Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-05-2012, n. 8562 Avviamento commerciale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.1. Il Centro Residenziale Maestoso s.r.l. intimò a F. L. sfratto per finita locazione al 31.12.05 in relazione ad un immobile destinato ad uso non abitativo e locato "per esclusivo uso di laboratorio di cornici", contestualmente citandolo per la convalida dinanzi alla sez. dist. di Viareggio del tribunale di Lucca; ma l’intimato oppose il proprio diritto all’indennità per avviamento commerciale: sicchè la causa fu istruita previa trasformazione del rito in quello locatizio e decisa in primo grado con il riconoscimento della scadenza contrattuale dedotta ed il rigetto della riconvenzionale per il pagamento dell’indennità. 1.2. In particolare, il primo giudice ritenne non equivoco il tenore del contratto nel senso di escludere qualunque contatto diretto con il pubblico ed irrilevanti sia la circostanza dell’effettiva attività di vendita diretta, in difetto di prova della conoscenza di quella da parte della locatrice, sia quella dell’invito della locatrice stessa ad esercitare il diritto di prelazione.

1.3. Appellò tale sentenza il F.: sostenendo l’erroneità dell’interpretazione delle clausole contrattuali, dinanzi alla normalità del contatto diretto con il pubblico per un laboratorio artigiano quale il suo ed alla mancata esclusione in contratto di tale contatto; negando qualsiasi mutamento nella destinazione d’uso, quest’ultimo essendo rimasto invariato; dolendosi della mancata considerazione del riconoscimento dei presupposti per l’avviamento, avutosi con comunicazione della locatrice di invito ad esercitare il diritto di prelazione; lamentando la mancata ammissione di ulteriori prove sul presupposto del suo diritto all’indennità di avviamento.

1.4. Con sentenza 8.4.10 n. 420 la corte di appello di Firenze ha in sostanza accolto le argomentazioni dell’appellante, riconoscendogli il diritto all’indennità di avviamento e condannando la controparte alla corresponsione di essa, pari ad Euro 10.890 (senza accessori, in quanto non richiesti), nonchè alle spese di lite del doppio grado.

1.5. Propone ora ricorso per la sua cassazione, affidato a tre motivi conclusi da quesiti, il Centro Residenziale Maestoso s.r.l.; resiste con controricorso il F..

Motivi della decisione

2. La ricorrente Centro Residenziale Maestoso sviluppa tre motivi ed in particolare:

2.1. con un primo motivo (rubricato "quesito n. 1: omessa applicazione di norme di diritto su un fatto decisivo per il giudizio") essa chiede a questa corte di verificare se la clausola n. 2 del contratto 1.1.88, con cui si concede in locazione un fondo ad uso commerciale "ad esclusivo uso di laboratorio di cornici", vieti la vendita al pubblico, dolendosi della mancata applicazione "delle norme interpretative contrattuali ex art. 1362 c.c., e segg."; e, più specificamente, sostiene che già il riferimento ad un’attività di laboratorio dovesse escludere questo contatto e che l’uso, rilevante anche ai fini della L. n. 392 del 1978, art. 80, dovesse intendersi nel senso dell’esclusione di ogni attività di vendita in un bene indicato come "locale" e non come "fondo commerciale", del resto in conformità alla sua natura, struttura e qualifica urbanistica di "magazzino"; ancora, invoca la congiunta interpretazione della già ricordata clausola n. 2 con la n. 5, per la quale la strada privata di accesso doveva restare costantemente libera e vuota, onde permettere l’accesso a tutte le porzioni di immobile che dalla stessa strada privata, su cui si trovava il bene locato, avevano accesso; sottolinea l’esclusione della previsione di attività comportante il contatto diretto con il pubblico sulla base della congiunta considerazione dell’ubicazione e delle caratteristiche del bene, del conduttore e del prezzo; ritiene elemento di interpretazione dell’effettiva volontà contrattuale la successiva condotta del locatario, il quale non ha mai comunicato i mutamenti della propria attività, tra cui quelli della "denominazione giuridica";

2.2. con un secondo motivo (rubricato "quesito n. 2: contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia") essa chiede a questa corte di statuire, una volta accertata la validità della clausola n. 2 del contratto nei sensi sostenuti e stabilito essere intervenuto un mutamento della destinazione d’uso (da attività non comportante contatto diretto con il pubblico ad attività comportante tale contatto), che il conduttore non possa esercitare vendite al pubblico senza darne avviso alla locatrice, con conseguente rilevanza della mancata conoscenza di tale circostanza da parte di quest’ultima, anche ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 80;

2.3. con un terzo motivo (rubricato "quesito n. 3: insufficiente motivazione ed erronea applicazione di legge circa un punto decisivo della controversia di cui alla L. n. 392 del 1978, artt. 34 e 35") essa chiede a questa corte di accertare se il conduttore abbia dato adeguata dimostrazione dei pretesi contatti con il pubblico, senza verificare se si tratti di attività marginale o prevalente:

contestando la lettura degli elementi probatori in atti e ricordando anzi di avere sottoposto al giudicante la circostanza della spropositata entità di cornici indicate nelle ricevute fiscali in atti e la conseguente possibilità di configurare una vendita all’ingrosso, anzichè al dettaglio; e ribadendo la necessità, non rispettata nella specie, della conoscenza di tale mutamento ai fini dell’insorgenza del diritto all’indennità di avviamento.

3. Dal canto suo, il controricorrente contesta nel merito ed anche in fatto le doglianze avversarie.

4. Il primo motivo di ricorso:

4.1. presenta preliminari profili inammissibilità:

in primo luogo, la genericità della stessa formulazione della doglianza, introdotta da un "quesito" (nonostante non sia applicabile, per l’intervenuta sua abrogazione e per la data di pubblicazione del provvedimento impugnato, l’art. 366 bis cod. proc. civ.) e soprattutto da un indifferenziato richiamo ad una "omessa applicazione di norme di diritto" congiuntamente ad un "fatto decisivo per il giudizio", che non corrisponde ai motivi codificati nel testo dell’art. 360 cod. proc. civ. (mentre, ove si potesse ammettere una sorta di fusione, per contaminazione, tra quelli dei nn. 3 e 5 di tale norma, l’inammissibilità sarebbe comunque conclamata, stando – tra le ultime – a Cass. 23 settembre 2011, n. 19443);

in secondo luogo, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (sui diversi aspetti e profili del quale, tra le tante, vedi: Cass. 9 giugno 2011, n. 12713; Cass. 27 maggio 2010, n. 12992; Cass., ord. 30 luglio 2010, n. 17915), non è in quest’ultimo riportato testualmente il tenore degli atti di parte dei gradi di merito, nè tanto meno se ne indica la precisa sede processuale, in cui è stata svolta la doglianza della mancata considerazione dei singoli argomenti (diversi dalla considerazione del contenuto della sola clausola contrattuale n. 2) sviluppati in ricorso;

in terzo luogo, effettivamente esso non riguarda un’erronea applicazione di una norma di diritto, il cui contenuto è stato correttamente ricavato, ma censura la sussunzione della fattispecie concreta entro quella prevista dalla norma: ma è noto che il discrimine tra violazione di legge in senso proprio a causa di erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa – da un lato – ed erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – dall’altro – è segnato, in modo evidente, nel senso che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra le tante e per limitarsi alle più recenti: Cass. 28 settembre 2011, n. 19789; Cass. 20 aprile 2011, n. 9117; Cass. 31 marzo 2011, n. 7459);

in quarto luogo, con esso la ricorrente chiede a questa corte di legittimità di ripercorrere le valutazioni estimative del giudice del merito e di rinnovare la comparazione degli elementi probatori da essa addotti a negazione dell’esistenza in concreto del contatto diretto con il pubblico, attività però sempre vietata in sede di legittimità, salvo il solo caso di evidenti vizi logici o giuridici;

un vizio di motivazione non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè non ha la corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo invero la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (tra le molte, v, Cass. 17 novembre 2005, n. 23286, oppure Cass. 18 maggio 2006, n. 11670, oppure Cass. 9 agosto 2007, n. 17477 ; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288); e, a ben vedere, i detti vizi logici o giuridici non solo non sono resi oggetto di doglianza rituale, ma neppure sussistono, per quanto si viene adesso a rilevare;

– in quinto luogo (tra le ultime: Cass. 14 febbraio 2012, n. 2109), è di norma esclusa, nel giudizio di cassazione, una diretta valutazione della clausola contrattuale, al fine di escludere la legittimità del ricorso da parte del giudice di merito ad altri canoni ermeneutici (Cass. 15 marzo 2005, n. 5624); in sostanza, l’interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, poichè il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v. Cass. 31 marzo 2006, n. 7597; Cass. 1 aprile 2011, n. 7557); inoltre, sussistendo un’autentica gerarchia tra le norme di ermeneutica, il comportamento delle parti successivo alla conclusione rileva solo ove l’interpretazione delle clausole contrattuali esaminate nel loro significato letterale non fornisca elementi idonei e sufficienti per l’individuazione della comune intenzione delle parti medesime (giurisprudenza consolidata; tra le molte, v.: Cass. 23 febbraio 1998, n. 1940; Cass. 18 aprile 2002, n. 5635);

4.2. del resto, della congruità e logicità delle argomentazioni della corte territoriale non può dubitarsi: il tenore letterale della clausola è univoco nel prevedere l’esclusività dell’uso del bene locato quale laboratorio artigiano: ma tanto non significa affatto che sia positivamente escluso il contatto con il pubblico dei potenziali acquirenti del prodotto dell’attività artigiana, il quale anzi è di norma coessenziale alla medesima per essere rivolta comunque ad una clientela normalmente indifferenziata, interessata – per le dimensioni ordinariamente contenute dell’attività imprenditoriale artigiana – al prodotto ottenuto dalla prevalente – se non esclusiva – attività manuale del titolare (per la spettanza dell’indennità di avviamento in merito ad immobile in cui si svolge l’attività artigiana di sartoria: Cass. 29 luglio 1995, n. 8340;

Cass. 10 agosto 1993, n. 8585);

– perfino l’ulteriore clausola del mantenimento della stradina privata di accesso sgombra non vieta affatto l’accesso a chicchessia, ma si preoccupa di impedire che gli altri fruitori della medesima via siano impediti o molestati nella fruizione di essa da parte loro;

– la prova del contrario, sempre in astratto possibile, è stata esclusa in concreto dalla corte di merito con una valutazione comparativa delle risultanze, mentre di quelle che parrebbero non espressamente prese in considerazione la ricorrente non indica la sede processuale in cui sarebbero state ritualmente allegate e provate (in relazione al rigoroso regime di preclusioni proprio del rito c.d. locatizio), nè indicando la sede processuale dei relativi elementi probatori e soprattutto neppure riportandone la trascrizione, così precludendo a questa corte la verifica, sia pure nei ristretti limiti in cui ad essa è consentita, della logicità e congruità della valutazione.

5. Il secondo motivo di ricorso è, poi, a sua volta inammissibile:

in primo luogo, per irrituale formulazione della doglianza e per violazione del principio di autosufficienza, secondo quanto già indicato sub 4.1; in secondo luogo, perchè si fonda evidentemente sulla tesi, la censura alla (Ndr: testo originale non comprensibile) alla quale non è stata mossa in modo valido o rituale, dell’originaria destinazione del bene locato ad attività non comportante diretto contatto con il pubblico degli utenti o dei consumatori.

6. Infine, il terzo motivo di ricorso è inammissibile, per violazione del principio di autosufficienza – sotto lo specifico profilo della doglianza di mancato riscontro della prevalenza dell’attività comportante il contatto diretto col pubblico – e comunque per inammissibilità di una diversa lettura delle risultanze probatorie in sede di legittimità, secondo quanto già indicato sub 4.1; del resto, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente: l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, allo scopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (giurisprudenza fermissima; da ultimo: Cass., ord. 6.4.2011, n. 7921).

7. Il ricorso – inammissibili essendo tutti i motivi – va pertanto rigettato (poichè, in materia di impugnazioni civili, la prospettazione di motivi non consentiti, pur rendendo inammissibile la censura, comporta il rigetto, e non già l’inammissibilità, del ricorso per cassazione: Cass. 22 maggio 2006, n. 11938) e la soccombente ricorrente condannata alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la Centro Residenziale Maestoso srl, in pers. del leg. rappr.nte p.t., al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore di F.L., liquidate in Euro 1.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre maggiorazione per spese generali, C.P.A. ed I.V.A. nella misura di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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