Cass. civ. Sez. I, Sent., 28-05-2012, n. 8443 Intermediazione finanziaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 12 novembre 1999 il sig. T.A. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano i sigg.ri L. W. ed C.A.A.. Riferì di avere affidato nel gennaio del 1998 al sig. L., collaboratore dell’agente di cambio sig. C., la somma complessiva di L. 50.000.000 affinchè fosse utilizzata in investimenti finanziari.

Nello studio dell’agente di cambio era stato perciò stilato un contratto di negoziazione, raccolta di ordini ed amministrazione, ma qualche tempo dopo il sig. L. si era impossessato per scopi personali del denaro ricevuto. L’attore pertanto chiese che entrambi i convenuti fossero condannati a restituirgli la somma sopra indicata.

Mentre il sig. L. restò contumace, il sig. C. si costituì per resistere alla domanda.

Il tribunale, con sentenza resa il 17 gennaio 2004, condannò il sig. L. a restituire all’attore la somma di Euro 25.828,00, maggiorata di interessi, ma rigettò la domanda proposta nei confronti del sig. C..

Il gravame proposto dal sig. T. avverso tale decisione fu poi rigettato dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 26 marzo 2010. Detta corte infatti ritenne: in primo luogo, che non fosse stata adeguatamente censurata dall’appellante l’affermazione del tribunale secondo cui non v’era prova nè che l’attore avesse trattato con il sig. L. nella convinzione che costui agiva come rappresentante dell’agente di cambio sig. C., nè che vi fosse stato un incolpevole affidamento in tal senso; in secondo luogo, che integrasse un’inammissibile mutamento di domanda la prospettazione dell’appellante volta a sostenere che il sig. L. aveva agito quale promotore finanziario dell’agente di cambio e che quest’ultimo avrebbe perciò dovuto rispondere dell’operato del medesimo promotore.

Per la cassazione di tale sentenza il sig. T. ha proposto ricorso, articolato in tre motivi ed illustrato con successiva memoria.

Il sig. C. ha replicato con controricorso.

Motivi della decisione

1. E’ stata preliminarmente eccepita l’inammissibilità sia dell’intero ricorso sia di ciascuno dei motivi di cui esso si compone.

Tali eccezioni non possono essere accolte.

L’esposizione dei fatti contenuta nella parte introduttiva del ricorso non è così carente da impedirne la comprensione e da pregiudicare la possibilità di esame delle censure successivamente svolte. Quanto poi ai singoli motivi, la loro formulazione è tale da consentire l’ individuazione tanto delle norme che il ricorrente assume essere state violate quanto dei passaggi dell’impugnata sentenza in cui la violazione risiederebbe. Nè appare pertinente, con riferimento al motivo di ricorso proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il richiamo alla previsione del successivo art. 366- bis, abrogato dalla L. n. 69 del 2009 e perciò non applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame.

2. Il primo motivo di ricorso, in cui si denuncia la violazione dell’art. 345 c.p.c., non è fondato.

Dalla lettura dell’impugnata sentenza appare evidente che si discute di due diverse possibili prospettazioni dei fatti posti a base della domanda formulata dal sig. T. nel presente giudizio. L’una consiste nell’ipotizzare che egli si sia rivolto al sig. L., il quale materialmente operava nello studio dell’agente di cambio sig. C., intendendo instaurare un rapporto contrattuale con quest’ultimo sull’erroneo presupposto che il predetto sig. L. fosse dotato dei necessari poteri di rappresentanza: donde l’invocata applicazione del principio della cosiddetta apparenza del diritto, necessaria per poter riferire il rapporto contrattuale (poi inadempiuto) all’agente di cambio, pur in difetto di un effettivo potere rappresentativo in capo al sig. L.. L’altra prospettazione, evidentemente alternativa alla prima, muove dal diverso presupposto che il sig. L. fosse – nella realtà e non in apparenza – un promotore finanziario dell’agente di cambio sig. C. e che, dunque, quest’ultimo sia tenuto a rispondere dei danni arrecati al cliente: dal proprio promotore, a norma del D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 23, comma 3 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 98 del 1998, art. 31, ma ancora vigente all’epoca dei fatti di causa).

Si tratta di due prospettazioni che non soltanto implicano una diversa ricostruzione giuridica della fattispecie, ma comportano altresì una rilevante differenza del thema probandum. Nell’un caso occorreva che l’attore dimostrasse l’esistenza sia di circostanze idonee a determinare la sua incolpevole convinzione dell’esistenza in capo al sig. L. di un potere rappresentativo in realtà carente, sia di un colpevole comportamento dell’agente di cambio nel determinare una situazione di apparente rappresentanza. Nell’altro caso si trattava invece di provare l’effettiva esistenza, tra l’agente di cambio ed il sig. L., di un rapporto di promozione finanziaria e l’inerenza a tale rapporto delle operazioni poste in essere dal medesimo sig. L. con l’attore.

La novità della domanda è stata ravvisata dalla corte d’appello appunto perchè la seconda delle due prospettazioni sopra menzionate è emersa per la prima volta nel giudizio di secondo grado, non avendo mai l’attore in precedenza fatto cenno all’eventualità che nella specie il sig. L. avesse operato quale promotore finanziario dell’agente di cambio sig. C.. Il ricorrente obietta che, però, sin dall’atto introduttivo egli aveva posto in evidenza il legame di collaborazione tra detti soggetti e che il far discendere da tale legame l’applicabilità delle disposizioni in tema di promozione finanziaria afferisce alla qualificazione giuridica del fatto ed è perciò compito spettante d’ufficio al giudice. Ma questa conclusione non è condivisibile, perchè, se è vero che nelle difese dell’attore in primo grado v’è ripetuta menzione del rapporto collaborativo esistente tra il sig. L. ed il sig. C. e della circostanza che il primo operava fisicamente nei locali ove era ubicato lo studio del secondo, è altrettanto vero che tali elementi erano stati dedotti in termini affatto generici e non per dare corpo alla configurazione di un rapporto la cui qualificazione giuridica fosse rimessa al giudice e dal quale potesse discendere la responsabilità dell’agente di cambio per il fatto del proprio collaboratore, bensì per sostenere che l’apparenza giustificava l’errore in cui il sig. T. era incorso credendo di stipulare un contratto con l’agente di cambio per il tramite di chi era abilitato a rappresentarlo. Ed è appena il caso di aggiungere che il rapporto tra il promotore finanziario e l’intermediario per il quale egli opera – così come lo configurava il citato D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 23, ed oggi lo configura il D.Lgs. n. 98 del 1998, art. 31 – non s’identifica certo con un generico legame collaborativo, ma ha invece connotati tipici, si riferisce ad attività d’intermediazione da svolgersi al di fuori della sede dell’intermediario e neppure implica che al promotore sia conferito necessariamente il potere di rappresentare il preponente.

3. Del pari infondato appare il secondo motivo del ricorso, in cui ci si duole della violazione di svariate norme attinenti alla disciplina speciale in tema d’intermediazione finanziaria, nonchè degli artt. 1228 e 2049 c.c..

Tralasciando aspetti di fatto e riferimenti ad altre vicende giudiziarie che qui non rilevano, la doglianza si basa essenzialmente sul presupposto che, avendo il sig. L. operato quale promotore finanziario dell’agente di cambio, o comunque nella veste di collaboratore ed ausiliario di costui, il medesimo agente di cambio ne dovrebbe rispondere, sia in forza della disciplina di settore sia in forza di quella dettata in via generale dal codice civile.

La possibilità d’invocare la speciale disciplina riguardante la responsabilità del preponente per gli illeciti commessi dal promotore deve, però, essere esclusa per quanto già sopra indicato:

perchè essa cioè risponde ad una prospettazione diversa da quella formulata nella domanda introduttiva del giudizio, cui correttamente la corte d’appello ha negato ingresso in sede di gravame.

Non diversamente è a dirsi quanto all’ipotizzata responsabilità del sig. C. per fatti imputabili ad un suo ausiliario o dipendente, che pure rispecchia un’impostazione diversa da quella cui era ispirata la domanda inizialmente proposta e che, comunque, presuppone una ricostruzione dei fatti differente da quella operata dal giudice di merito, il quale ha inquadrato la vicenda di cui si tratta nell’ambito di un rapporto di affidamento di denaro intercorso esclusivamente e personalmente tra il sig. T. ed il sig. L., al di fuori di ogni eventuale legame collaborativo tra quest’ultimo e l’agente di cambio sig. C.. Ed è questa, evidentemente, l’espressione di un giudizio di merito come tale non censurabile in sede di legittimità. 4. L’impugnata sentenza potrebbe invece, ovviamente, esser censurata per eventuali vizi di motivazione, ed a questo attiene il terzo motivo del ricorso.

Neppure tale motivo appare, però accoglibile, perchè il ricorrente si diffonde ad evidenziare gli elementi, in gran parte ricavati dal tenore delle difese di controparte, dai quali a suo dire si sarebbe dovuto senz’altro desumere la responsabilità dell’agente di cambio nell’aver creato una situazione di apparenza tale da far credere ai terzi che il sig. L. agiva per conto ed in nome del sig. C.. Ma, come si è già osservato, l’impugnata decisione della corte d’appello (al pari di quella del tribunale) non si è basata sulla non addebitabilità al sig. C. di un’asserita discrepanza tra la realtà e l’apparenza di poteri rappresentativi da costui conferiti al sig. L., bensì sul convincimento che l’attore aveva inteso intrattenere rapporti finanziari con quest’ultimo personalmente e non perchè lo aveva erroneamente identificato come un rappresentate dell’agente di cambio. Tale convincimento ben può non essere condiviso dalla difesa del ricorrente, ma la differente valutazione che la parte dia ai fatti di causa ed alle risultanze dell’istruttoria non individua, di per sè sola, un vizio di motivazione della sentenza pronunciata dal giudice di merito, e le circostanze che il ricorrente imputa a quel giudice di non aver considerato non sono – come s’è visto – rilevanti per scalzare il fondamento logico della decisione.

5. Il ricorso deve quindi essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.500,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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