Corte Costituzionale, Sentenza n. 186 del 2011, in materia di intermediazione finanziaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 26 del 15-6-2011

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 187 sexies,
commi 1 e 2, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo
unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria,
ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52),
promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento vertente
tra S. M. ed altra e la C.O.N.S.O.B. con ordinanza del 5 ottobre
2010, iscritta al n. 404 del registro ordinanze 2010 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, 1ª serie speciale,
dell’anno 2011.
Visti l’atto di costituzione di S. M. ed altra nonche’ l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 10 maggio 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo;
Uditi l’avvocato Franco Coppi per S. M. ed altra e l’avvocato
dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei
ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza depositata il 5 ottobre 2010, la Corte di
appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 27
della Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della
legge 6 febbraio 1996, n. 52), «nella parte in cui dispone che
l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, previste dal
medesimo capo del decreto legislativo, importi sempre la confisca del
prodotto, del profitto e dei beni utilizzati per commettere
l’illecito e che, ove la confisca non possa essere eseguita
direttamente, essa debba avere obbligatoriamente luogo su "denaro,
beni o altre utilita’ di valore equivalente"».
La Corte rimettente premette di essere investita del giudizio di
opposizione a una delibera della Commissione nazionale per le
societa’ e la borsa (CONSOB), con cui e’ stata applicata a una
persona fisica e a una societa’ per azioni – ai sensi,
rispettivamente, dell’art. 187-bis e dell’art. 187-quinquies del
d.lgs. n. 58 del 1998 – la sanzione amministrativa pecuniaria di euro
1.800.000 ciascuna, per abuso di informazioni privilegiate. Con lo
stesso provvedimento e’ stata disposta, altresi’, ai sensi dell’art.
187-sexies del medesimo decreto legislativo, la confisca del «valore
economico delle azioni costituente il prodotto dell’illecito
contestato, equivalente alla somma dei valori dei beni utilizzati e
del profitto conseguito». Il relativo importo corrisponde, in specie,
tanto alla somma di denaro impiegata per acquistare le azioni cui si
riferivano le informazioni privilegiate, pari a euro 19.255.857,
quanto al profitto realizzato tramite la loro rivendita, pari a euro
1.467.474.
Il giudice a quo riferisce, altresi’, di avere emesso, in pari
data, sentenza non definitiva, provvedendo all’ulteriore corso della
causa limitatamente al capo relativo alla confisca, con riguardo al
quale gli opponenti hanno proposto una specifica censura, eccependo
l’illegittimita’ costituzionale della norma applicata, per contrasto
con gli articoli 3 e 27 Cost.
Ad avviso della Corte torinese, la questione sarebbe rilevante.
Essendo ravvisabili, nella specie, gli estremi della violazione
contestata – come accertato con la sentenza non definitiva in pari
data – dovrebbe, infatti, obbligatoriamente procedersi, a norma del
comma 1 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, alla confisca
non soltanto del profitto, ma anche del prodotto dell’illecito e dei
beni utilizzati per commetterlo.
In forza del comma 2 dello stesso art. 187-sexies, inoltre, ove
la misura ablatoria non risulti eseguibile in modo diretto, essa
dovrebbe essere obbligatoriamente sostituita dalla confisca di
denaro, beni o altre utilita’ di valore equivalente. Non sarebbe,
infatti, praticabile un’interpretazione restrittiva, che consenta di
escludere tale forma di confisca «con particolare riferimento ai beni
e comunque ai mezzi economici corrispondenti non gia’ al profitto
dell’illecito, ma anche al controvalore dei titoli che sono stati
movimentati».
Cio’ comporterebbe che, a fronte di una violazione che ha
determinato un profitto di euro 1.467.474, dovrebbe essere disposta,
nella specie, la confisca di titoli per un valore pari a euro
20.723.331.
Di qui, dunque, la non manifesta infondatezza della questione.
Nonostante la sua qualificazione come «confisca», che evoca una
funzione in senso lato preventiva, la misura ablativa in discorso
avrebbe, in effetti, un carattere sostanzialmente sanzionatorio. In
tale ottica, sarebbe tuttavia palese la sproporzione fra l’ammontare,
pur rilevante, della sanzione amministrativa pecuniaria edittale e
quello della sanzione di cui si discute: sanzione che resta,
peraltro, totalmente disancorata dalla concreta gravita’ della
violazione e non consente al giudice alcuna graduazione, analoga a
quella praticabile in rapporto alla «sanzione in senso proprio».
In materia, sarebbe, d’altra parte, non infrequente che al
conseguimento di un profitto «non particolarmente ingente» faccia
riscontro l’utilizzazione di mezzi economici – e, dunque, di valori
da confiscare obbligatoriamente – per «importi molto consistenti e,
soprattutto, totalmente disancorati dal rapporto proporzionale con il
profitto stesso».
La norma censurata verrebbe a porsi, di conseguenza, in contrasto
tanto con l’art. 3 Cost., per la palese irragionevolezza della
sanzione in tal modo comminata; quanto con l’art. 27 Cost., per
violazione del «principio di proporzionalita’», da esso enucleabile e
da ritenere valevole non soltanto in rapporto alle sanzioni penali,
ma a qualsiasi «risposta sanzionatoria» prefigurata dall’ordinamento.
2. – E’ intervenuto nel giudizio di costituzionalita’ il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe
inammissibile, nella parte in cui investe il comma 2 dell’art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 (concernente la confisca per
equivalente), in quanto nel giudizio principale si discuterebbe del
solo comma 1. In relazione a tale comma, la questione sarebbe del
pari inammissibile, per l’incoerenza della relativa motivazione
rispetto alla fattispecie concreta: il profitto di 1.467.474 euro,
realizzato nella specie grazie all’operazione illecita, sarebbe,
infatti, tutt’altro che «non particolarmente ingente», anche nel
rapporto proporzionale con l’investimento, tenuto conto del
brevissimo lasso temporale entro il quale e’ stato conseguito.
Nel merito, la questione sarebbe, comunque, infondata.
La confisca obbligatoria prevista dalla norma censurata avrebbe,
infatti, non diversamente da quella contemplata dal codice penale,
natura di misura di sicurezza patrimoniale. Sarebbe pertanto logico
che, al fine di prevenire la commissione degli illeciti, la misura
ablativa colpisca un «quid pluris» rispetto al profitto:
diversamente, l’autore del fatto non correrebbe alcun rischio nel
commetterlo, se non quello di vedersi privato del guadagno (esso pure
illecito).
Nella specie, per di piu’, le violazioni attengono al settore –
delicatissimo, per i suoi riflessi sui mercati anche internazionali –
dell’intermediazione finanziaria: onde misure anche di particolare
rigore risulterebbero ampiamente giustificate alla luce dei principi
costituzionali e in particolare delle previsioni degli articoli 41 e
47 Cost.
3. – Si sono costituti, altresi’, gli opponenti nel giudizio a
quo, chiedendo che la questione sia accolta.
Secondo le parti private, la norma censurata sarebbe fonte di
irragionevoli disparita’ di trattamento, lesive dell’art. 3 Cost.,
sotto un duplice profilo.
Da un lato, perche’ sottoporrebbe gli illeciti amministrativi di
abuso di mercato a un regime piu’ severo di quello stabilito per i
corrispondenti delitti: solo nell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58
del 1998, e non anche nel precedente art. 187, concernente le figure
delittuose, si prevede, infatti, che la confisca debba essere
«sempre» disposta.
Dall’altro lato, perche’ prevede come obbligatoria la confisca
dei beni strumentali in rapporto a semplici illeciti amministrativi,
quando invece le cose utilizzate per commettere reati – e, dunque,
fatti per definizione piu’ gravi – sono soggette, in via generale, a
confisca solo facoltativa, ai sensi dell’art. 240 del codice penale.
Neppure la normativa penalistica ispirata ad intenti di maggior
rigore – ossia quella del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306
(Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalita’ mafiosa), convertito,
con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 – conterrebbe,
in effetti, una disposizione analoga a quella denunciata, lasciando
percio’ la confisca dei beni in parola alla discrezionalita’ del
giudice.
Risulterebbe palese, per altro verso, la violazione del principio
di proporzione, ricollegabile anche alla finalita’ rieducativa della
sanzione (art. 27, terzo comma, Cost.): principio a fronte del quale
il legislatore non puo’ perseguire finalita’ preventive con strumenti
ispirati esclusivamente al criterio dell’efficienza
politico-criminale, ma deve comparare gli effetti positivi prodotti
dalla repressione dell’illecito al sacrificio imposto ai diritti
fondamentali dell’agente. Nel suo «inequivocabile connotato
punitivo», la misura ablativa finirebbe in effetti per essere, nel
caso oggetto del giudizio a quo, la sanzione principale, risultando
superiore di dieci volte alla sanzione amministrativa pecuniaria.
Diversamente dalle altre sanzioni, inoltre, la misura prevista
dalla norma censurata e’ configurata in termini di «mero
automatismo», con conseguente impossibilita’, per il giudice, di
adeguarla alla gravita’ del fatto e alla colpevolezza del suo autore.

Considerato in diritto

1. – La Corte di appello di Torino dubita della legittimita’
costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 27 della
Costituzione, dell’art. 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni
in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8
e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), «nella parte in cui dispone
che l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, previste
dal medesimo capo del decreto legislativo, importi sempre la confisca
del prodotto, del profitto e dei beni utilizzati per commettere
l’illecito e che, ove la confisca non possa essere eseguita
direttamente, essa debba avere obbligatoriamente luogo su "denaro,
beni o altre utilita’ di valore equivalente"».
Rilevato come la misura in questione, benche’ qualificata come
confisca, abbia un carattere eminentemente sanzionatorio, la Corte
rimettente denuncia la palese sproporzione fra l’ammontare, pur
rilevante, della sanzione amministrativa pecuniaria edittale,
prevista per gli abusi di mercato (abuso di informazioni privilegiate
e manipolazione del mercato), e le conseguenze economiche che possono
derivare dalla sanzione di cui si discute; rimarcando, altresi’, come
detta sanzione, nella sua automaticita’, resti totalmente disancorata
dalla concreta gravita’ della violazione e non consenta al giudice
alcuna graduazione. In materia, sarebbe, in effetti, non infrequente
che al conseguimento di un profitto «non particolarmente ingente» si
accompagni l’utilizzazione di mezzi economici – e, dunque, di valori
da confiscare obbligatoriamente – per «importi molto consistenti e,
soprattutto, totalmente disancorati dal rapporto proporzionale con il
profitto stesso».
La norma censurata si porrebbe, di conseguenza, in contrasto
tanto con l’art. 3 Cost., per la palese irragionevolezza della
sanzione in tal modo comminata; quanto con l’art. 27 Cost., per
violazione del principio di proporzionalita’, da reputare riferibile
anche alle sanzioni amministrative.
2. – Le eccezioni di inammissibilita’ della questione formulate
dall’Avvocatura generale dello Stato non sono fondate.
2.1. – Contrariamente a quanto assume la difesa dello Stato, nel
giudizio a quo viene in rilievo non soltanto la disposizione del
comma 1 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 – che rende
obbligatoria la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e
dei beni utilizzati per commetterlo – ma anche quella del comma 2, in
forza della quale detta confisca, ove non eseguibile in modo diretto,
puo’ aver luogo per equivalente. Nella specie si discute, infatti –
secondo quanto emerge dall’ordinanza di rimessione – di una confisca
da eseguire proprio in tale ultima forma.
2.2. – Egualmente infondata e’ l’altra eccezione, connessa
all’asserita incoerenza della motivazione del dubbio di
costituzionalita’ relativo al comma 1 rispetto alla fattispecie
concreta, non potendo il profitto di euro 1.467.474 – scaturito nel
frangente dall’operazione illecita – essere reputato «non
particolarmente ingente», anche in considerazione del ristretto lasso
temporale in cui e’ stato conseguito.
In senso contrario, va osservato come, con l’argomentazione cui
allude l’Avvocatura dello Stato, il giudice a quo miri, in realta’,
essenzialmente a porre in risalto la mancanza di un rapporto
predefinito tra il valore dei beni suscettibili di confisca in base
alla norma denunciata e il profitto realizzato: circostanza che puo’
rendere le due grandezze largamente sperequate. Nel caso di specie,
se pure il profitto di euro 1.467.474 non puo’ considerarsi di per
se’ esiguo, la confisca "di valore" corrispondente ai beni
strumentali (euro 19.255.857) lo supererebbe comunque di oltre
tredici volte, cosi’ come supererebbe di oltre dieci volte
l’ammontare della sanzione pecuniaria inflitta (euro 1.800.000).
In assenza di limiti prestabiliti, d’altra parte – ed e’ questo
il senso della deduzione del rimettente – il divario fra i due valori
potrebbe amplificarsi ulteriormente. Operazioni di abuso di
informazioni privilegiate o di manipolazione del mercato produttive
di profitti assai ridotti (o – si potrebbe aggiungere – di nessun
profitto, se non addirittura risoltesi in perdita a causa di fattori
sopravvenuti) e in rapporto alle quali venga inflitta, per queste o
altre ragioni, una sanzione amministrativa pecuniaria prossima ai
minimi edittali, potrebbero dare luogo alla confisca obbligatoria di
beni per un valore elevatissimo – posseduti in modo pienamente
legittimo dall’agente (o dall’ente nel cui interesse o a cui
vantaggio l’illecito e’ stato commesso) – solo perche’ estremamente
ingente e’ stato l’importo dell’"investimento" operato.
In questa prospettiva – secondo il rimettente – l’ammontare della
sanzione di natura patrimoniale di cui si discute finirebbe per
dipendere dalle circostanze del caso concreto, senza, peraltro, che
dette circostanze riflettano necessariamente il disvalore del fatto.
La "rigidita’" e l’"automatismo" della misura rischierebbero,
conseguentemente, di provocare una rottura del rapporto di equilibrio
tra entita’ della risposta sanzionatoria, da un lato, e offesa,
dall’altro.
Risulta, dunque, conclusivamente evidente come l’eccezione
dell’Avvocatura dello Stato sovrapponga i due piani della rilevanza e
della non manifesta infondatezza della questione. La possibilita’ che
la norma censurata imponga la confisca di valori assai elevato a
fronte di fatti che hanno determinato un profitto «non
particolarmente ingente» e’ addotta dal giudice a quo a dimostrazione
dell’attitudine della norma stessa a produrre risultati contrastanti
con i parametri costituzionali evocati: il che non comporta,
tuttavia, che, ai fini dell’ammissibilita’ della questione, la
situazione considerata debba risultare riscontrabile anche nella
fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo (in senso analogo,
sentenza n. 250 del 2010).
3. – La questione e’, tuttavia, inammissibile per una diversa
ragione, legata alla mancata formulazione, da parte del rimettente,
di un petitum dotato dei necessari requisiti di chiarezza e
univocita’.
Alla stregua del dispositivo dell’ordinanza di rimessione, il
giudice a quo sembrerebbe, infatti, richiedere l’integrale ablazione
della disciplina denunciata: cio’, malgrado l’uso della locuzione
limitativa «nella parte in cui», venendo in pratica riprodotto – dopo
detta locuzione – l’intero contenuto precettivo tanto del comma 1 che
del comma 2 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.
Di contro, in sede di motivazione sulla rilevanza, il giudice a
quo parrebbe annettere il vulnus costituzionale esclusivamente alla
previsione della confisca obbligatoria e per equivalente del prodotto
e dei beni strumentali alla commissione dell’illecito. La Corte
torinese reputa, infatti, rilevante la questione in quanto – essendo
ravvisabili nella fattispecie oggetto di giudizio gli estremi della
violazione contestata – la misura ablativa risulterebbe applicabile
«non solo con riferimento al profitto […], ma anche con riferimento
al prodotto ed ai beni utilizzati per commettere l’illecito». Nella
medesima ottica, il giudice a quo esclude, altresi’ – sempre in sede
di motivazione sulla rilevanza – la praticabilita’ di una
interpretazione della norma censurata che sottragga all’ambito di
operativita’ della confisca per equivalente i beni «corrispondenti
non gia’ al profitto dell’illecito, ma anche al controvalore dei
titoli che sono stati movimentati nell’ambito della condotta ritenuta
di rilievo»: «controvalore» che, nella circostanza, la Commissione
nazionale per le societa’ e la borsa (CONSOB) ha ritenuto di poter
qualificare come «prodotto» dell’illecito.
Nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice a quo sembra concentrare, nondimeno, le sue censure – secondo
quanto gia’ dianzi accennato – sulla confisca dei soli beni
strumentali, dolendosi essenzialmente del sensibile divario che, in
materia di abusi di mercato, puo’ non di rado sussistere fra il
profitto conseguito e i «mezzi economici» impiegati nell’operazione
illecita: divario che farebbe si’ che la misura ablatoria –
coinvolgendo obbligatoriamente entrambi, anche nella forma per
equivalente – rimanga «totalmente disancorata da parametri riferibili
alla gravita’ in concreto della fattispecie» e, «soprattutto,
totalmente disancorati dal rapporto proporzionale col profitto
stesso». Al contempo, la Corte torinese sembrerebbe addebitare tale
risultato – produttivo dell’asserita lesione dei principi di
ragionevolezza e proporzionalita’ – precipuamente al fatto che la
misura sanzionatoria in discussione «non consente al giudice alcuna
graduazione, analoga a quella che e’ invece al medesimo demandata in
relazione alla determinazione in concreto della sanzione in senso
proprio».
A fronte di quanto precede, l’intervento richiesto dal giudice a
quo resta, dunque, oscuro sia quanto all’oggetto che quanto al
contenuto. Sotto il primo profilo, non si comprende, cioe’, se la
declaratoria di illegittimita’ costituzionale debba concernere –
secondo il rimettente – tutte le entita’ cui si riferisce la norma
denunciata, ovvero solo il prodotto e i beni strumentali, ovvero
ancora esclusivamente tali ultimi beni. Sotto il secondo profilo, non
emerge, del pari, in modo univoco se venga richiesta a questa Corte
una pronuncia ablativa, che rimuova puramente e semplicemente la
speciale ipotesi di confisca di cui discute (con l’effetto di
riportare la fattispecie nell’ambito della disciplina generale della
confisca amministrativa di cui all’art. 20, terzo comma, della legge
24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»); o
se si auspichi, invece, una pronuncia a carattere
additivo-manipolativo, che attribuisca – all’autorita’ amministrativa
prima e al giudice poi – il potere di "graduare" la misura ablativa
contemplata dalla norma censurata, escludendone in tutto o in parte
l’applicazione allorche’ essa appaia, in concreto, sproporzionata
rispetto alla gravita’ dell’illecito.
Per giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 21
del 2011, n. 91 del 2010 e n. 269 del 2009), l’oscurita’ e
l’indeterminatezza del petitum rendono la questione inammissibile,
precludendone quindi l’esame nel merito.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara inammissibile la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni
in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8
e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), sollevata, in riferimento
agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dalla Corte di appello di
Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.

Il Presidente: Maddalena

Il redattore: Tesauro

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria il 10 giugno 2011.

Il direttore della cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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