Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-10-2011) 18-11-2011, n. 42669 Determinazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza del 19.10.2010 la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Ferrara, con la quale G.G. era stato condannato, applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, alla pena di anni 4 di reclusione per il reato di cui all’art. 609 bis c.p. ascritto, concedeva le circostanze attenuanti generiche e riduceva la pena inflitta in primo grado ad anni 2 e mesi 4 di reclusione, confermando nel resto.

Ricordava la Corte territoriale che il minore B.L. (di anni sedici), su consiglio del cugino M.L., si era recato a casa del G., indicatogli come un pranoterapeuta in grado di guarirlo dai disturbi collegati a patologia di varicocele; era stato fatto stendere su un letto e fatto spogliare; il G. aveva quindi iniziato a toccarlo nelle parti intime e a masturbarlo fino alla eiaculazione, spiegando che quello era l’unico sistema per guarire. Solo quando l’imputato aveva tentato di introdurre un dito nell’ano il minore aveva reagito, rivestendosi ed allontanandosi.

L’accaduto era stato rivelato dal minore alla madre, Ba.

M., la quale aveva presentato in data 30.11.2006 denuncia- querela.

Tanto premesso e richiamata la motivazione della sentenza di primo grado, riteneva la Corte territoriale destituiti di fondamento i motivi di appello. Rilevava la Corte che l’elemento oggettivo era pacifico, in quanto la condotta masturbatoria posta in essere dall’imputato, pur riferita dalla sola parte offesa, era confortata dalla piena attendibilità del B. e dai plurimi elementi logici e testimoniali che la confermavano.

Passava, quindi, la Corte ad esaminare i due nuclei centrali degli argomenti su cui era fondato l’appello. I rilievi inerenti la condizione soggettiva del B. (inquietudine sessuale, latente omosessualità) erano fondati su mere congetture oppure su circostanze di fatto (separazione dei genitori, problemi scolastici) inidonei a sorreggere l’assunto difensivo.

Il secondo rilievo, invece, si fondava su dati obbiettivi certi (l’imputato non aveva esercitato alcuna violenza nè posto in essere atti repentini, ma, attraverso atti preliminari, una condotta masturbatoria durata circa dieci minuti e conclusasi con la eiaculazione; lo scambio di un bacio e l’introduzione di un dito nell’ano era stati agevolmente respinti).

Dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità sul concetto di violenza nei reati sessuali (oltre ad equiparare all’atto repentino quello subdolo, estende la punibilità anche a fatti commessi in un contesto di oggettiva impossibilità di reazione oppositiva), riteneva la Corte di merito che, nella fattispecie in esame, il contesto ambientale era connotato da forte suggestione psicologica e da isolamento personale, tali da rendere impossibile l’opposizione ad atti presentati, tra l’altro, come finalizzati alla guarigione della patologia.

Gli atti posti in essere erano, inoltre, illeciti anche perchè vi era stata falsa attribuzione di una qualifica professionale.

Nè infine era ipotizzabile un errore sul consenso, essendo insostenibile che l’imputato potesse aver ritenuto di aver fatto colpo sul ragazzo (tesi questa neppure enunciata dall’imputato).

2) Ricorre per cassazione G.G., denunciando, con il primo motivo, la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato contestato con riguardo: 1) alla inattendibilità della testimonianza della persona offesa; 2) alla ritenuta impossibilità della p.o. ad opporsi all’imputato; 3) alle osservazioni svolte dal consulente della difesa ed alle dichiarazioni rese dalla teste Ba.; 4) al contrasto delle dichiarazioni del B. con quelle del cugino M.L. rese nell’interrogatorio del 19.11.2007; 5) alla ritenuta sussistenza della colpevolezza dell’imputato per il reato contestato; 6) alla mancanza di fondamento empirico e scientifico di alcuni passaggi motivazionali.

Con il secondo motivo denuncia la inosservanza od erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 609 bis c.p. con particolare riferimento all’elemento della "violenza". La Corte territoriale incorre in un chiaro errore di diritto, richiamando impropriamente alcune pronunce della Suprema Corte. Nel caso di specie non risulta, infatti, integrato il concetto di violenza.

Con il terzo motivo denuncia la inosservanza od erronea applicazione della legge penale, nonchè il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione della circostanza attenuante del fatto di minore gravità. 3) Il ricorso è infondato.

3.1) E’ pacifico che "In tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo consista sia nella violenza fisica, sia nell’intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinatario, o, comunque prevenendone la manifestazione di dissenso" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 6945 del 27.1.2004).

Come ha, poi, ricordato anche la Corte territoriale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "la nozione di violenza nel delitto di violenza sessuale non è limitata alla esplicazione di energia fisica direttamente posta in essere verso la persona offesa, ma comprende qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, così costretto a subire atti sessuali contro la propria volontà" (cfr. Cass. sez. 3 n. 6643 del 12.1.2010). Nella motivazione di detta sentenza si esplicita che la nozione di violenza "..ha un’ampia accezione tecnico-giuridica e ricomprende non solo la energia fisica, ma qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che abbia come ricaduta la limitazione della libertà del soggetto passivo che viene costretto contro la sua volontà a subire atti sessuali".

Si è ulteriormente affermato che "integra il delitto di violenza sessuale non solo la violenza che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza possibile, realizzando un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta con il compimento di atti idonei a superare la volontà contraria della persona offesa, soprattutto se la condotta criminosa si esplica in un contesto ambientale tale da vanificare ogni possibile reazione della vittima" (cfr. Cass. Pen. Sez. 3 n. 40443 del 28.11.2006).

3.1.1) Un siffatto contesto è stato riscontrato dai Giudici di merito, che hanno rilevato come il B. (pur non essendo stata esercitato nei suoi confronti alcun costringimento fisico) venne a trovarsi in una situazione di oggettiva impossibilità di reazione oppositiva.

Già il Tribunale aveva ricordato l’azione subdola ed insinuante posta in essere dall’imputato per convincere il ragazzo a sottoporsi alla "terapia". Dopo un iniziale incontro, nel corso del quale il B. aveva esposto i problemi fisici e psichici che lo affliggevano, l’imputato aveva assicurato che era in grado di aiutarlo e lo aveva poi contattato telefonicamente varie volte, insistendo sulle sue capacità curative e non mancando di sottolineare che, se non ci fosse riuscito, sarebbe stato necessario l’intervento chirurgico. Il ragazzo, che viveva un momento difficile per la separazione dei genitori e che era afflitto da problemi di varicocele, aveva finito per accettare l’incontro, recandosi con il cugino M. a casa del G..

A prescindere di chi (se dell’imputato o della persona offesa) fosse stata l’iniziativa di non far presenziare il M., risultava in modo indiscutibile che il ragazzo era venuto a trovarsi da solo in una situazione di palese inferiorità che gli impediva qualsiasi opposizione. Anche perchè egli era convinto che la condotta posta in essere dal prevenuto avesse le enunciate finalità terapeutiche.

Sicchè, sottolineava il Tribunale, di fronte agli atti invasivi della sua sfera sessuale, accompagnati dalla assicurazione che quello era l’unico modo per guarire, egli rimase "bloccato ed Impaurito", non avendo la forza di reagire.

La Corte territoriale ha ulteriormente evidenziato che il contesto ambientale nel quale il ricorrente aveva callidamente posto il ragazzo era tale "da rendere difficile o impossibile la reazione oppositiva ad atti (come la palpazione, anche del membro virile, astrattamente compatibili con pratiche pranoterapeuti che) che erano stati proposti nel corso della seduta terapeutica, peraltro con una progressione insinuante e maliziosa tali da renderli anche intrinsecamente subdoli, in quanto accuratamente dissimulati nella loro effettiva natura".

Tenendo conto del complessivo contesto in cui vennero posti in essere gli atti invasivi della sessualità del ragazzo, i Giudici di merito hanno poi, correttamente, escluso che l’accettazione degli stessi possa essere stata (o interpretata come tale) manifestazione di consenso della parte offesa. Tant’è vero che il minore, suggestionato dalle virtù taumaturgiche del pranoterapeuta (decantate dallo stesso imputato e dal M.) aveva accettato solo quelle pratiche che, apparentemente, avevano "attinenza" con la parte del corpo interessata dalla patologia ed aveva invece trovato la forza di opporsi quando le pratiche medesime si erano indirizzate ad altre parti (ano) estranee alla patologia medesima (pag. 21 sent.

Trib.). Tale opposizione "postuma" quindi attesta che non vi era alcun consenso agli atti sessuali, "accettati" solo, come si è visto, per le particolari condizioni ambientali e per le prospettate finalità terapeutiche.

La motivazione della sentenza impugnata, anche integrata con quella della sentenza di primo grado cui si rinvia per relationem, è quindi adeguata e non censurabile in fatto ed in diritto, e non è certo scardinata dall’improprio richiamo alla "sostituzione di persona", richiamo fatto, peraltro, come si afferma espressamente, solo "ad abundantiam". 3.2) Per quanto riguarda l’elemento soggettivo è significativo che la normativa introdotta con la L. n. 66 del 1996 abbia eliminato ogni riferimento al concetto di libidine. L’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 609 bis c.p. consiste, invero, nella coscienza e volontà di compiere un atto lesivo della libertà sessuale della persona e di invadere la sua sfera sessuale senza il consenso della stessa (dolo generico). Irrilevante pertanto è il fine propostosi dal soggetto attivo che può essere diretto a soddisfare la sua concupiscenza, ma anche di altro genere (ludico o di umiliazione della vittima). E non c’è dubbio, come evidenziato dai Giudici di merito, che il G. fosse ben consapevole (anche per la condotta preparatoria posta in essere in precedenza per convincere il B. a sottoporsi alla terapia) che gli atti posti in essere erano invasivi della sfera sessuale del ragazzo e non erano da lui liberamente accettati, ma subiti a cagione del più volte richiamato contesto "ambientale" e "terapeutico". 3.3) In relazione agli altri rilievi di cui al primo motivo di ricorso, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex multis Cass. Pen. sez. 1, n. 42369/2006) "alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per Cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6, 15 marzo 2006, ric. Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 6, 15 marzo 2006, ric. Casula). Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, "mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è, invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano" (cfr. Cass. sez. 5 n. 39048 del 25.9.2007). Il vizio di prova "omessa" o "travisata" si verifica, quindi, quando da esso derivi una disarticolazione dell’intero ragionamento probatorio ed una illogicità della motivazione sotto il profilo della rilevanza e della decisività. 3.3.1) I Giudici di merito (è pacifico che, in caso di conferma della sentenza di primo grado, le due motivazioni si integrino, formando un unico corpo argomentativo) hanno, con motivazione pertinente ed immune da vizi logici, ritenuto, innanzitutto, la piena attendibilità della dichiarazioni della persona offesa, essendo stata la sua versione dei fatti caratterizzata da toni pacati ed equilibrati e dall’assenza di ogni intento di rivalsa. Hanno esaminato, poi, le discrasie segnalate, evidenziando che esse riguardavano aspetti secondari della vicenda e non la descrizione dell’abuso che era stato sempre costante perfino nei particolari. La consulenza tecnica della dr.ssa C. confermava l’assoluta credibilità della persona offesa e l’assenza di auto ed etero suggestioni e risultava confermata dalla psicologa Ca. che seguiva il B. da molti anni. Hanno ancora sottolineato che le dichiarazioni del B. avevano trovato plurimi riscontri, a partire dalle dichiarazioni della madre Ba.Em., che aveva confermato quanto riferitole, in modo sostanzialmente conforme a quanto dichiarato dalla persona offesa al P.M. e poi in udienza.

Ulteriori riscontri di carattere cacatura logico erano ravvisabili nelle dichiarazioni dei nipoti dell’imputato e nelle intercettazioni(cfr.pag. 12-18 sent. Trib. e pag. 3-5, 7-8 sent. app.). Quanto infine al denunciato contrasto delle dichiarazioni del B. con quelle del cugino M., i giudici di merito, dopo aver esaminato le propalazioni rese da quest’ultimo in data 19.11.2007, hanno spiegato le ragioni per cui esse dovevano considerarsi non credibili (pag. 18-19 sent. Trib.) ed evidenziato che, comunque, il nucleo centrale della vicenda non era contrastato neppure dalla deposizione del M. (pag. 7 sent. app.).

I Giudici di merito hanno quindi esaminato adeguatamente il materiale probatorio e sono pervenuti ad un argomentato giudizio di piena attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e quindi di fondatezza dell’ipotesi accusatoria. Le censure riproposte con il ricorso si risolvono, attraverso una formale denuncia di contraddittorietà o illogicità della motivazione, in una diversa, ed al ricorrente più favorevole lettura delle risultanze processuale, oppure in doglianze in ordine alla mancanza di motivazione su singoli rilievi dell’atto di appello. A tale ultimo proposito va evidenziato, però, che "Nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass. pen. Sez. 4 n.1149 del 24.10.2005- Mirabilia; v. anche Cass. sez. un. n. 36757 del 2004 Rv.229688). E tutta la motivazione della sentenza impugnata, come si è visto, è volta a dimostrare che vi fu da parte dell’imputato la consapevole aggressione alla sfera sessuale della persona offesa in un contesto di oggettiva impossibilità di reazione oppositiva.

3.4) Quanto al terzo motivo di ricorso, questa Corte ha ripetutamente affermato che la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c. deve considerarsi applicabile in tutte quelle fattispecie in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima (bene-interesse tutelato dalla norma) sia stata compressa in maniera non grave. Deve quindi farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, quali mezzi, modalità esecutive, grado di coartazione esercitato sulla vittima, condizioni fisiche e mentali di questa, caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, così da poter ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in modo non grave, come, pure, il danno arrecato anche in termini psichici (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 5002 del 7.11.2006; Cass. pen. Sez. 3 n. 45604 del 13.11.2007). Bisogna tener conto cioè, oltre che della materialità del fatto, di tutte le modalità della condotta criminosa e del danno arrecato alla parte lesa ovvero degli elementi indicati dall’art. 133 c.p., comma 1, ma non possono venire in rilievo gli ulteriori elementi di cui al comma 2 dello stesso art. 133, utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena" (Cass. pen. sez. 3 n. 2597 del 25.11.2003).

Anche più di recente questa Corte ha ribadito che ai fini del riconoscimento dell’attenuante della minore gravità non rileva di per sè la "natura" e "l’entità" dell’abuso, essendo necessario valutare il fatto nel suo complesso (Cass. Sez. 3 n. 10085 del 5.2.2009).

La Corte territoriale, con motivazione pertinente ed immune da vizi logici, nel richiamare il carattere particolarmente invasivo della condotta, sostanziatasi in un rapporto sessuale completo, ha rilevato che, anche per le circostanze in cui si era esplicato e per il divario di età, al ragazzo non potevano che essere derivate conseguenze di ripulsa e di sofferenza psico-fisica. In effetti il Tribunale, sulla base di precise circostanze fattuali emergenti dalle risultanze processuali (in particolare dalle s.i.t. di Ba.

M.), aveva già evidenziato che dopo l’episodio di cui all’imputazione "il comportamento di L. era cambiato in modo radicale; aveva smesso di andare all’istituto agrario, che fino all’anno prima aveva frequentato con piacere e con ottimo profitto;

non voleva più alzarsi dal letto e vedere gli amici; dall’autunno aveva iniziato a soffrire di ansia e di crisi di panico, oltre che di dolori addominali che a detta dei medici dovevano essere ricollegati al suo stato emotivo; mentre era sotto la doccia parlava da solo proferendo bestemmie e frasi quali "spero che crepi" (pag.5-6 sent.

Trib.), Sicchè concludeva il Tribunale era indiscutibile il danno arrecato al B., il quale aveva abbandonato gli studi, aveva avuto seri problemi fisici, psicologici e comportamentali al punto da dover ricorrere ad una terapia psichiatrica.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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