Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-05-2012, n. 8419 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 12-6-2007 il Giudice del lavoro del Tribunale di Grosseto dichiarava che fra la s.p.a. Poste Italiane e L. C. era intervenuto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dal 27-5-2002. Ritenuta la nullità parziale del contratto a termine stipulato per il periodo 27-5-2002/6-7-2002, il giudice condannava la società datrice di lavoro a riammettere il lavoratore in servizio ed a corrispondere le retribuzioni dalla data di messa in mora.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.

Il C. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza depositata il 22-9-2009, rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con cinque motivi.

Il C. è rimasto intimato.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, lamenta che la Corte di merito, accedendo ad "una interpretazione del D.Lgs. n. 368 del 2001 e dell’art. 11 Cost. del tutto arbitraria", in sostanza, erroneamente ha ritenuto che anche dopo l’abrogazione della precedente disciplina ( L. n. 230 del 1962 e L. n. 56 del 1987), sarebbe ancora immanente al sistema il principio secondo cui il contratto a tempo determinato rappresenta ancora oggi una eccezione, continuando ad essere la regola il rapporto a tempo indeterminato, così, peraltro, risolvendo "da sè" i problemi derivanti dai rapporti fra diritto europeo e nazionale, coinvolgenti anche aspetti costituzionali, anzichè utilizzare lo strumento pregiudiziale previsto dall’ordinamento comunitario o provocare il sindacato di costituzionalità davanti la Corte Costituzionale.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando "violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro" e "nullità del procedimento", ribadisce la propria lettura del D.Lgs. n. 368 del 2001 e della direttiva comunitaria 99/70 e sostiene la legittimità del contratto a termine de quo concluso in base agli accordi sindacali sulla mobilità interaziendale intervenuti.

Con il terzo motivo, la ricorrente, denunciando "violazione e falsa applicazione di norma di diritto e del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1" e "nullità del procedimento", dopo aver premesso che la causale del contratto in causa "non è una causale per esigenze sostitutive", lamenta che comunque erroneamente la sentenza impugnata ha affermato che, per tale causale, fosse necessaria la indicazione nominativa del lavoratore sostituito.

Osserva il Collegio che tali motivi risultano in parte inammissibili, in quanto o del tutto generici e astratti o inconferenti rispetto alla fattispecie concreta, ed in parte infondati.

Premesso che (come si legge anche nello stesso ricorso della società), il contratto per cui è causa è stato stipulato per il periodo 27-5-2002/6-7-2002 ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001 "per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti e servizi ", la sentenza impugnata, in sostanza, ha ritenuto tale causale assolutamente generica, in quanto "la clausola che si legge nel contratto individuale si limita ad enunciare una causale astratta senza alcun riferimento alla fattispecie concreta", in modo tale da rendere impossibile "sulla base della lettura del contratto individuale, l’immediato controllo giudiziale del concreto nesso di causa fra l’assunzione e la causale enunciata, anche ai fini della verifica di trasparenza e immodificabilità".

Tale decisione è conforme ai principi affermati in materia da questa Corte.

In particolare, come è stato precisato da Cass. 27-4-2010 n. 10033, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1" a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto".

Orbene nella fattispecie, anzichè censurare specificamente la affermazione della Corte di merito sulla assoluta genericità e astrattezza della causale indicata nel contratto individuale, la ricorrente dopo averne riportato il testo, non fornisce alcun’altra indicazione sul contenuto della relativa clausola e, in sostanza, con il primo e con il secondo motivo si limita a ribadire la propria lettura del D.Lgs. n. 368 del 2001 e della direttiva 99/70.

Tale lettura, peraltro, è stata disattesa da questa Corte fin dalla pronuncia del 21-5-2008 n. 12985, che ha affermato che "il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".

Inammissibile, poi, risulta il terzo motivo, atteso che nella fattispecie non si trattava di un contratto stipulato per "ragioni sostitutive", di guisa che alcuna rilevanza nella decisione impugnata hanno assunto le affermazioni, pur contenute nell’impugnata sentenza, circa la necessità della indicazione del lavoratore sostituito.

In definitiva nessuna delle dette censure coglie nel segno.

Con il quarto motivo, la ricorrente, in ordine alle richieste economiche, lamenta che la domanda accolta dalla Corte di merito non era "supportata dal benchè minimo elemento probatorio idoneo a soddisfare il precetto sancito dall’art. 2697 c.c. e segg.", non avendo la ricorrente indicato nè depositato i documenti utili a provare il danno di cui ha richiesto il risarcimento e non avendo fornito la prova del danno conseguito alla nullità del termine.

Peraltro la ricorrente deduce che tale danno non necessariamente equivale alle retribuzioni perdute, spettando lo stesso soltanto dalla messa in mora del datore di lavoro e dovendo lo stesso ridursi in ragione dell’aliunde perceptum.

Il motivo è ammissibile in quanto esposto in modo sufficientemente specifico e conferente perchè solleva e sviluppa chiaramente la questione dell’allegazione e della prova in ordine al danno lamentato come conseguenza della nullità del termine, e alla sua entità.

Orbene osserva il Collegio che sul risarcimento del danno in questione è intervenuto, lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 i quali dispongono che: "5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8. 6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. 7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.".

Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (sul punto v. già Cass. Ord. 28-1-2011 n. 2112), come è stato affermato da questa Corte (v. Cass. 31-1-2012 n. 1409, Cass. 31-1-2012 n. 1411), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad "introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione", rispetto alle "obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente".

La norma, che "non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato", in base ad una "interpretazione costituzionalmente orientata" va intesa nel senso che "il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto", con la conseguenza che a partire da tale sentenza "è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva" (altrimenti risultando "completamente svuotata" la "tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato").

Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte Costituzionale, "il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum. Sicchè l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione".

In definitiva la norma in oggetto, come affermato dal Giudice delle leggi, risulta "adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi". Infatti "al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità nè dell’offerta della prestazione, nè di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso.

Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die".

Peraltro la Corte Costituzionale, richiamando le proprie pronunce (sent. n. 298/2009, 86/2008, 282/2007, 354/2006, ord. n. 102/2011, 109/2010, e 125/208) ha escluso "che inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l’eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziari possano rilevare ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Del resto circa le "presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine" la Corte Costituzionale ha rilevato non solo che "il processo è neutro rispetto alla tutela offerta", ma anche che "l’ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonchè gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89".

Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che "la garanzia economica in questione non è nè rigida, nè uniforme" e, "anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonchè le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti".

A tale interpretazione adeguatrice, indicata (con sentenza interpretativa di rigetto) dal Giudice delle leggi come conforme a Costituzione, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il Collegio, condividendo le argomentazioni sulla ratio della norma e sullo sviluppo dell’operazione ermeneutica, intende aderire, non ravvisandosi nel contempo una diversa interpretazione che sia parimenti non solo rispettosa della Costituzione ma anche del tutto conforme alla lettera e alla ratio della norma stessa (cfr. Cass. 9-1-2004 n. 166, Cass. 26-1-2010 n. 1581).

Così intesa, infatti, in sostanza, come una sorta di penale stabilita dalla legge – in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro – a carico del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall’esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore (e da ogni onere probatorio al riguardo) sia dalla messa in mora del datore di lavoro, con carattere "forfetizzato", "onnicomprensivo" di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto, la indennità in esame appare non solo conforme alla Costituzione (ai sensi di C. Cost. 303/2011), bensì anche pienamente rispondente alla lettera e allo spirito della legge.

Altre interpretazioni, del resto, che in qualche modo riducano o eliminino il carattere "onnicomprensivo" dell’indennità, ovvero ne delimitino ulteriormente il periodo di "copertura", in ragione di elementi (come la messa in mora o l’epoca della domanda) estranei alla fattispecie legale (al pari di quelle, opposte, estensive del periodo medesimo), risulterebbero travalicare i detti fondamentali criteri ermeneutici.

Orbene tale normativa sopravvenuta va applicata nel caso in esame, essendo questa Corte investita al riguardo, come sopra, da un valido e pertinente motivo di ricorso.

In via di principio, infatti, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Pertanto, nei sensi e nei limiti del detto ius superveniens, va accolto il quarto motivo, risultando nel contempo assorbito il quinto (riguardante in sostanza la prova dell’aliunde perceptum, la cui detrazione è esclusa nel nuovo regime risarcitorio) e la impugnata sentenza va cassata, in relazione alla censura così accolta, con rinvio alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione, la quale provvederà nella specie anche ai sensi di quanto disposto in rito dal comma 7 del citato art. 32, statuendo altresì sulle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi tre motivi, accoglie il quarto, assorbito il quinto, cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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