Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-05-2012, n. 8531 Interpretazione del contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con distinti ricorsi successivamente riuniti M.G., F.M., M.F. e F.L. convenivano innanzi al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, la Co.TRAL S.p.A. – Compagnia Trasposrti – Società Regionale S.p.A., loro datrice di lavoro, chiedendone la condanna al pagamento delle somme corrispondenti, per ciascuno di essi, all’80% del prezzo unitario di mercato dei capi di vestiario dall’Azienda non forniti loro negli anni dal 1993 al 1998 in violazione delle previsioni concernenti la cd. Massa vestiario di cui agli accordi sindacali 9/6/1972 e 1-3-1990.

Nel contraddittorio instaurato con la società convenuta, la quale, costituitasi, contestava la fondatezza del ricorso, il Giudice di prime cure accoglieva le domande.

Avverso detta sentenza proponeva appello la società soccombente, sostenendone la totale erroneità per avere ritenuto la natura retributiva della Massa vestiario e per non avere rilevato che nessuna prova di aver subito danni, dovuti alla mancata fornitura degli indumenti, era stata fornita dai lavoratori. Riproponeva, inoltre, l’eccezione di prescrizione quinquennale dei crediti azionati.

Gli appellati, costituendosi, chiedevano la reiezione del gravame, sostenendo la natura retributiva della fornitura di abiti in questione e che, comunque, anche a non ritenere tale natura, l’inadempimento aziendale all’obbligo di fornire annualmente determinati capi di vestiario in determinate quantità restava ugualmente produttivo di danni, per avere essi "dovuto provvedere da soli e di tasca propria all’acquisto di indumenti da utilizzare nello svolgimento dell’attività lavorativa" e per la conseguente usura dei medesimi a causa del loro utilizzo in ambito aziendale; danni legittimamente quantificati nell’80% del valore degli abiti, ovvero nella quota che gli accordi aziendali avevano posto a carico dell’azienda. Nè alcuna prescrizione si era verificata essendo state le domande riferite al quinquennio antecedente la proposizione dei reclami gerarchici concernenti l’oggetto del giudizio.

Con sentenza del 22 gennaio-19 aprile 2010, l’adita Corte d’appello di Roma, rilevato che agli atti non vi erano elementi che facessero ritenere sussistente un’imposizione aziendale di indossare uno specifico abbigliamento in luogo di altri, e che neppure risultavano, nei ricorsi, deduzioni riguardanti l’avvenuto acquisto, da parte dei lavoratori, a proprie spese di abiti, che, per tipo e foggia, diversamente non avrebbero acquistato, in accoglimento del gravame, rigettava le domande proposte dai suddetti lavoratori.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorrono i soli M. G. e M.F. con quattro motivi.

La Co.TRA.L. S.p.A. non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il proposto ricorso, articolato in quattro motivi, M. G. e M.F. denunciano: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., in relazione all’interpretazione degli Accordi Collettivi del 9 giugno 1972 e del 1 marzo 1990 (art. 360 c.p.c., n. 3); 2) violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1218, 1223, 1225, 1226, 1375, 1453 e 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); 3) violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 421, 432 e 437 c.p.c. e dell’art. 24 Cost.

(art. 360 c.p.c., n. 3); 4) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Il ricorso, valutato nelle sue diverse articolazioni, è fondato nei termini di cui qui di seguito.

Va preliminarmente osservato che -come ha tenuto ad evidenziare il Giudice a quo- l’art. 4 dell’accordo dell’1-3-1990, pacificamente applicabile alla fattispecie, prevede espressamente (e similmente disponeva il precedente accordo del 1972) che gli effetti di massa vestiario sono assegnati espressamente e solamente per le necessità ed il decoro dei servizio ed allo scopo di rendere più agevole al personale l’espletamento delle mansioni cui è addetto e pone a carico dei lavoratori il 20% del costo di acquisto degli effetti medesimi.

Dall’art. 6 dello stesso accordo, inoltre, risulta che i lavoratori non sono liberi di utilizzare il vestiario fornito a loro piacimento essendo tenuti, invece, ad averne la massima cura, sia per evidenti ragioni di ordine e di decoro sia per garantirne la conservazione per tutto il periodo di durata stabilito.

Da tali previsioni la Corte territoriale ha tratto la convinzione che l’obbligazione concernente la fornitura degli indumenti costituenti la Massa vestiario non avrebbe natura retribuiva, non trattandosi di una corresponsione sinallagmaticamente ricollegabile alla prestazione lavorativa, e neanche di un’utilità per il dipendente, stante la quota del 20% del valore degli effetti e il dovere di conservazione posti a suo carico, essendo essa invece finalizzata espressamente ed esclusivamente alle necessità ed al decoro del servizio anche attraverso il previsto "rendere più agevole" il disimpegno delle mansioni affidate e corrispondendo dunque ad un esclusivo interesse aziendale.

Da tale dato testuale il Giudice d’appello ha, altresì, argomentato che la mancata messa a disposizione degli abiti non integri, di per sè, una condotta generatrice di danno, e, in particolare, di un danno patrimoniale corrispondente a quella quota del valore degli abiti prevista quale facente capo all’azienda, trattandosi di obbligazione assunta – e relativo esborso, ove sostenuto – nell’esclusivo interesse della stessa datrice di lavoro.

Nè a conclusioni diverse -soggiunge la Corte territoriale – potrebbe pervenirsi sulla scorta delle deduzioni degli appellati concernenti un obbligo per loro di "provvedere da soli e di tasca propria all’acquisto di indumenti" occorrenti per l’espletamento dell’attività lavorativa, da intendersi non quale ordinario acquisto, normalmente effettuato per le proprie esigenze di vita, di abiti poi utilizzati (anche) in ambito lavorativo, ma quale acquisto imposto in base a disposizioni aziendali di abiti particolari, ovvero corrispondenti a particolari fogge o tipologie uniformi volute dalla datrice di lavoro, che diversamente non si sarebbero acquistati, così prospettandosi da parte dei lavoratori una perdita patrimoniale superiore a quel 20% del valore dei capi già posto a loro carico dai citati accordi (e pacificamente non corrisposto).

In proposito, la Corte di merito ha rilevato che i ricorsi di primo grado difettavano di qualsiasi allegazione che consentisse, ove provata, di far ritenere sussistente un imposizione aziendale di indossare uno specifico abbigliamento in luogo di altri, secondo la tesi ora sostenuta, tale non essendo, per la assoluta genericità della formulazione, quella secondo la quale "i ricorrenti indossavano … indumenti uguali e/o similari ai capi di abbigliamento prescritti dall’azienda per ragioni di decoro e servizio".

Orbene, con il proposto ricorso si sostiene che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, i ricorrenti, sin dall’atto introduttivo del giudizio, avevano dedotto a prova il fatto di aver proceduto, nel periodo considerato, all’acquisito di vestiario similare a quello uniforme.

Di più, sin dal giudizio di 1^ grado, sempre contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, i ricorrenti sostengono di avere prodotto in primo grado (doc. 1) e in allegato alla comparsa in appello (doc. 7), copia del foglio di punizione n. 62 dell’11.05.1995, nei confronti del Sig. V.G., dipendente Cotral, appartenente allo stesso impianto di Nettuno cui appartenevano i ricorrenti: "…passibile di punizione perchè il giorno 22.11.94, comandato sul T123, non indossava la divisa. …".

Il citato foglio di punizione – proseguono i ricorrenti- confermerebbe la circostanza che coloro che non erano adeguatamente vestiti, venivano richiamati;

ciò a riprova della sussistenza in capo ai ricorrenti dell’obbligo di indossare i vestiario – uniforme (pena conseguenze di carattere disciplinare), del loro conseguente interesse e diritto alla fornitura promessa, del fatto che l’Azienda non fosse indifferente a come i suoi dipendenti si vestissero, del fatto che esistesse un’imposizione aziendale, pretendendo l’Azienda che venisse indossata una certa divisa (blu-celeste) similare a quella che avrebbe dovuto fornire, pur ritenendosi, tuttavia, libera di non adempiere alle obbligazioni assunte in sede sindacale di fornitura degli abiti da lavoro da utilizzare nello svolgimento dell’attività lavorativa.

Tanto più che, anche su questo punto -rimarcano i ricorrenti- sin dal ricorso introduttivo del giudizio era stata richiesta la prova sul fatto che l’azienda avesse mosso contestazioni disciplinari al personale dipendente che non fosse adeguatamente vestito. E di tanto i ricorrenti hanno riportato, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, i rispettivi capitoli di prova, ai quali la Corte di merito non ha fatto alcun riferimento.

Da tale documentata prospettazione consegue che non appare corretto l’assunto della stessa Corte che i ricorsi difettassero di qualsiasi allegazione che consentisse di far ritenere sussistente un’imposizione aziendale di indossare uno specifico abbigliamento.

Va, inoltre, aggiunto che in analoga occasione ed in relazione a pretese avanzate da lavoratori nei confronti della medesima società, attuale intimata, questa Corte ha chiarito che, in caso di inadempimento del datore di lavoro all’obbligo, contrattualmente assunto, di fornitura ai dipendenti di "vestiario uniforme", ove il dipendente, al fine di adempiere alla propria obbligazione di indossare in servizio abiti "uniformi", sia conseguentemente costretto ad acquistare a proprie spese abiti che, per tipo e foggia, diversamente non avrebbe acquistato, il datore di lavoro è tenuto, in base alla disciplina generale di cui all’art. 1218 cod. civ., e segg., a risarcirgli il danno rappresentato dal costo aggiuntivo incontrato per detto acquisto, giacchè trattasi di perdita patrimoniale causalmente riconducibile in modo immediato e diretto all’inadempimento, secondo regole di normalità e tenuto conto del principio, desumibile dall’art. 1225 cod. civ., relativo al giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso-inadempimento e quella effettivamente avvenuta (Cass. nn. 23897, 23734, 23899, 23965, tutte del 2008).

Sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per il riesame, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2012

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