Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-05-2012, n. 8665

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Perugia con sentenza n. 407 del 2007, nel confermare la sentenza di primo grado, ha ribadito la nullità della clausola del termine apposta al contratto di lavoro per il periodo 1.04.1999/31.05.1999, stipulato della Poste Italiane con R. M.P., nonchè che tra le parti si era costituito un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dall’inizio del rapporto, con la condanna delle Poste Italiane al pagamento delle retribuzioni dal 18.02.2002 (data della messa in mora), oltre accessori, e al ripristino del rapporto. La stessa Corte ha ritenuto infondata anche la doglianza relativa alla risoluzione del rapporto per mutilo consenso tacito e a quella concernente l’aliunde perceptum.

La Corte territoriale, preso atto del processo di riorganizzazione e ristrutturazione del settore postale, ha ritenuto che dovesse e escludersi la legittimità dell’assunzione a temine in questione, in quanto intervenuta dopo il 30 aprile 199, temine così prorogato con accordi successivi a quello 25 settembre 1997, attuativo dell’art. 8 del CCNL del 26 novembre 1994.

Con riguardo alle conseguenze economiche della declaratoria di nullità la Corte ha precisato che le stesse non potessero essere configurate che dalla data dell’offerta della prestazione lavorativa e, nel caso di specie, dalla data del tentativo di conciliazione.

Con riguardo al profilo della risoluzione del contratto per mutuo consenso tacito la Corte ha osservato che dal mero trascorrere del tempo non avrebbe potuto desumersi la volontà, sia pure tacita, della lavoratrice di risolvere il rapporto e di rinunciare ad un suo diritto.

Quanto al profilo dell’aliunde perceptum, eccepito dall’appellante, la Corte ha osservato che la datrice di lavoro non aveva allegato alcunchè al riguardo.

Le Poste Italiane ricorrono per cassazione con quattro motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’intimata R. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 1362 c.c. e segg., in relazione all’accordo sindacale del 25.09.1997 e successivi accordi integrativi, nonchè vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), e ciò nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto di individuare nella data del 30 aprile 1998 il termine ultimo di validità di efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997.

Al riguardo deduce la mancanza di limiti temporali nella disciplina di legge e collettiva e la natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi, in ordine alla persistenza del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e delle esigenze connesse. Il motivo è infondato.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha precisato che la L. n. 56 del 1987, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 nonchè dal D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis (convertito nella L. n. 79 del 1983) – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali pertanto non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (cfr. SU. n. 4588 del 2 marzo 2006). Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a temine, quella di cui all’accordo integrativo del 25.09.1997, la giurisprudenza ha considerato corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in data 16.01.1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31.01.1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30.04.1998), delle situazioni di fatto legittimanti le esigenze eccezionali menzionate dal detto contratto integrativo.

Consegue che, avendo le parti collettive raggiunto originariamente una intesa priva di termine ed avendo successivamente stipulato accordi attuativi con fissazione di un limite temporale alla possibilità di procedere ad assunzioni a temine, stabilito inizialmente al 30.01.1993 e poi al 30.04.1998, l’indicazione di tale causale nel contratto legittima l’assunzione solo ove il contratto scada in data non successiva al 30.04.1998 (ex plurimis Cass. n. 1412 del 31 gennaio 2012; Cass. n. 562 del 17 gennaio 2012; Cass. n. 18838 del 7 settembre 2007; Cass. n. 22352 del 25 ottobre 2007). In base a tale orientamento, ormai consolidato, correttamente il giudice appello ha ritenuto illegittimo il termine apposto al contratto in questione per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo la data del 30 aprile 1998, ciò per carenza del presupposto normativo derogatoria con la conseguenza della trasformazione dello stesso contratto a tempo indeterminato, in forza della L. n. 230 del 1962, art. 1 (cfr Cass. n. 1412 del 2012 cit.; Cass. n. 20608 del 2007).

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, violazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, nonchè vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione alla volontà della lavoratrice di risolvere il rapporto.

Sostiene che l’impugnata sentenza non ha fatto buongoverno delle richiamate norme e delle risultanze probatorie, essendo pacifica nel caso di specie la presenza di tutti gli elementi integranti l’ipotedi del mutuo consenso tacito, avendo la lavoratrice manifestato il proprio disinteresse per anni a ricostituire un rapporto di lavoro con la società. Il motivo è infondato.

Il giudice di appello ha disatteso il motivo di impugnazione dell’appellante verificando gli elementi, indicati come espressivi di una manifestazione di accettazione tacita della conclusione del contratto con conseguente cessazione del rapporto per mutuo consenso, e pervenendo alla conclusione che non vi era stato alcun comportamento della lavoratrice da interpretarsi come acquiescenza alla risoluzione del rapporto. Trattasi nel caso di specie di una valutazione, congruamente e adeguatamente motivata, condotta sulla scia di orientamento di questa Corte, contro cui la ricorrente si limita ad opporre un diverso e non consentito apprezzamento (cfr Cass. n. 16932 del 4 agosto 2011).

3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta violazione delle norme di diritto sulla messa in mora e vizio di motivazione, sostenendo che il giudice di appello non ha tenuto in considerazione che l’originaria ricorrente aveva proposto una domanda di condanna non fornita dal benchè minimo elemento probatorio ex art. 2697 c.c. e non ha tenuto in alcun conto del principio della corrispettività della retribuzione, secondo cui la lavoratrice avrà diritto alle retribuzioni dal momento dell’effettiva ripresa del servizio. La ricorrente censura l’impugnata sentenza anche per avere riconosciuto il risarcimento del danno dalla data del tentativo di conciliazione.

La ricorrente formula quindi il seguente quesito di diritto: "Dica la S.C. se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettività e di corrispettività delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retributivo pur in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria".

Il quesito così formulato risulta generico, risolvendosi nell’enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia della messa in mora, senza evidenziare gli elementi fattuali fatti oggetto di accertamento da parte del giudice di merito. In altri termini il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità, non risulta formulato in maniera specifica e chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr Cass. S;U. n. 3 del 5 gennaio 2007).

In conclusione il motivo sotto questo profilo è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce vizio di motivazione, per avere il giudice di appello omesso di pronunciarsi in merito all’eccezione dell’aliunde perceptum sollevata dalla società.

Il motivo viene corredato dal seguente motivo: "Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquistare precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande o eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto".

Anche questo quesito non risulta formulato in maniera specifica e pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce, apparendo in larga parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto, che si ritiene commesso dal giudice nel caso esaminato in concreto.

5. In sede di memoria ex art. 378 c.p.c. la ricorrente ha rappresentato la sopravvenienza della L. 4 novembre 2010, n. 183 che all’art. 32 ha introdotto le regole disciplinanti la determinazione delle spettanze di natura economica conseguenti alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro a tempo determinato, affermandone l’immediata applicabilità alla fattispecie.

L’assunto non ha pregio e non merita di essere condiviso.

Al riguardo va osservato che questa Corte ha affermato che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens, che abbia introdotto con efficacia retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr Cass. n. 1412 del 13 gennaio 2012;

Cass. n. 4070 del 27 febbraio 2007).

In tale contesto si richiede anche che il motivo del ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile, secondo la disciplina propria (cfr Cass. n. 80 del 4 gennaio 2011).

Orbene la richiamata condizione non si riscontra nella fattispecie, per cui il motivo da ultimo proposto è inammissibile.

6 In conclusione il ricorso va rigettato con la conferma dell’impugnata sentenza.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 3000,00 per onorari ed oltre IVA CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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