Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-05-2012, n. 8564 Contratto di locazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione notificata in data 19 ottobre 1991 la Srl Lombardia Carni esponeva che, con contratto del 16 aprile 1986, la Spa Bonalzoo le aveva concesso in locazione un immobile ad uso commerciale in (OMISSIS) pattuendo espressamente, all’art. 10 che alla scadenza il conduttore avrebbe avuto diritto di acquistare l’immobile al prezzo di L. 350 milioni. Aggiungeva che in prossimità della scadenza la locatrice le aveva comunicato di non voler venderle il bene per cui le aveva intimato infruttuosamente di comparire avanti il notaio il 20 gennaio 1992 per la stipula della vendita.

Ciò premesso, conveniva in giudizio la Spa Bonalzoo chiedendo che, previo accertamento che la convenuta non aveva provveduto alla stipula della compravendita e che essa attrice aveva assolto l’obbligo di pagamento delle forme di legge, il Tribunale emettesse sentenza che tenesse luogo del rogito notarile di compravendita. Nel corso del giudizio si costituiva la convenuta facendo presente di aver scoperto, in occasione di recenti visure catastali, che l’immobile risultava solo in parte di sua proprietà, essendo rimasto ancora intestato a terzi per un precedente errore notarile, aggiungendo di aver fatto eseguire la corretta intestazione solo della porzione di sua spettanza. Successivamente, sempre nel corso del giudizio, la conduttrice, che era rimasta nella detenzione dell’immobile, vendeva alla ditta "Al Taglio Fresco" di Gavazzi Clelia Erminia il ramo di azienda avente ad oggetto la vendita al dettaglio, dandone comunicazione alla locatrice, la quale proponeva ricorso per reintegra nel possesso o sequestro giudiziario, provvedimento quest’ultimo concesso dal Tribunale con la nomina di un custode giudiziario che, successivamente, veniva autorizzato dal G.I. a concedere in locazione i locali alla cessionaria del ramo d’azienda. In esito al giudizio, il Tribunale di Bergamo respingeva la domanda proposta dalla srl Lombardia Carni. Avverso tale decisione la soccombente proponeva appello in via principale lamentando tra l’altro l’omessa pronuncia sulle domande proposte sul trasferimento del bene nonchè sulle domande di restituzione dei canoni versati o di compensazione con l’eventuale credito vantato dalla locatrice.

Proponeva altresì appello incidentale la Bonalzoo srl. In esito al giudizio, la Corte di Appello di Brescia con sentenza depositata in data 10 febbraio 2010 respingeva l’appello principale, dichiarava che il rigetto della domanda proposta da Lombardia Carni comportava il superamento del provvedimento cautelare di sequestro giudiziario con conseguente cessazione della custodia del bene, respingeva l’appello incidentale, provvedeva al governo delle spese. Avverso la detta sentenza la Lombardia Carni ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.

Resiste con controricorso la Bonalzoo srl, la quale ha proposto a sua volta ricorso incidentale in tre motivi.

Motivi della decisione

In via preliminare, deve rilevarsi che il ricorso principale e quello incidentale sono stati riuniti, in quanto proposti avverso la stessa sentenza.

Procedendo all’esame del ricorso principale, va rilevato che con la prima doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 99 c.p.c., e nel contempo l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente Lombardia Carni ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha ritenuto l’inammissibilità delle modifiche apportate in secondo grado alle conclusioni avanzate in primo grado. Ed invero – questa, in sintesi, la tesi della ricorrente – le conclusioni precisate in appello erano le medesime precisate in primo grado, finalizzate ad ottenere il trasferimento del bene e "non è corretto affermare che la diversa qualificazione giuridica del rapporto costituisca una domanda nuova.

Infatti – ed in tale rilievo si sostanzia la seconda doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1326, 1331, 1362 c.c., nonchè sotto il profilo della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria – la qualificazione giuridica del rapporto è compito del giudice che può (e deve) aver riguardo al contenuto non formale o letterale ma sostanziale della pretesa fatta valere. La natura del patto intercorso tra le parti era chiara e non dava necessità di interpretazione oltre quella letterale ed "il giudicante avrebbe quindi dovuto qualificare il rapporto come opzionèaccettazione e decretare l’avvenuto trasferimento e quindi statuire anche sulle domande connesse di competenza dei frutti fino ad allora maturati" (cfr. pag. 15 del ricorso).

Le due ragioni di censura, che vanno trattate congiuntamente proponendo profili di doglianza intimamente connessi, sono entrambe infondate.

A riguardo torna opportuno rilevare che con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado la Lombardia Carni aveva convenuto in giudizio la Spa Bonalzoo chiedendo che il Tribunale "accertato che la convenuta non ha (aveva) provveduto a stipulare l’atto di compravendita come intimato dall’attrice e che quest’ultima non ha (aveva) assolto l’obbligo di pagamento nelle forme di legge, disponga (disponesse) che l’emananda sentenza tenga (tenesse)luogo del rogito notarile di compravendita con ogni effetto consequenziale", (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

In appello, la Lombardia Carni, deducendo che l’art. 10 del contratto di locazione, secondo cui alla scadenza del rapporto locativo, il conduttore avrebbe avuto (avrà) il diritto di acquistare l’immobile al prezzo di 350 milioni, conteneva invece un patto di opzione, con cui la Bonalzoo aveva formulato una proposta irrevocabile di vendita, assumeva che, avendo essa Lombardia Carni formalizzato l’accettazione della proposta con la notifica dell’atto di citazione, sottoscritto personalmente anche dal suo legale rappresentante, doveva ritenersi che il contratto di compravendita si fosse ormai perfezionato con il conseguente trasferimento della proprietà dell’immobile fin dall’instaurazione del giudizio. Ciò posto, chiedeva che il giudice di secondo grado accertasse e dichiarasse il già avvenuto trasferimento della proprietà dell’unità immobiliare a proprio favore.

Tutto ciò premesso e considerato, appare di ovvia evidenza che, mentre l’azione proposta dalla Lombardia Carni in primo grado era fondata sul dedotto inadempimento della Bonalzoo ad un preliminare e mirava ad ottenere una sentenza costitutiva che tenesse luogo del contratto definitivo non concluso, l’azione proposta in appello era invece basata sulla deduzione di una proposta irrevocabile di vendita, cui si sarebbe obbligata la Bonalzoo, e tendeva ad ottenere una sentenza meramente dichiarativa del già avvenuto trasferimento della proprietà dell’immobile per effetto della notifica della citazione.

Ora, anche se il bene oggetto delle due pretese era il medesimo, riguardando il trasferimento dello stesso immobile, non vi è dubbio però che assolutamente diversi erano i fatti giuridicamente rilevanti posti a rispettivo fondamento delle domande formulate nei due gradi di giudizio, comportanti inevitabilmente nuovi temi di indagine attraverso la prospettazione di nuove circostanze di fatto o di nuove situazioni giuridiche, su cui non si era svolto il contraddittorio. Ed invero, si ha si ha domanda nuova per modificazione della "causa petendi" quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, comporti il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio (Cass. 27890/08).

Passando all’esame della terza doglianza, articola essenzialmente attraverso due profili: il primo, per violazione dell’art. 112 c.p.c.; il secondo, fondato sull’asserita omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Ed invero, la sentenza impugnata – così scrive la ricorrente principale – avrebbe dovuto comunque statuire sulla domanda formulata dalla Lombardia Carni ex art. 2932 c.c., non avendo mai la stessa rinunciato a tale domanda.

Inoltre, il giudice è incorso altresì nel vizio motivazionale dedotto non avendo chiarito se, qualificato il rapporto come contratto preliminare, fosse o meno accoglibile la domanda ex art. 2932 c.c..

La censura è infondata. Ed invero, contrariamente all’assunto della ricorrente principale, la Corte territoriale non ha omesso la pronunzia sulla questione de qua, avendo chiarito in motivazione che il rigetto del primo motivo d’appello rendeva superfluo esaminare se la modifica dell’originaria domanda, effettuata dalla Lombardia Carni, avesse o meno "valore ed effetto di rinuncia all’acquisto del bene per cui è causa". Ed invero, la formula utilizzata dalla Corte di merito, nel prevedere l’assorbimento della questione, è logicamente incompatibile con l’ipotesi normativa dell’omessa pronunzia ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, postulando al contrario una pronuncia, sia pure implicita, della sua irrilevanza ai fini decisionali.

Giova aggiungere che la modificazione della causa petendi, nel comportare in effetti la proposizione di una domanda nuova, diversa da quella prospettata in primo grado, giustifica la sussistenza di ragioni sufficienti per ritenere che le domande assunte in sede di conclusioni siano state di fatto abbandonate in quanto incompatibili con l’attività difensiva espletata. Ed è appena il caso di osservare che tale valutazione rientra nell’esercizio del potere discrezionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità.

Resta da esaminare l’ultima doglianza, svolta dalla ricorrente principale, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1538 c.c., art. 1362 c.c., e segg., nonchè sotto il profilo della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, la quale si fonda sulla considerazione che la Corte di Appello avrebbe sbagliato quando ha disatteso il motivo di impugnazione avverso la sentenza di primo grado nella parte in cui il primo giudice aveva respinto la domanda di riduzione del prezzo dovuto dalla Lombardia Carni, malgrado la accertata differenza fra la reale metratura del negozio (accertata dal CTU in mq 116,45) e quella (di mq 172) indicata nel contratto di locazione, contenente anche l’opzione di acquisto. Ed invero, non si può dedurre, come hanno fatto invece i giudici di merito, – questa, la tesi della ricorrente – che l’indicazione data in contratto non fosse rilevante, posto che il bene che Lombardia Carni ha goduto in locazione era in realtà di misura inferiore e che la conduttrice durante tale periodo non ha mai dato peso a tale differenza. L’interpretazione della volontà delle parti, data dalla corte, non sarebbe corretta in quanto non supportata nè da alcun elemento testuale nè dal comportamento dei contraenti.

La censura, inammissibile per taluni profili, è infondata per altri aspetti. Ed invero, a parte la considerazione che l’utilità dell’esame della doglianza, in quanto afferente alla misura del prezzo di acquisto del bene, era ed è subordinata all’accoglimento della domanda di trasferimento dell’immobile stesso, domanda che nella specie non è stata invece accolta, l’inammissibilità deriva altresì dalla considerazione che l’interpretazione dei contratti, e della volontà delle parti in essi trasfusa, costituisce attività discrezionale del giudice di merito la quale, risolvendosi in un tipico accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità soltanto in caso di violazione dei criteri dell’ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione. A questa Corte infatti non è consentito di procedere alla diretta interpretazione degli atti in quanto la valutazione degli elementi di prova attiene al libero convincimento del giudice di merito.

Ne deriva che nel ricorso per cassazione il ricorrente non può limitarsi a fare astratto richiamo al canone che, a suo avviso, sarebbe stato inosservato ma ha l’onere di spiegare perchè, a suo avviso, l’interpretazione della clausola sarebbe stata condotta con criteri diversi da quelli previsti dalla legge e di chiarire per quali ragioni ritiene che la comune intenzione dei contraenti non sarebbe stata determinata secondo le regole fissate dal legislatore, indicando specificamente il punto ed il modo in cui l’interpretazione si sarebbe discostata dai canoni di ermeneutica, onere che nella specie la ricorrente non ha adeguatamente assolto, essendosi limitata a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative o, comunque, diverse – rispetto a quelle proposte dal Giudice di merito.

Nè d’altra parte – il rilievo investe specificamente il profilo di doglianza relativo al vizio motivazionale dedotto – la ricorrente è riuscita ad individuare effettivi vizi logici o giuridici nel percorso argomentativo dell’impugnata decisione. Giova aggiungere a riguardo che il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al Giudice di legittimità non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell’opzione che ha condotto il Giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al Giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al Giudice di legittimità, (così Cass. n. 8808/08 in motivazione). Ne deriva il rigetto della censura in esame.

Passando all’esame del ricorso incidentale, va rilevato che la prima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione degli artt. 112, 113 c.p.c. e art. 1226 c.c., si fonda sulla considerazione che la Corte territoriale avrebbe sbagliato quando ha disatteso per difetto di prova l’appello incidentale di Bonalzoo srl relativo al mancato risarcimento del danno subito a seguito del comportamento di Lombardia Carni. Ed invero – così continua la ricorrente incidentale – la Corte territoriale avrebbe male interpretato la domanda proposta, ritenendo che non potesse intesa come una domanda di condanna generica, quale invece era. In ogni caso, la Corte non poteva limitarsi ad una pronuncia di rigetto della domanda ma avrebbe dovuto applicare l’art. 1226 c.c..

La censura non coglie nel segno. A riguardo, mette conto di rilevare che la Corte di merito ha fondato la sua decisione sulla considerazione che dalla lettura delle conclusioni formulate dalla parte non risultava affatto che "la domanda potesse essere interpretata come di mera condanna generica, posto che erano precisamente indicate le conseguenze pregiudizievoli della condotta dell’attrice e non era comunque stata formulata richiesta di liquidazione del danno nel prosieguo del processo o in separata sede".

Ciò posto, giova premettere che l’interpretazione della domanda è attività discrezionale del giudice di merito, che risolvendosi in un tipico accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità ove sorretta da una motivazione congrua e giuridicamente corretta, quale va considerata nel caso di specie, alla luce dell’espresso riferimento, ivi contenuto, alla mancata istanza della parte, rivolta al Collegio, perchè si limitasse a pronunciare con la sentenza la mera condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza per il prosieguo del processo per la liquidazione. Ed è appena il caso di osservare che la mancata proposizione della detta istanza, da parte dell’interessato, costituisce una più che ragionevole chiave interpretativa del fatto che la Bonalzoo, in realtà, non avesse inteso proporre una domanda di condanna generica.

Ed invero, l’art. 278 cod. proc. civ., il quale consente una pronuncia non definitiva limitata all’"an debeatur" con rinvio della liquidazione del "quantum" a successiva fase dello stesso giudizio, sulla sola base dell’istanza della parte interessata e senza necessità della adesione della controparte, non esonera l’attore, all’atto della rimessione della causa al collegio, dall’onere di richiedere la separazione, e inoltre di indicare i mezzi di prova dei quali intenda avvalersi per la determinazione del "quantum", secondo la disciplina generale, con la conseguenza che, in difetto di tali adempimenti, il giudice deve pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, rigettandola se non adeguatamente provata, (cfr., Cass. n. 5736/2004).

Giova aggiungere infine che l’esercizio del potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., rientra nella discrezionalità del giudice di merito, con il preciso ed inderogabile limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza ontologica.

Con la seconda doglianza, deducendo la violazione dell’art. 96 c.p.c., nonchè l’insufficiente motivazione, la ricorrente incidentale ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha rigettato la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., omettendo di prendere in considerazione, quali indici rivelatori della malafede della Lombardia Carni, la proposizione della citazione prima della scadenza del termine previsto dalla clausola n. 10 del contratto, la cessione d’azienda in corso di causa così da lucrare sulla detenzione dell’immobile, il procrastinare i tempi già lunghi del giudizio, risolvendo unilateralmente la transazione conclusa. La censura è inammissibile. Le ragioni di doglianza formulate dalla ricorrente, come risulta di ovvia evidenza dal loro stesso contenuto e dalle espressioni usate, non concernono violazioni o false applicazioni del dettato normativo bensì la valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla Corte di merito; nè evidenziano effettive carenze o contraddizioni nel percorso motivazionale della sentenza impugnata ma, riproponendo l’esame degli elementi fattuali già sottoposti ai giudici di seconde cure e da questi disattesi, mirano ad un’ulteriore valutazione delle risultanze processuali, che non è consentita in sede di legittimità.

Ciò posto, considerato che la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice di merito, deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa. Con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente avanza, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

Occorre infine portare l’attenzione sull’ultima doglianza, fondata sulla violazione degli artt. 91, 92, 112, 113 e 669 decies c.p.c., con cui la ricorrente incidentale ha censurato la decisione nella parte in cui ha disatteso il motivo di appello incidentale riguardante la omessa pronuncia di "revoca del sequestro giudiziario" autorizzato in corso di causa ed ha condannato la soccombente alla rifusione delle spese di custodia e della fase cautelare dichiarando che il rigetto della domanda proposta da Lombardia carni comportasse il superamento del provvedimento cautelare di sequestro con conseguente cessazione della custodia del bene. Infatti, la Corte territoriale, nel dedurre l’inapplicabilità dell’art. 669 decies, perchè la richiesta non si fondava su mutamenti nelle circostanze, vertendosi invece in un’ipotesi in cui il sequestro era semplicemente venuto meno, e perchè la domanda di ordine di riconsegna dell’immobile era inammissibile, non essendo stata proposta in primo grado, avrebbe gravemente sbagliato potendo invece applicare dell’art. 669 novies, comma 2, il quale prevede l’obbligo del giudice di emettere le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente al sequestro, indipendentemente dalla domanda delle parti.

Ugualmente, la Corte avrebbe sbagliato quando ha affermato che debba essere il Tribunale in composizione collegiale a porre a carico della soccombente le spese già liquidate al custode dal G.I. – Dette spese devono ritenersi ricomprese ex art. 91 c.p.c., nelle spese del processo.

Anche quest’ultima censura non è fondata. Ed invero, come correttamente ha precisato il giudice di secondo grado, nella vicenda processuale in esame, non si verte in ipotesi di revoca del sequestro (disciplinata dall’art. 669 decies c.p.c.) la quale postula il verificarsi di mutamenti nelle circostanze o l’allegazione di fatti anteriori, di cui si sia acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare, tali da poter determinare il giudice istruttore della causa di merito, su istanza della parte interessata, a modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare. Si verte invece nella diversa ipotesi disciplinata dall’art. 669 novies, la quale presuppone la sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare, prevista dalla norma nel caso del mancato o intempestivo promovimento del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice o dalla legge, nel caso dell’estinzione del giudizio di merito, nel caso del mancato versamento della cauzione, disposta ai sensi dell’art. 669 undecies, nonchè – ed è l’ipotesi che qui interessa – nel caso della dichiarazione di inesistenza del diritto cautelato, contenuta nella sentenza di merito.

Ed invero, nel caso in esame, il provvedimento di sequestro è venuto meno (ipso iure, conformemente a quanto previsto dall’art. 669 novies) in quanto superato dalla pronuncia della sentenza, che risolvendo la controversia sulla proprietà ed il possesso dell’immobile, esclude il permanere delle esigenze cautelari e ripristina la proprietaria – locatrice nella piena disponibilità del bene. Ne deriva che il provvedimento di sequestro non produce più alcun effetto, con conseguente cessazione dell’incarico conferito al custode, onde il sostanziale assorbimento di ogni questione riguardante la domanda di revoca.

Tutto ciò premesso e considerato, fermo restando che nella specie, per le considerazioni esposte, non si verte in tema di revoca, come si era doluta l’appellante incidentale (cfr., pag. 21 della sentenza impugnata) bensì in tema di sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare, deve ritenersi esente da censura la conclusione cui perviene la Corte di merito quando dichiara inammissibile la domanda "di ordine di riconsegna dell’immobile" per le ragioni ivi considerate e rileva che competente a provvedere sulle istanze conseguenti alla custodia e alla sua cessazione è il Tribunale che ha emesso il provvedimento cautelare, e non il giudice di appello.

A riguardo, vale la pena di aggiungere che, secondo l’orientamento di questa Corte, in tema di procedimenti cautelari, a seguito della declaratoria di inefficacia della misura cautelare, l’esecuzione dei conseguenti provvedimenti ripristinatori o restitutori va svolta nelle forme ordinarie del processo esecutivo, sia perchè dell’art. 669 novies cod. proc. civ., comma 2, esplicitamente stabilisce che il giudice provvede al riguardo con ordinanza o con sentenza "esecutiva", sia perchè non è applicabile alla fattispecie la disciplina dell’art. 669 duodecies cod. proc. civ., la quale, attribuendo al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il controllo della sola "attuazione" delle misure aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, e stabilendo che ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito, non attiene alla rimozione degli effetti della misura divenuta inefficace (Cass. n. 712/2006).

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che entrambi i ricorsi per cassazione in esame, siccome infondati, devono essere rigettati. In considerazione della reciproca soccombenza, sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte decidendo sui ricorsi riuniti li rigetta. Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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