenziali conosciuti o effettivi, e/o anche per il caso di figli naturali avuti fuori dal matrimonio senza che ci sia stato riconoscimento formale del padre effettivo ed altresì se risultano colpe o responsabilità ed in quale misura delle rispettive parti per non avere fatto il necessario accertamento preventivo conseguente, anche extragiudiziale, in conseguenza del decesso di una delle parti, circostanza che interrompe e/o mette a rischio la validità della prosecuzione del giudizio dopo l’evento funesto; si chiede, altresì, che la Corte risponda al quesito se questa mancata indagine prudenziale e preventiva da farsi da una o dall’altra parte o comunque a quella che ne ha maggiormente interesse sia tale da giustificare la fondatezza di una domanda di risarcimento danni, non solo da parte di chi è stato pretermesso ma anche dai suoi eredi o aventi causa". 1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Infatti, per come rilevabile dalle sentenze impugnate (e, in particolare, dalla sentenza non definitiva n. 868 del 2002 della Corte di appello di Venezia) ed ammesso dallo stesso B.L. nel ricorso (v. pag. 7, righi 3-6), nel giudizio di appello non vi è stata alcuna dichiarazione di interruzione per la sopravvenuta morte di B.U., poichè il difensore dello stesso non aveva dichiarato la morte del proprio assistito, rimanendo – per giurisprudenza costante di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 1329 del 2000 e Cass. n. 17913 del 2009) – irrilevante la conoscenza che le altre parti del giudizio potessero aver avuto "aliunde" del verificarsi dell’evento interruttivo. E’ altrettanto priva di influenza la circostanza che l’evento interruttivo fosse stato dichiarato in pendenza del giudizio di primo grado (senza che, peraltro, lo stesso ricorrente sia stato in grado di evidenziare quali effetti ne conseguirono: v. pag. 6 del ricorso), poichè, ai fini dell’interruzione, non assume rilievo il fatto che il difensore abbia reso la dichiarazione in un diverso processo ovvero in un diverso grado, in considerazione dell’autonomia dei giudizi (cfr.

Cass. n. 13041 del 1995 e Cass. n. 5116 del 1998).

Pertanto, la mancata costituzione in giudizio del coniuge di B. U., Ba.El., non ha determinato alcuna invalidità del giudizio di secondo grado, poichè l’evento interruttivo che aveva colpito il marito, in assenza della dichiarazione del difensore legittimato a tanto ai sensi dell’art. 300 c.p.c., non poteva produrre alcun effetto processuale, donde il giudizio era legittimamente proseguito tra le parti originarie in causa. Peraltro, la predetta signora Ba.El. è pacificamente deceduta nelle more del giudizio di appello (ovvero il (OMISSIS), prima che venisse emessa la prima sentenza non definitiva n. 868 del 2002), nel quale si erano, poi, costituiti con diverso patrocinio, con comparse depositate il 20 e il 22 novembre 2001, i tre eredi legittimi dei coniugi B., ovvero B.L., B. A. e B.P., con la conseguente configurazione dell’integrità del contraddittorio in sede di gravame e la legittimità della prosecuzione dello stesso giudizio di appello e delle conseguenti sentenze adottate. Il ricorrente ha, poi, eccepito la nullità del giudizio di secondo grado per l’esistenza di un’altra presunta erede del genitore B.U. (identificabile con tale Bo.Si., quale sua figlia naturale nata da una relazione extraconiugale dello stesso), nei cui confronti pure era stata omessa l’integrazione del contraddittorio.

La doglianza è palesemente destituita di fondamento sia perchè, come detto, il giudizio non è stato interrotto in appello ed è stato proseguito volontariamente dagli eredi legittimi del B. U. sia perchè non risulta essere stata fornita alcuna prova dell’esistenza dell’ulteriore assunta erede nè emerge che tale circostanza sia stata ritualmente allegata nei precedenti gradi. Alla luce di tanto deve, perciò, trovare conferma l’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass. n. 25305 del 2008 e Cass. n. 16315 del 2011) secondo cui la non integrità del contraddittorio è rilevabile, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento e, quindi, anche in sede di giudizio di legittimità, nel quale la relativa eccezione può essere proposta, anche per la prima volta, nel solo caso in cui il presupposto e gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa emergano di per sè dagli atti del processo di merito, senza la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività; in tal caso, tuttavia, la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l’onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l’esistenza, ma anche quello di indicare gli atti del processo di merito dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – il vizio di violazione di legge (senza, tuttavia, alcuna indicazione ai riferimento assunti come violati) formulando, al riguardo, un duplice quesito di diritto nei seguenti termini: 1) "dica la Corte qual è l’esatta interpretazione del concetto di azienda, così come definita ai sensi dell’art. 2555 c.c. in relazione anche all’art. 2082 c.c., e cioè se in questo concetto si devono ricomprendere non solo i beni materiali, compreso nel caso specifico il terreno, i fabbricati e le attrezzature, ed anche l’elemento determinante della produttività e, quindi, della manutenzione dei beni rientranti come significativa componente del complesso dei beni organizzati dall’imprenditore ai fini dell’esercizio dell’impresa e, quindi, della sua produttività, e cioè la valutazione di una azienda deve essere fatta con la stima in fase dinamica, perchè l’azienda, secondo i concetti indicati, non è un bene immobilizzato o immobile o stativo ma tutte le sue componenti sono organizzate insieme ai fini della continuativa produzione e scambio di beni e di servizi e come tale devono considerarsi, come elementi rilevanti e determinanti sul valore dell’azienda e delle quote di azienda anche le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria; il caso specifico riguarda evidentemente la coltivazione della terra, le modalità e le specificità della coltivazione e la commercializzazione stessa dei prodotti"; 2) "Si chiede se la Corte acquisisca i concetti di azienda e di imprenditore così come formulati dal codice civile e se, nel caso specifico, le parti hanno voluto intendere, con l’uso del termine "quote di azienda (OMISSIS)", non soltanto alcune parti, per quanto importanti, che costituiscono l’azienda, come parti immobiliari ed attrezzature, bensì anche la ipotetica o effettiva produttività, in relazione anche alle modalità di coltivazione". 2.1. Il motivo è inammissibile per una pluralità di ragioni: – sia perchè, con riferimento all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), non risultano adeguatamente indicate le norme asseritamente violate dal giudice di appello (cfr. Cass. n. 16132 del 2005 e Cass. n. 14752); – sia perchè i due quesiti di diritto, strutturati in modo del tutto scomposto, risultano generici ed impostati in modo inidoneo a far comprendere l’eventuale violazione dedotta e la possibile "regola iuris" che si sarebbe voluta far affermare (v., per tutte, Cass., S.U., n. 20360 del 2007; Cass., S.U., n. 2658 del 2008 e Cass. n. 7197 del 2009); – sia perchè, con riferimento alle argomentazioni prospettate con il primo quesito, risulta denunciata una questione nuova attinente ad un’assunta erronea interpretazione del concetto di azienda che non era mai stata ritualmente dedotta nelle pregresse fasi del giudizio; sia perchè, avuto riguardo a quanto esposto nel secondo quesito, il ricorrente, anzichè indicare le norme ermeneutiche che la Corte veneta avrebbe violato e le parti della sentenza da cui si sarebbero dovute adeguatamente desumere le pretese violazioni di legge, si è limitato a censurare la ricostruzione del contenuto della volontà contrattuale così come interpretata dal giudice del merito, così richiedendo a questa Corte la rinnovazione di una indagine di fatto, per l’appunto rimessa alla valutazione del giudice di merito ed inammissibile in sede di legittimità. 3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avuto riguardo all’esatta interpretazione concettuale della volontà delle parti in ordine al termine di "azienda agricola" e alla ricostruzione del valore complessivo dell’azienda stessa, con conseguenti ripercussioni sulla determinazione delle quote oggetto di divisione.

All’esito dello svolgimento del motivo il ricorrente ha indicato il seguente quesito di diritto: "dica la Corte se l’aspetto di valutazione della esatta interpretazione, come da noi illustrata, del concetto di azienda agricola doveva ricomprendere anche l’aspetto della produttività annuale dell’azienda agricola e lo stato di manutenzione ordinaria e straordinaria e, quindi, quello della svalutazione della intera azienda per la mancata coltura, l’abbandono dei beni immobili e delle attrezzature, con la indicazione delle spese necessarie per il ripristino dell’azienda, allo stato in cui si trovava quando venne fatto l’accordo, e cioè quando l’azienda era gestita in maniera esemplare dal povero P.. Gli eredi avevano l’obbligo di mantenere quello stato di gestione che esistenza quando le parti hanno concluso gli accordi ed invece hanno lasciato tutto abbandonato a se stesso, con tutte le conseguenza negative che ne derivano e sicuramente incidono su una riduttiva valutazione rispetto a quella convenzionale del 38% ai fini della più contenuta attribuzione di beni immobili in ragione di valore. Sotto questo aspetto è stato decisamente carente il quesito posto al c.t.u. e le risposte sono altrettanto carenti, sia nella originaria perizia sia in quella aggiornativa integrativa in sede di appello al geom.

F.. Quindi le sentenza sono, sotto questo aspetto, ambedue da annullare, pure nella ipotesi che non fossero dichiarate nulle secondo il primo motivo di impugnazione, il tutto con rimessione della causa, con assegnazione a diversa sezione della Corte di appello di Venezia e/o ad una diversa Corte di appello rispetto a quella territorialmente competente, affinchè riprenda la causa fin dall’inizio prendendo come base la sentenza di primo grado del Tribunale di Verona e dando le disposizioni necessarie e sufficienti perchè venga avviata nuova istruttoria nel rispetto dei principi giuridici reclamati affinchè si stabilisca un esatto contraddittorio fra le parti e si renda possibile ottenere una sentenza oggettiva valida sotto ogni aspetto". 3.1. Anche quest’ultimo motivo va dichiarato inammissibile per inidoneità del requisito prescritto dall’art. 366 bis c.p.c..

Infatti, sulla scorta della univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 4556 del 2009; Cass. n. 27680 del 2009, ord., e Cass. n. 24255 del 2011), ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo "iter" argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

Nel caso di specie il ricorrente non ha individuato, in modo univoco ed intellegibile, l’effettivo momento riassuntivo del percorso argomentativo assunto come viziato e l’inidoneità dei passaggi logici delle "rationes decidendi" poste a fondamento delle sentenze impugnate da parte della Corte territoriale, essendosi limitato il B.L. (oltre a non esplicitare chiaramente il fatto controverso e decisivo) ad operare alcune sue soggettive affermazioni sull’esatta interpretazione del concetto di azienda agricola e a rilevare, in modo generico, la carenza dei quesiti sottoposti ai c.t.u., senza alcuna correlazione delle doglianze dedotte con le valutazioni espresse nelle motivazioni delle suddette sentenze, in modo da evidenziarne esaustivamente, ancorchè in modo riassuntivo, le deficienze in relazione all’apprezzamento delle risultanze probatorie e alla loro possibile irragionevoiezza con riferimento alle conclusioni raggiunte sul piano logico-giuridico.

4. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore della controricorrente, che si liquidano come in dispositivo, mentre non occorre adottare alcuna statuizione al riguardo con riferimento al rapporto processuale instauratosi nei confronti degli altri due intimati, che non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore della controricorrente P.A.M., liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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