Cass. civ. VI – 1, Sent., 29-05-2012, n. 8591

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorsi depositati in data 13 agosto 2007 presso la Corte d’appello di Roma, S.A., + ALTRI OMESSI hanno chiesto il riconoscimento dell’equa riparazione per la irragionevole durata di un processo, introdotto dinnanzi al TAR del Lazio con ricorso depositato il 1 settembre 1995 e concluso con sentenza depositata il 13 febbraio 2007;

L’adita Corte d’appello ha ritenuto violata la durata ragionevole del processo per cinque anni circa, liquidando in favore di ciascuno dei ricorrenti la somma di Euro 5.000,00, computata sulla base di un importo di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, con interessi dalla data della domanda al saldo.

Per la cassazione di questo decreto l’amministrazione soccombente ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi; gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Il collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza.

Con il primo motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente denuncia omessa motivazione su un fatto controverso, e segnatamente sulla misura del danno non patrimoniale da riconoscere ai ricorrenti. La Corte d’appello, osserva la difesa erariale, non avrebbe tenuto conto della eccezione da essa proposta e cioè del fatto che i ricorrenti avevano depositato una istanza di deposito e di prelievo il 1 agosto 1997 e che solo in data 14 maggio 2001 avevano depositato altra istanza di fissazione dell’udienza. Ove avesse valutato tali circostanze, la Corte d’appello non avrebbe potuto riconoscere un indennizzo in ragione di 1.000,00 Euro per anno di ritardo.

Il motivo è infondato. Premesso che al giudizio in questione non è applicabile ratione temporis il D.L. 25 gennaio 2008, n. 112, convertito nella L. 6 agosto 2008, n. 133, venendo in rilievo un giudizio amministrativo conclusosi prima della entrata in vigore di tale decreto, non vi è ragione per discostarsi dal principio per cui in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, è riscontrabile davanti al giudice amministrativo con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che la decorrenza del termine di ragionevole durata possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo o alla ritardata presentazione di essa, atteso che tale evenienza può incidere esclusivamente sulla determinazione dell’indennità spettante, ai sensi dell’art. 2056 cod. civ., all’avente diritto, come ribadito dai più recenti orientamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Decisione Volta et autres c. Italia del 16 marzo 2010 e Falco et autres c. Italia del 6 aprile 2010), secondo i quali è possibile al giudice nazionale modulare la quantificazione del risarcimento in considerazione della peculiarità del caso e scendere al di sotto dell’importo di mille/00 Euro normalmente liquidate (Cass. n. 14753 del 2010; Cass. n. 24338 del 2006).

Con il secondo motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente denuncia omessa motivazione sul medesimo fatto controverso sotto un differente profilo. In particolare, la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto della circostanza – rilevante ai fini della individuazione dell’indennizzo – che il ricorso era stato presentato in forma collettiva da numerosi ricorrenti aventi tutti la medesima posizione giuridica.

Anche tale motivo è infondato alla luce del condiviso principio per cui la presunzione di danno non patrimoniale notoriamente connessa a situazioni soggettive provocate da un giudizio durato troppo a lungo, la cui connotazione in termini di irragionevolezza è, potrebbe dirsi, ancor più marcata in presenza di domande palesemente infondate e, come tali, suscettibili di immediata risoluzione, non può essere superata, tra l’altro, dalla circostanza che il ricorso amministrativo, inerente a rivendicazioni di categoria, sia stato proposto da una pluralità di attori, considerato che la proposizione di un ricorso in forma collettiva e indifferenziata non equivale certamente a trasferire sul gruppo, come entità amorfa, e quindi a neutralizzare situazioni di angoscia o patema d’animo riferibili specificamente a ciascun singolo consorte in lite (v. , da ultimo, Cass. n. 30160 del 2011 cit.).

Con il terzo motivo, il Ministero deduce vizio di insufficiente motivazione in ordine al fatto controverso se la domanda fosse stata proposta nei confronti di esso Ministero ovvero della Presidenza del Consiglio dei ministri. In proposito, il Ministero rileva che la domanda era stata formulata, secondo quanto affermato nelle conclusioni, nei confronti della PCM, della quale veniva richiesta la condanna. A fronte del chiaro tenore letterale delle conclusioni, la Corte d’appello ha invece accolto la domanda nei confronti del Ministero, unico legittimato passivamente, ritenendo che l’indicazione nelle conclusioni fosse frutto di errore materiale, come anche si desumeva dalla notifica del ricorso al Ministero.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha dato atto del fatto che il ricorso è stato notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze, e cioè all’amministrazione statale legittimata passivamente, a far data dal 1 gennaio 2007, nei giudizi di equa riparazione per la irragionevole durata di tutte le controversie che non si siano svolte dinnanzi al giudice ordinario o ai giudici militari. Il fatto che le conclusioni siano state formulate nei confronti della non evocata Presidenza del Consiglio dei ministri è stato non irragionevolmente nè implausibilmente ritenuto dalla Corte d’appello un mero errore materiale, inidoneo a determinare la nullità del ricorso o a far supporre che i ricorrenti avessero voluto effettivamente concludere nei confronti di un’amministrazione diversa da quella nei confronti della quale erano stati proposti e notificati i ricorsi ex L. n. 89 del 2001.

Con il quarto motivo, l’amministrazione lamenta omessa motivazione in ordine all’accertamento della irragionevole durata del giudizio presupposto, non avendo considerato la Corte d’appello che la controversia era complessa e postulava la delibazione di una questione di legittimità costituzionale, decisa dalla Corte costituzionale con sentenza n. 40 del 2004.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare che ai fini della determinazione della giusta durata del processo, il periodo di pendenza di una questione di legittimità costituzionale va ricompreso nella complessiva durata del processo di merito e di esso si può tener conto nell’ambito della valutazione della complessità del caso, elemento, quest’ultimo a cui fa specifico riferimento la L. n. 89 del 2001, art. 2. Tuttavia, in applicazione di tale principio, si è ritenuta corretta la valutazione della Corte d’appello, che aveva individuato la durata ragionevole di una controversia in materia di pubblico impiego in tre anni, tempo superiore a quello in genere ritenuto congruo dalla giurisprudenza in casi analoghi, proprio sul presupposto che nel giudizio di merito era stata sollevata eccezione di illegittimità costituzionale (Cass. n. 22875 del 2009).

Nella specie, dunque, la decisione della Corte d’appello appare corretta, avendo complessivamente riconosciuto come ragionevole per il giudizio presupposto una durata di poco più di tre anni, dovendosi integrare la motivazione del provvedimento impugnato con lo specifico riferimento alla ragionevolezza del detto periodo anche alla luce della dedotta proposizione di una questione di legittimità costituzionale.

Con il quinto motivo, il Ministero dell’economia e delle finanze denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6, par. 1, della CEDU, dolendosi del fatto che la Corte d’appello, in assenza di elementi particolari idonei ad evidenziare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale subito, la entità del danno va determinata in Euro 750,00 per i primi tre anni, e in 1.000,00 per ciascuno degli anni successivi.

Il motivo è infondato, atteso che la liquidazione di 1.000,00 Euro anche per i primi tre anni di durata irragionevole del giudizio presupposto rientra appieno nei parametri indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e da questa Corte (v. , in proposito, la citata Cass. n. 22875 del 2009) per l’indennizzo del ritardo nella definizione di controversie del tipo di quella in esame.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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