Cass. civ. Sez. I, Sent., 28-05-2012, n. 8435 Occupazione abusiva o illegittima

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Lecce, con sentenza del 16 luglio 2010 ha confermato quella del Tribunale di Taranto in data 18 luglio 2006 che aveva condannato il comune di Lizzano al risarcimento del danno, liquidato nella misura, di Euro 392.789,25 per l’avvenuta irreversibile trasformazione in strada pubblica di un terreno di proprietà di T.L. ubicato in località (OMISSIS) ed esteso mq. 12675. Ha ritenuto al riguardo: a) che doveva considerarsi inammissibile per novità l’eccezione del comune relativa all’avvenuta cessione volontaria del terreno, e comunque ad una transazione intervenuta tra le parti, rivolta ad escludere l’espropriazione dell’immobile; b) che erano da confermare le indagini del c.t.u. sia sulla superficie di terreno effettivamente occupata, sia sul valore del fondo nel biennio 1996-97 desunto attraverso la comparazione con il valore dei suoli edificatori della medesima zona.

Per la cassazione della sentenza il comune ha proposto ricorso per 4 motivi; cui resiste la T. con controricorso.

Motivi della decisione

Il collegio deve anzitutto rilevare che il ricorso è tempestivo, in quanto la sentenza impugnata è stata notificata al comune il 9 agosto 2010, durante il periodo feriale; sicchè il termine breve di 60 giorni concesso dall’art. 325 cod. proc. civ., per proporre impugnazione è iniziato a decorrere, come osservato dalla stessa T., soltanto il 16 settembre successivo; ed andava a scadere domenica 14 novembre che era un giorno festivo. Pertanto per il disposto dell’art. 155 cod. proc. civ., comma 4, il termine suddetto deve considerarsi prorogato al 15 novembre successivo, in cui il ricorso è stato regolarmente notificato alla proprietaria.

Con il primo motivo, il comune di Lizzano, deducendo violazione degli artt. 100 e 345 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per aver ritenuto inammissibile perchè nuova la produzione in appello dell’atto 17 settembre 2004 attestante l’accettazione dell’indennità offertale da parte della T., senza considerare che trattavasi non di una eccezione in senso stretto, perciò rientrante nel divieto di cui all’art. 345 cod. proc. civ., bensì di una condizione dell’azione la cui esistenza risultava incompatibile con l’azione risarcitoria proposta dalla proprietaria facendo venir meno il suo stesso interesse ad ottenere una pronuncia di merito.

La censura è in parte inammissibile èparte infondata.

La T., nell’atto introduttivo del giudizio, come accertato dalla sentenza impugnata e confermato nel ricorso, aveva dedotto la occupazione senza titolo e la illegittima trasformazione in strada pubblica, di un terreno di sua proprietà, perciò chiedendo la condanna dell’amministrazione occupante e/o espropriante al pagamento del controvalore del bene.

Pertanto, a fronte di detta causa petendi, le sole condizioni per stabilirne il fondamento che il giudice di merito era tenuto ad accertare di ufficio, secondo la giurisprudenza di questa Corte assolutamente costante fin dalla nota sentenza 3940/1988 delle Sezioni Unite, erano costituite dalla presenza della dichiarazione di p.u. del fondo: ritenuta sussistente dallo stesso comune, che ha ricordato al riguardo i decreti di occupazione temporanea 27 marzo e 22 aprile 1998, nonchè il piano particellare che necessariamente la presupponevano (pag. 6 ric.); e dalla radicale trasformazione del terreno nella strada pubblica programmata che i giudici di merito hanno ritenuto accertata in base alle indagini del c.t.u. che l’ha collocata nel periodo immediatamente successivo ai provvedimenti suddetti. Nessun’altra condizione era postulata per l’accoglimento della pretesa risarcitoria (essendo pacifica tra le parti la mancata adozione del decreto di esproprio); che poteva dunque essere paralizzata soltanto contrapponendovi specifiche situazioni di fatto o atti giuridici idonei a superarla e/o ad estinguerla; e quindi formulando al riguardo una apposita eccezione in senso stretto onde farle valere: così come ha fatto il comune, producendo – soltanto nell’udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado – una convenzione stipulata tra le parti in data 17 settembre 2004 che avrebbe dovuto definire altrimenti il giudizio: tuttavia considerata tardiva dal Tribunale ed inammissibile dal giudice di appello non consentendo l’art. 345 cod. proc. civ., la proposizione di nuove eccezioni, nè la produzione di nuovi documenti, soprattutto quando ne è possibile l’esibizione o acquisizione tempestiva.

D’altra parte, ancora in questa fase di legittimità, l’ente pubblico non ha specificato se l’atto ricordato consistesse nella mera accettazione da parte della T. dell’indennità offertale (L. n. 865 del 1971, art. 12, comma 20), ovvero in un contratto di cessione (L. n. 865, art. l2, comma 1); o infine un accordo transattivo (art. 1965 cod. civ., e segg.) e non ne ha trascritto alcuna parte del contenuto: perciò non consentendo al Collegio di delibarne la rilevanza, e rendendo sotto questo profilo inammissibile la doglianza per difetto di autosufficienza.

Con il quarto motivo, il comune, deducendo violazione delle norme sulla stima dell’indennità, nonchè difetto di motivazione, si duole che la sentenza abbia attribuito al terreno espropriato destinazione edificatoria senza avvedersi che era destinato dal P.F. del comune a viabilità, e che tale vincolo ha natura conformativa; con la conseguenza che la Corte non poteva limitarsi a recepire le conclusioni del c.t.u., ma doveva approfondire la situazione urbanistica in cui versava la zona.

Anche questa doglianza è infondata.

L’amministrazione ricorrente, infatti, ha riportato senza contestarli gli accertamenti eseguiti dal c.t.u. in base ai quali risultava: a) che il fondo espropriato era compreso nell’ambito della zona B del Programma di fabbricazione del comune: perciò edificabile, tant’è che ha evidenziato che la zona era interessata da una serie di lottizzazioni private, regolarmente conseguite dai proprietari degli immobili, fra cui la stessa T.; b) che per completare le strutture di detta zona erano state istituite le sottozone Bp e Bq, infatti denominate "zone di completamento" al cui interno era collocato il fondo espropriato, perciò destinato a viabilità.

Non si trattava quindi di una previsione derivante dalla generale programmazione del comune delle zone delle direttrici del proprio territorio destinate a viabilità nonchè alle relative opere pubbliche di cui alla L. n. 1142 del 1950, art. 7, comma 2, n. 1, dall’evidente carattere conformativo, ma di una strada specificamente individuata all’interno della zona B edificatoria, e posta a servizio della stessa secondo la previsione della stessa L. n. 1142, art. 13, e per di più costituente prolungamento di un manufatto già esistente (pag. 7 ric.); con la conseguenza che la scelta di localizzarla e realizzarla lungo la part. 948, piuttosto che su altri terreni della medesima zona edificatoria onde completarne le strutture e le opere di urbanizzazione, rientrando nel novero delle previsioni particolari, è da ritenere fosse appositamente destinata all’ablazione dei suoli necessari alla sua costruzione: perciò traducendosi in un vincolo espropriativo sul bene, del quale correttamente la Corte di appello non ha tenuto conto nella determinazione del valore dell’area (Cass. 19924/2007; 13199/2006;

19501/2005; 15519/2001).

Con il secondo motivo il comune, deducendo violazione dell’art. 2697 cod. civ., censura la sentenza impugnata per aver considerato acquisita al patrimonio comunale un’area estesa mq. 12675 senza considerare: a) che oggetto del procedimento espropriativo era stata una superficie minore pari a mq. 7630, di cui soltanto mq. 7190 effettivamente occupati e trasformati; b) che neppure la c.t.u. aveva fornito la prova della irreversibile trasformazione della restante area, avendo lo stesso consulente accertato che ne era avvenuta la mera sistemazione "in terra battuta" probabilmente ad opera degli stessi proprietari frontisti; c) che conseguentemente a nulla rilevava la circostanza che la stessa fosse interessata da opere di urbanizzazione, ed in parte da un elettrodotto, nè che poteva essere stata inclusa nello stradario comunale, in quanto nessuno di questi elementi ne documentava – come era onere della controparte – la c.d. occupazione appropriativa in capo al comune.

Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., censura la decisione per avere acriticamente recepito gli accertamenti del c.t.u. pervenendo al risultato di ritenere acquisita ad essa amministrazione una superficie di terreno maggiore di quella dedotta dalla stessa proprietaria espropriata e di averne attribuito il valore venale di L. 60,000 mq. piuttosto che quello ridotto stabilito dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65.

Le censure, già prospettate nell’atto di appello, risultano fondate nei limiti appresso precisati.

E’ anzitutto corretta la liquidazione dell’indennizzo di natura risarcitoria al proprietario dell’immobile illegittimamente espropriato in base al criterio del valore venale pieno di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 39, poichè l’acquisizione coattiva del fondo si è verificata in data successiva al 30 settembre 1996 (i decreti di occupazione sono stati emessi nell’anno 1998), sposta come limite ultimo per l’applicazione del criterio di stima riduttivo dal menzionato art. 3, comma 65 della Legge 1996, peraltro dichiarato incostituzionale dalla sentenza 349/2007; ed anche sotto questo profilo inapplicabile alla fattispecie.

Nel caso tuttavia proprio per la natura illecita dell’occupazione c.d. espropriativa in cui il fatto generatore del danno è costituito dalla condotta abusiva dell’ente espropriante, concretatasi anzitutto nell’apprensione del fondo privato e, quindi, nel mantenerne la detenzione anche dopo il venir meno del titolo autorizzativo, provocandone la trasformazione irreversibile senza più rimettere i beni nella disponibilità dei proprietari (Cass. sez. un. 24397/2007) – la sua estensione non è ricavabile dal decreto di espropriazione (come si verifica allorchè si chiede la determinazione della relativa indennità: Cass. 13950/2006; 5295/2000); ma trova applicazione la disposizione generale dell’art. 2043 cod. civ., la quale fa carico al danneggiato di fornire la prova della condotta illecita imputabile al danneggiante, costituita sia dall’occupazione senza titolo di una determinata porzione di terreno, sia della sua trasformazione in un "bene pubblico", perciò appartenente ad una delle categorie individuate dall’art. 822 cod. civ., e segg., che ne impedisce alla stessa amministrazione la dismissione e la restituzione del suolo all’originario proprietario: altrimenti trovando necessariamente applicazione la disposizione generale dell’art. 934 cod. civ., in favore del proprietario.

E’ significativo al riguardo che fin dalle note decisioni che hanno definito presupposti e confini dell’istituto, le Sezioni unite della Corte (cfr. sent. 3940/1988; 3963/1989; 4619/1989) ne abbiano evidenziato la distinzione dal fenomeno, indiscriminato e generico dell’apprensione o dell’utilizzazione sine titulo per qualsivoglia ragione e fine (pur se di interesse collettivo) di un bene immobile altrui;per cui non bastava alla sentenza impugnata dare atto, sia pure richiamando la strumentazione di precisione utilizzata dal tecnico, della dimensione della particella 948 di proprietà della T., oggetto dei decreti di occupazione temporanea, nè tanto meno di quella effettivamente occupata ovvero interessata da precedenti o successive opere di urbanizzazione: richiedendo la giurisprudenza il rigoroso accertamento: a) che l’immobile ha subito una radicale trasformazione nel suo aspetto materiale, in modo da perdere la sua conformazione fisica originaria e da risultare stabilmente ed inscindibilmente incorporato, quale parte indistinta e non autonoma in un bene nuovo e diverso, incompatibile con l’autonoma sopravvivenza del suolo in essa incorporato; b) che l’opera, fisicamente emersa, assuma la fisionomia prevista dal relativo progetto e si delinei nei suoi connotati definitivi (seppur minimi), sì da rendere oggettivamente valutabile l’effettiva entità dell’intervento ablatorio e non ripristinabile lo stato originario del fondo se non mediante nuovi interventi eversivi (Cass. sez. un. 3197/1991; 3403/1994; 4431/1994).

Pertanto in mancanza dell’accertamento di detti presupposti, non bastavano le circostanze ricavabili dalla consulenza, che il manufatto preesistente avesse subito una sistemazione "in terra battuta e pietrame misto" (sconoscendosene peraltro l’autore), ovvero venisse di fatto adibito a pubblico transito o quale collegamento fra i diversi lotti edificati, o ancora che fosse stato incluso nell’ambito dello stradario comunale e che beneficiasse di opere di urbanizzazione:necessitando per la sua definitiva acquisizione nel demanio del comune proprio la "radicale ed irreversibile trasformazione" nell’opera pubblica programmata dalla dichiarazione di p.u. che ne recide ogni collegamento con lo stato fisico e giuridico originario. La decisione impugnata che tale accertamento non ha compiuto per la porzione di terreno eccedente l’estensione di mq. 7190, già oggetto dei decreti di occupazione temporanea, va pertanto cassata con rinvio alla stessa Corte di appello di Lecce, che in diversa composizione si atterrà ai principi esposti e provvedrà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il primo e quarto motivo, accoglie il secondo ed il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Lecce in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2012

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