Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-05-2012, n. 8631 Imposta reddito persone fisiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

S.P. ha impugnato la cartella di pagamento, per imposta provvisoriamente iscritta a ruolo in pendenza del ricorso giudiziale, per l’anno 2001 ed, inoltre, per IRPEF, addizionale, interessi e sanzioni, per l’anno 2003, deducendo, tra l’altro, di esser stato vittima della condotta truffaldina del proprio consulente, che aveva falsificato le dichiarazioni e le aveva trasmesse al Fisco, come accertato dal giudice penale. La CTP di Milano, in accoglimento del ricorso, ha annullato l’atto impugnato, decisione che è stata, parzialmente, riformata, con sentenza n. 58/50/10, depositata il 22.4.10, dalla CTR Lombardia, che, per quanto ancora interessa, ha ritenuto non dovute le sanzioni, confermando, invece, la sussistenza del debito d’imposta, che non era escluso dal fatto che il contribuente era stato truffato dal suo commercialista.

Per la cassazione della sentenza ricorre il contribuente, anche nei confronti di Equitalia Esatri S.p.A., con otto motivi, illustrati con memoria. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. Equitalia Esatri S.p.A. non ha presentato difese.

Motivi della decisione

Col primo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la sentenza impugnata pronunciato su tutte le argomentazioni svolte nelle controdeduzioni da lui presentate nel giudizio d’appello – di cui trascrive i passi salienti – con le quali aveva negato di dover pagare le imposte, gli interessi e le sanzioni, dovendo risponderne, in prima persona, l’intermediario infedele, quali conseguenze della sua azione criminosa. Il motivo è, in parte, inammissibile ed, in parte, infondato. E’ inammissibile laddove si incentra sulla spettanza delle sanzioni, in relazione alle quali il contribuente è rimasto vittorioso ed è, dunque, privo di interesse a ricorrere ( art. 100 c.p.c.), ed è infondato quanto al resto, essendosi la CTR pronunciata in proposito, avendo rilevato che il tributo era stato pagato in "misura nettamente inferiore a quella dovuta", e ritenuto corretta l’azione di recupero dell’Ufficio, ad eccezione delle sole sanzioni. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ricorre il vizio di cui all’art. 112 c.p.c., nel caso, diverso da quello in esame, in cui il giudice d’appello abbia omesso di statuire su una domanda o un’eccezione, e non quando non abbia preso in considerazione tutti i profili difensivi, tenuto conto del principio secondo cui il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi ed i rilievi che, seppur non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata ed il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. n. 24542 del 2009).

Col secondo ed il terzo motivo, il ricorrente deduce, in via subordinata, vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sotto i profili, rispettivamente, dell’insufficienza e della contraddittorietà sul punto essenziale della "rilevanza" e "degli effetti della intermediazione fiscale nel rapporto tra contribuente ed amministrazione finanziaria", nonchè sulla rilevanza "del comportamento delittuoso tenuto dall’intermediario e della conseguente condanna penale per dichiarazione infedele". I motivi sono inammissibili, in quanto deducono entrambi un vizio motivazionale che non attiene alla ricostruzione della fattispecie concreta, esaminata dalla CTR, ma è relativo a profili in diritto (incidenza dell’azione delittuosa dell’intermediario, riconosciuta in sede penale, sugli obblighi del contribuente nei confronti del fisco). Essendo stata dedotta l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione su questioni di diritto, il vizio è, in entrambe le ipotesi, irrilevante ai fini della cassazione della sentenza, soccorrendo, in tal caso, il potere di questa Corte di procedere alla sostituzione, correzione o integrazione della sentenza impugnata di cui all’art. 384 c.p.c., semprechè il giudice del merito sia pervenuto alla soluzione giuridicamente corretta.

Col quarto motivo, il ricorrente deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, nonchè dei principi giuridici concernenti la natura e la funzione dell’intermediario fiscale, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, afferma, in subordine, che la CTR ha errato nel ritenere dovuta l’imposta nonostante la truffa ordita dall’intermediatore, che, per la funzione affidatagli dall’ordinamento, svolge un ufficio di rilevanza pubblica, che trascende il mero incarico professionale e comporta l’assunzione di responsabilità diretta nei confronti dell’Amministrazione, con conseguente estromissione del soggetto passivo da ogni obbligo, relativo ad imposta, interessi e sanzioni, inerente al rapporto fiscale. Col quinto motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 27 Cost. e art. 40 c.p., affermando non esser lecito, nè giuridicamente concepibile,addossare alla parte lesa gli effetti economici che derivano da un comportamento penalmente illecito di terzi, tanto più quando si tratti di "persona ufficialmente abilitata a svolgere, con fedeltà e correttezza, i compiti assegnati dal legislatore all’intermediario, la cui interposizione è necessaria". Senza dire, prosegue il ricorrente, che l’Amministrazione avrebbe potuto costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento del danno, e che il non averlo fatto le ha precluso di ottenere dalla parte lesa l’adempimento di obblighi economici "direttamente generati da una condotta criminale". I motivi, che, per comodità espositive, vanno esaminati congiuntamente, sono infondati. Il D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, commi 3, 3-bis e 3 ter (abrogato, con la L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 35, a decorrere dall’anno 2012, ma vigente ratione temporis), considera incaricati della trasmissione in via telematica delle dichiarazioni all’Agenzia delle entrate le figure professionali ed i centri di assistenza fiscale -elencati nelle lettere da a) ad e) del comma 3-, li obbliga a trasmettere le dichiarazioni se incaricati di predisporle, e prevede un compenso, a carico del bilancio dello Stato, per ciascuna dichiarazione elaborata e trasmessa. La rilevanza dei compiti svolti dall’intermediatore nei confronti del Fisco non vale, però, ad escludere la natura privatistica del rapporto tra l’intermediatore ed il contribuente, che si desume dall’esame delle disposizioni citate, in relazione sia all’an dell’incarico, che il contribuente è libero di non conferire (potendo, appunto, provvedere "direttamente" alla presentazione delle dichiarazioni, in base al comma 2 dell’art. 3 in esame) che alla scelta del contraente, e non comporta, ad ogni modo, la dedotta "estromissione del soggetto passivo -quello secondo le regole ordinarie- da ogni obbligo inerente al rapporto fiscale". Il sistema tributario prevede, infatti, un solo caso di "sostituzione" del soggetto passivo, definendo, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 64, comma 1, il sostituto d’imposta come colui che "in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri … anche a titolo di acconto" ed il caso in esame non rientra in tale ambito: l’intermediatore è incaricato, bensì, di trasmettere la dichiarazione che abbia elaborato, ma, di certo, non è obbligato, in proprio, a pagare l’imposta, senza dire che, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 24962 del 2010, n. 14033 del 2006 e sentenze richiamate), il sostituito deve ritenersi, fin dall’origine e non solo in fase di riscossione, obbligato solidale al pagamento dell’imposta, e perciò soggetto all’accertamento (fermo restando, in costanza dei relativi presupposti, il diritto di regresso verso il sostituto).

L’intermediazione fiscale non può, poi esser assimilata, per le differenze di regime, all’ipotesi della delega del contribuente alla banca, di cui alla L. n. 576 del 1975, art. 17, attenendo, la prima, ai momenti dell’elaborazione e della trasmissione della dichiarazione, e costituendo, invece, la seconda, una modalità di pagamento, con effetto liberatorio per il delegante e contestuale nascita di una, distinta, obbligazione della banca, avente ad oggetto la devoluzione alla tesoreria dello Stato della somma ricevuta (cfr.

Cass. n. 9514 del 2009, in motivazione; n. 15110 del 2006, SU n. 1148 del 2000). La circostanza che l’intermediatore abbia tradito il mandato ricevuto dal contribuente e sia stato giudicato responsabile, con sentenza irrevocabile, tra gli altri, del reato di dichiarazione infedele non comporta alcuna novazione del rapporto, che non è prevista da alcuna disposizione di legge, nè muta i termini della questione in relazione all’obbligo relativo al pagamento dell’imposta e degli interessi, in quanto la fonte di tale obbligo non va identificata nel comportamento penalmente illecito dell’intermediatore, come opina il contribuente, ma va, piuttosto, ricercata nella percezione di redditi da parte sua. Così convenendo, il quinto motivo risulta infondato. A prescindere dal fatto che tale doglianza non indica quale sia l’affermazione giuridica contenuta nella sentenza impugnata, o dalla stessa necessariamente presupposta, che possa essere in contrasto col principio secondo il quale "la responsabilità penale è personale", il principio stesso risulta richiamato non a proposito, venendo, piuttosto, in rilievo l’obbligo di ciascuno di concorrere alle spese pubbliche, in ragione della propria capacità contributiva, posto dall’art. 53 Cost., pertanto, la circostanza che l’Amministrazione finanziaria non si sia costituita parte civile nel procedimento penale a carico dell’intermediario è, del tutto, irrilevante nel diverso rapporto col contribuente, qui in esame.

Col sesto motivo, deducendo la violazione degli artt. 214 e 216 c.p.c. e dei principi che governano l’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente afferma di non conoscere il documento, frutto dell’agire truffaldino dell’intermediario, che l’Ufficio ha definito "dichiarazione" e di averlo implicitamente disconosciuto, in primo grado, ed esplicitamente in appello, senza che il Fisco ne avesse richiesto la verificazione. Può, dunque, imputarsi alla CTR, prosegue il ricorrente, di "non aver respinto ogni pretesa fondata su quel presunto documento e sui controlli relativi, del tutto privi di ogni consistenza giuridica". Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza: il ricorrente non ha precisato quando la dichiarazione disconosciuta sarebbe stata prodotta e ad opera di chi (l’onere di richiedere la verificazione della scrittura privata sorge a carico della parte che ha prodotto un atto quando la controparte lo abbia disconosciuto) nonchè quando e come il disconoscimento "implicito" ma "inequivocabile" sarebbe stato posto in essere (quello esplicito effettuato nelle memorie illustrative in appello sarebbe, in tesi, tardivo ex art. 215 c.p.c., comma 1, n. 2). A tale rilievo formale, va aggiunto che le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono atti negoziali o dispositivi, e non costituiscono titolo dell’obbligazione tributaria, ma costituiscono mere dichiarazioni di scienza, in linea di principio, liberamente emendabili o ritrattabili dal contribuente se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a suo carico (cfr. SU n. 14088 del 27 luglio 2004).

L’accertamento dell’imposta dovuta prescinde, dunque, dal meccanismo di cui agli artt. 215 e 216 c.p.c., che, peraltro, ai sensi dell’art. 2702 cc, conferisce valore di piena prova fino a querela di falso alla scrittura, solo, in relazione alla sua provenienza e non anche alla veridicità delle dichiarazioni in essa rappresentate (Cass. n. 11674 del 2008).

Col settimo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10 e del principio, in essa espresso, che tutela l’affidamento e la buona fede del contribuente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare, il contribuente deduce che le regole della trasparenza, della buona fede, della collaborazione e, soprattutto, quella dell’affidamento si applicano nei confronti del rapporto tra intermediario e soggetto passivo, ed escludono la persistenza di "un obbligo tributario che discende da una condotta delittuosa altrui".

La forza espansiva della norma violata, conclude il ricorrente, che cita giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 17546 del 2002, n. 21513 del 2006), impone, dunque, non solo l’inapplicabilità di sanzioni ed interessi, ma, anche, l’inesigibilità della prestazione tributaria. Con l’ottavo, dedotto in via subordinata, il ricorrente lamenta, nuovamente la violazione della L. n. 212 del 2010, art. 10, laddove non è stato, neppure, escluso il credito per interessi.

I motivi, che, per la loro connessione, vanno congiuntamente esaminati, sono infondati. La L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 2, dispone testualmente che "Non sono irrogate sanzioni nè richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorchè successivamente modificate dall’amministrazione medesima".

La situazione di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria che consente al primo di invocare la relativa tutela presuppone, dunque, tra l’altro, un’attività dell’Amministrazione stessa, in apparenza legittima e coerente, di segno favorevole al contribuente (cfr. Cass. n. 17576 del 2002, ord. n. 23309 del 2011). Nella specie, i compiti di elaborazione e trasmissione delle dichiarazioni di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, non valgono, come si è sopra esposto, ad annoverare l’intermediatore tra i pubblici amministratori, nè ad inquadrare il rapporto tra lo stesso ed il contribuente in ambito pubblicistico; inoltre, non risulta, affatto, che sia posta in essere alcuna attività nel senso appena specificato, ma, al contrario, consta che il contribuente è stato ingannato e che sono stati falsificati dichiarazioni e documenti di pagamento, come da accertamento penale irrevocabile (la giurisprudenza in materia doganale -Cass. n. 14812 del 2010-, citata nella memoria, non è pertinente facendo applicazione dei principi comunitari in tema di affidamento, nel diverso caso del funzionario infedele). La fattispecie in esame esula, dunque" dal disposto dell’art. 10 dello Statuto del contribuente, e va, invece, sussunta nell’ambito del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 3, che esclude la punibilità del contribuente, del sostituto e del responsabile d’imposta "quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi". L’esimente in esame opera limitatamente alle sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, e non per gli interessi: anche a voler distinguere gli interessi legali da quelli moratori gli stessi costituiscono, in ogni caso, accessori del tributo (Cass. n. 23555 del 2006), e non hanno carattere sanzionatorio.

Si ravvisano giusti motivi, in considerazione della peculiarità dei fatti, dovuta all’incidenza dei reati commessi dall’intermediatore, per compensare, interamente, tra le parti, le spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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