Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 20-09-2011) 17-11-2011, n. 42388

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Brindisi, sez. distaccata di Mesagne, con sentenza del 15 giugno 2010 ha condannato alla pena di 300 Euro di ammenda T.G., per il reato di cui alla L. n. 157 del 1992, art. 30, comma 1, lett. h) per avere esercitato la caccia con l’ausilio di un richiamo acustico di tipo vietato, posizionandolo in un campo, in (OMISSIS);

L’imputati, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione lamentando la violazione dell’art. 606, lett. b) ed e), in riferimento alla citata L. n. 152 del 1992, art. 30, comma 1, lett. h) e dell’art. 192 c.p.p., in quanto il T. è stato dichiarato colpevole anche se non era stato trovato in possesso di armi, nè appostato, e quindi mancherebbe qualunque nesso funzionale con lo svolgimento di un’attività venatoria, mentre il giudice aveva ritenuto senza alcun fondamento probatorio che l’imputato avesse collocato il richiamo acustico al fine di agevolare l’attività di caccia di terzi soggetti.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati e propongono un riesame in fatto della vicenda, non ammissibile in sede di legittimità.

In base alla disposizione di cui alla L. n. 157 del 1992, art. 21, lett. r), sono vietati gli apparati a funzionamento elettromagnetico e, come già affermato da questa Corte, costituisce esercizio della caccia mettere in funzione un apparato preregistrato contenente richiami vietati, costituendo esso stesso atto diretto all’abbattimento della fauna selvatica, che con esso viene attirata (sez. 3, n. 14242 dell’8/11/1999, Lorusso, Rv. 215014). Infatti la nozione di esercizio di attività venatoria è ampia e comprende non solo l’effettiva cattura della selvaggina, ma ogni attività prodromica e preliminare, nonchè ogni atto che, dall’insieme delle circostanze di tempo e di luogo, renda evidente la finalità di esercitare la caccia (Cfr. Sez. 3, n. 18088 del 16/4/2003, Febi, Rv.

224732).

Il Tribunale ha fornito una motivazione ampia, esaustiva ed immune da censure, degli elementi di prova posti a fondamento della sentenza di condanna del ricorrente, escludendo che il congegno sequestrato potesse servire a motivi di studio degli uccelli, proprio per le circostanze di tempo (piena notte) e di luogo della sua collocazione e del suo rinvenimento, quando l’imputato fu colto all’esito di un appostamento nell’atto di rimuoverlo. Il giudice di merito ha altresì ampiamente argomentato circa la rilevanza della titolarità del porto d’armi per uso venatorio in capo al T., a nulla valendo la mancata detenzione nel fucile in quella circostanza, posto che dalla ricostruzione operata nel corso del processo era risultato evidente che la collocazione del suddetto richiamo per tutta la notte doveva proprio svolgere la funzione di richiamare la selvaggina per la battuta di caccia che avrebbe avuto inizio alle prime luci del giorno (attività venatoria che il giudice di merito non riferisce ad altri, ma direttamente allo stesso imputato, con l’eventualità della partecipazione di altri).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente deve essere condannato, ai sensi del disposto di cui all’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e della somma di mille Euro in favore della Cassa per le ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di mille Euro in favore della Cassa per le ammende.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2011

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