Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-05-2012, n. 8634 Avviso di accertamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

S.P. ha impugnato l’avviso d’accertamento per l’anno 2003, con cui sono state determinate maggiori imposte per IRPEF, IVA ed IRAP ed irrogate le relative sanzioni, deducendo di esser stato vittima della condotta truffaldina del proprio intermediario fiscale, che aveva falsificato le dichiarazioni e le aveva trasmesse al Fisco, come accertato dal giudice penale. La CTP di Milano, in accoglimento del ricorso, ha annullato l’atto impugnato, decisione che è stata, parzialmente, riformata, con sentenza n. 156.40.10, depositata il 31.12.2010, dalla CTR Lombardia, che, dopo aver rilevato che la violazione tributaria addebitata al contribuente derivava da fatti compiuti dolosamente da terzi, ha ritenuto non dovuti interessi e sanzioni, in base ai principi generali posti dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, comma 1, e dalla L. n. 212 del 2010, art. 10, applicabile, anche, nei confronti dell’intermediario di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, confermando, invece, il debito relativo all’imposta, perchè escluso dall’esimente di cui alla citata L. n. 212 del 2010, art. 10. I giudici d’appello hanno, inoltre, evidenziato che la dichiarazione presentata dall’intermediario, falsa e disconosciuta dal contribuente, non aveva influito sulla determinazione dell’imposta, che hanno, comunque, proceduto a determinare, sulla scorta dei documenti prodotti dal contribuente.

Per la cassazione della sentenza ricorre il contribuente, con sei motivi, successivamente illustrati da memoria. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso, con cui presenta ricorso incidentale.

Motivi della decisione

Col primo motivo del ricorso principale, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la sentenza impugnata pronunciato su tutte le argomentazioni svolte nelle controdeduzioni da lui presentate nel giudizio d’appello – di cui trascrive i passi salienti – con le quali aveva negato di dover pagare le imposte, gli interessi e le sanzioni, dovendo risponderne, in prima persona, l’intermediario infedele, quali conseguenze della sua azione criminosa. Il motivo è, in parte, inammissibile ed, in parte, infondato. E’ inammissibile laddove si incentra sul debito per sanzioni ed interessi, in relazione ai quali il contribuente è rimasto vittorioso ed è, dunque, privo di interesse a ricorrere ( art. 100 c.p.c.; infra, con l’esame del ricorso incidentale, la valutazione degli argomenti relativi agli interessi), è infondato in relazione all’imposta, in quanto su di essa la CTR ha pronunciato, ritenendola, espressamente, dovuta e provvedendo, pure, a liquidarla.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ricorre il vizio di cui all’art. 112 c.p.c., nel caso, diverso da quello in esame, in cui il giudice d’appello abbia omesso di statuire su una domanda o un’eccezione, e non quando non abbia preso in considerazione tutti i profili difensivi, tenuto conto del principio secondo cui il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi ed i rilievi che, seppur non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata ed il percorso argomentativo seguito (cfr.

Cass. n. 24542 del 2009).

Col secondo motivo, il ricorrente deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, nonchè dei principi giuridici concernenti la natura e la funzione dell’intermediario fiscale, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, afferma, in subordine, che la CTR ha errato nel ritenere dovuta l’imposta nonostante la truffa ordita dall’intermediatore, che, per la funzione affidatagli dall’ordinamento, svolge un ufficio di rilevanza pubblica, che trascende il mero incarico professionale e comporta l’assunzione di responsabilità diretta nei confronti dell’Amministrazione, con conseguente estromissione del soggetto passivo da ogni obbligo, relativo ad imposta, interessi e sanzioni, inerente al rapporto fiscale. Col terzo motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 27 Cost. e art. 40 c.p., affermando non esser lecito, nè giuridicamente concepibile addossare alla parte lesa gli effetti economici che derivano da un comportamento penalmente illecito di terzi, tanto più quando si tratti di "persona ufficialmente abilitata a svolgere, con fedeltà e correttezza, i compiti assegnati dal legislatore all’intermediario, la cui interposizione è necessaria". Senza dire, prosegue il ricorrente, che l’Amministrazione avrebbe potuto costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento del danno, e che il non averlo fatto le ha pregiudicato il diritto di ottenere "il giusto risultato patrimoniale, cioè il pagamento del tributo, sia pure (ma irrilevantemente) in forma risarcitoria". I motivi, che, per comodità espositive, vanno esaminati congiuntamente, sono infondati.

Il D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, commi 3, 3-bis e 3 ter (abrogato, con la della L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 35, a decorrere dall’anno 2012, ma vigente ratione temporis), considera incaricati della trasmissione in via telematica delle dichiarazioni all’Agenzia delle entrate le figure professionali ed i centri di assistenza fiscale -elencati nelle lettere da a) ad e) del comma 3-, li obbliga a trasmettere le dichiarazioni se incaricati di predisporle, e prevede un compenso, a carico del bilancio dello Stato, per ciascuna dichiarazione elaborata e trasmessa. La rilevanza dei compiti svolti dall’intermediatore nei confronti del Fisco non vale, però, ad escludere la natura privatistica del rapporto tra l’intermediatore ed il contribuente, che si desume dall’esame delle disposizioni citate, in relazione sia all’an dell’incarico, che il contribuente è libero di non conferire (potendo, appunto, provvedere "direttamente" alla presentazione delle dichiarazioni, in base al comma 2 dell’art. 3 in esame) che alla scelta del contraente, e non comporta, ad ogni modo, la dedotta "estromissione del soggetto passivo -quello secondo le regole ordinarie- da ogni obbligo inerente al rapporto fiscale". Il sistema tributario prevede, infatti, un solo caso di "sostituzione" del soggetto passivo, definendo, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 64, comma 1, il sostituto d’imposta come colui che "in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri … anche a titolo di acconto" ed il caso in esame non rientra in tale ambito: l’intermediatore è incaricato, bensì, di trasmettere la dichiarazione che abbia elaborato, ma, di certo, non è obbligato, in proprio, a pagare l’imposta, senza dire che, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 24962 del 2010, n. 14033 del 2006 e sentenze richiamate), il sostituito deve ritenersi, fin dall’origine e non solo in fase di riscossione, obbligato solidale al pagamento dell’imposta, e perciò soggetto all’accertamento (fermo restando, in costanza dei relativi presupposti, il diritto di regresso verso il sostituto).

L’intermediazione fiscale non può, poi esser assimilata, per le differenze di regime, all’ipotesi della delega del contribuente alla banca, di cui alla L. n. 576 del 1975, art. 17, attenendo, la prima, ai momenti dell’elaborazione e della trasmissione della dichiarazione, e costituendo, invece, la seconda una modalità di pagamento, con effetto liberatorio per il delegante e contestuale nascita di una, distinta, obbligazione della banca, avente ad oggetto la devoluzione alla tesoreria dello Stato della somma ricevuta (cfr.

Cass. n. 9514 del 2009, in motivazione; n. 15110 del 2006, SU n. 1148 del 2000). La circostanza che l’intermediatore abbia tradito il mandato ricevuto dal contribuente e sia stato giudicato responsabile, con sentenza ormai irrevocabile, tra gli altri, del reato di dichiarazione infedele non comporta alcuna novazione del rapporto, che non è prevista da alcuna disposizione di legge, nè muta i termini della questione in relazione all’obbligo relativo al pagamento dell’imposta (per le sanzioni ed interessi, il contribuente è privo di interesse a ricorrere, secondo le considerazioni sopra esposte); ed, infatti, la fonte di tale obbligo non va identificata nel comportamento penalmente illecito dell’intermediatore, come opina il contribuente, ma va, piuttosto, ricercata nella percezione di redditi da parte sua. Così convenendo, il terzo motivo risulta infondato. A prescindere dal fatto che tale doglianza non indica quale sia l’affermazione giuridica contenuta nella sentenza impugnata, o dalla stessa necessariamente presupposta, che possa essere in contrasto col principio secondo il quale "la responsabilità penale è personale", il principio stesso risulta richiamato non a proposito, venendo, piuttosto, in rilievo l’obbligo di ciascuno di concorrere alle spese pubbliche, in ragione della propria capacità contributiva, posto dall’art. 53 Cost.; pertanto la circostanza che l’Amministrazione finanziaria non si sia costituita parte civile nel procedimento penale a carico dell’intermediario è, del tutto, irrilevante nel diverso rapporto col contribuente, qui in esame.

Col quarto motivo, deducendo la violazione degli artt. 214 e 216 c.p.c., e dei principi che governano l’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 il ricorrente afferma di aver disconosciuto il documento che l’Ufficio definiva "dichiarazione" -e costituiva invece il frutto dell’agire truffaldino dell’intermediario- di cui non era stata chiesta la verificazione. La decisione, assunta in proposito dalla CTR, secondo cui la dichiarazione non era rilevante per la determinazione del reddito è erronea, prosegue il ricorrente, in quanto nonostante l’avvenuto disconoscimento la dichiarazione aveva costituito "il dato giuridico e di fatto sul quale si è esercitato il potere accertativo dell’Amministrazione". Col quinto motivo, il ricorrente deduce vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sulla rilevanza della falsa dichiarazione presentata dall’intermediario, osservando che nel sostenere che la dichiarazione disconosciuta era stata considerata dall’Ufficio al solo fine di fissare la sanzione proporzionale irrogabile, la CTR confermato che la dichiarazione stessa aveva costituito l’oggetto delle rettifiche dell’Agenzia, che aveva proceduto con accertamento analitico, come chiaramente desumibile dall’esame dell’atto impositivo. I motivi, che vanno congiuntamente esaminati, poichè attinenti entrambi al valore della dichiarazione presentata dall’incaricato infedele, sono inammissibili: la CTR è pervenuta alla determinazione del reddito procedendo, in via autonoma, alla relativa quantificazione, sulla base dei documenti esibiti dal contribuente (relativi alla percezione dei compensi tratti dalla sua professione di avvocato), presumendo costi ed escludendo interessi passivi, facilmente documentabili, in dichiarata applicazione del principio secondo cui il giudizio tributario non è solo finalizzato ad eliminare l’atto impugnato, ma è pure diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Ufficio. I motivi non sono, quindi, pertinenti, rispetto alla decisione impugnata -la cui ratto decidendi non è stata oggetto di censura da parte del contribuente- in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui i motivi per i quali si richiede la cassazione devono presentare a pena, appunto, d’inammissibilità, i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (cfr. Cass. n. 17125 del 2007). A tale rilievo formale, va aggiunto che le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono atti negoziali o dispositivi, e non costituiscono titolo dell’obbligazione tributaria, ma costituiscono mere dichiarazioni di scienza, in linea di principio, liberamente emendabili o ritrattabili dal contribuente se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a suo carico (cfr. SU n. 14088 del 27 luglio 2004). L’accertamento dell’imposta dovuta prescinde, dunque, dal meccanismo di cui agli artt. 215 e 216 c.p.c., che, peraltro, ai sensi dell’art. 2702 c.c., conferisce valore di piena prova fino a querela di falso alla scrittura, solo, in relazione alla sua provenienza e non anche alla veridicità delle dichiarazioni in essa rappresentate (Cass. n. 11674 del 2008).

Col sesto motivo, il ricorrente deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostiene che le regole della trasparenza, della buona fede, della collaborazione e, soprattutto, dell’affidamento, che si applicano nel rapporto tra intermediario e soggetto passivo, escludono la persistenza di "un obbligo tributario che discende da una condotta delittuosa altrui". La forza espansiva della norma violata, conclude il ricorrente, che cita giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 17546 del 2002, n. 21513 del 2006), impone, dunque, non solo l’inapplicabilità di sanzioni ed interessi, ma, anche, l’inesigibilità della prestazione tributaria.

Col ricorso incidentale, l’Agenzia delle Entrate, deducendo, a sua volta, violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della L. n. 212 del 2000, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, afferma che l’impugnata sentenza ha errato nel ritenere inesigibili, oltre che le sanzioni, anche gli interessi, in quanto l’assenza di un comportamento colposo, da parte del contribuente, può, solo, giustificare l’esclusione delle sanzioni, ma non incide sull’obbligo di corrispondere gli interessi, che, a norma dell’art. 10, comma 2, dello Statuto del contribuente, non sono dovuti nel caso, diverso da quello in esame, in cui sia stata la stessa Amministrazione, con i propri atti, ad indurre in errore il contribuente.

Proseguendo alla valutazione congiunta delle contrapposte censure, fondata è quella dell’Amministrazione, e, correlativamente, infondata è la critica del contribuente. La L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 2, dispone testualmente che "Non sono irrogate sanzioni nè richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorchè successivamente modificate dall’amministrazione medesima". La situazione di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria che consente al primo di invocare la relativa tutela – testualmente limitata alla sola esclusione delle sanzioni e degli interessi moratori (cfr. Cass. n. 19479 del 2009; n. 21070 del 2011)- presuppone, dunque, tra l’altro, un’attività dell’Amministrazione stessa, in apparenza legittima e coerente, di segno favorevole al contribuente (cfr. Cass. n. 17576 del 2002, ord. n. 23309 del 2011). Nella specie, i compiti di elaborazione e trasmissione delle dichiarazioni di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, non valgono, come si è sopra esposto, ad annoverare l’intermediatore tra i pubblici amministratori, nè ad inquadrare il rapporto tra lo stesso ed il contribuente in ambito pubblicistico;

inoltre, non risulta, affatto, che sia posta in essere alcuna attività nel senso appena specificato, ma, al contrario, consta che il contribuente è stato ingannato e che sono stati falsificati le dichiarazioni ed i documenti di pagamento, come da accertamento penale irrevocabile (la giurisprudenza in materia doganale – Cass. n. 14812 del 2010, citata nella memoria, non è pertinente facendo applicazione dei principi comunitari in tema di affidamento, nel diverso caso del funzionario infedele). La fattispecie esula, dunque, dal disposto dell’art. 10 dello Statuto del contribuente, e va, invece, sussunta nell’ambito del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 3, che esclude la punibilità del contribuente, del sostituto e del responsabile d’imposta "quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi". L’esimente in esame opera limitatamente alle sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, e non per gli interessi: anche a voler distinguere gli interessi legali da quelli moratori gli stessi costituiscono, in ogni caso, accessori del tributo (Cass. n. 23555 del 2006), e non hanno carattere sanzionatorio. L’impugnata sentenza, che non si è attenuta a tale principio, va, quindi, cassata, e, non essendo necessari accertamenti di merito, la causa può esser decisa nel merito, dichiarando dovuti gli interessi.

Si ravvisano giusti motivi, in considerazione della peculiarità dei fatti, dovuta all’incidenza dei reati commessi dall’intermediatore, per compensare, interamente, tra le parti, le spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso principale, accoglie quello incidentale, cassa e, decidendo nel merito, dichiara dovuti gli interessi.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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