Cass. civ. Sez. I, Sent., 31-05-2012, n. 8781 Intermediazione finanziaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nel luglio del 2004 il sig. V.F. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Trani la Unicredit Private Banking s.p.a. lamentando che questa, per il tramite di un proprio funzionario, lo avesse mal consigliato nella cura dei suoi investimenti finanziari e che, nell’agosto 2001, lo avesse indotto incautamente a vendere obbligazioni emesse in (OMISSIS) per acquistare, in loro vece, obbligazioni dello stato argentino. Tali operazioni, poste in essere dall’attore mediante ordini impartiti ad una banca del (OMISSIS), si erano poi rilevate fallimentari, e perciò il sig. V. chiese che fosse accertata la responsabilità della società convenuta, per violazione degli obblighi inerenti alla prestazione del servizio di consulenza finanziaria, e che detta società fosse condannata al risarcimento dei danni, quantificati in Euro 680.000,00 per perdita di capitale, oltre alla mancata percezione del reddito.

La Unicredit Private Banking si difese notificando all’attore una comparsa di risposta ed assegnandogli per l’eventuale replica un termine di cento giorni, prima della scadenza del quale, tuttavia, presentò al giudice un’istanza di fissazione di udienza, a norma del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 8, comma 2. L’attore, dopo essersi inutilmente opposto all’accoglimento di tale istanza, depositò una memoria di replica, la quale fu però dichiarata inammissibile dal tribunale che decise la causa nel merito rigettando la domanda.

Anche il gravame proposto dal sig. V. fu rigettato, con sentenza della Corte d’appello di Bari resa pubblica il 9 dicembre 2009.

La corte barese ritenne anzitutto infondati i motivi d’impugnazione afferenti a profili processuali. Con riguardo all’accoglimento dell’istanza di fissazione dell’udienza da parte del primo giudice, la corte osservò che la comparsa di costituzione della convenuta non aveva in alcun modo ampliato l’oggetto del contendere, come definito dall’atto di citazione, e che era conseguentemente inammissibile la memoria di replica successivamente depositata dall’attore. Quanto alla tempestività dell’eccezione con cui l’inammissibilità della predetta memoria era stata rilevata dalla stessa convenuta, ritenne che non avesse a tal fine rilievo l’udienza presidenziale, volta solo a discutere dell’ammissibilità dell’istanza di fissazione d’udienza, sicchè l’eccezione risultava essere stata sollevata nella prima difesa utile, ossia nella comparsa conclusionale, oltre del resto ad essere stata già anticipata anche nel corso della suaccennata udienza presidenziale. Aggiunse poi la medesima corte territoriale che nessun concreto pregiudizio era comunque scaturito per il diritto di difesa dell’attore, attesa anche l’irrilevanza dei mezzi di prova da lui dedotti.

Passando al merito, la corte d’appello ritenne che la documentazione prodotta in causa, contrariamente a quanto sostenuto dall’attore, non dimostrasse la stipulazione da parte di costui, da tempo titolare di un conto corrente di corrispondenza con la banca Credito Italiano, poi divenuta Unicredit Banca, anche di un contratto di consulenza finanziaria; nè comunque che, venuta in essere la Unicredit Private Banking, per effetto di un’operazione di scissione societaria in epoca successiva ai fatti di causa, fosse stata a quest’ultima trasferita la titolarità, oltre che del predetto rapporto di conto corrente, anche del preteso contratto di consulenza finanziaria derivato dai pregressi contatti avuti dal sig. V. con un funzionario del Credito Italiano. Inammissibile, perchè prospettata soltanto in appello, fu poi considerata la domanda volta a far valere la responsabilità della stessa Unicredit Private Banking, in via solidale con la Unicredit Banca, in base alle disposizioni del codice che disciplinano il riparto dei debiti tra le società beneficiarie e la scissa nelle operazioni di scissione societaria.

Il sig. V. ha impugnato tale sentenza per cassazione, prospettando tredici motivi di censura.

La Unicredit s.p.a., che ha frattanto incorporato la Unicredit Private Banking, si è difesa con controricorso.

Motivi della decisione

1. I tredici motivi di ricorso, che talora si riferiscono a pretesi vizi di motivazione della sentenza impugnata e talora ad asseriti errori di diritto, vuoi sul piano processuale vuoi su quello sostanziale, appaiono in parte ripetitivi e possono, comunque, essere agevolmente raggruppati in funzione dei problemi che concretamente pongono.

1.1. La prima questione, trattata nei motivi di ricorso numerati da uno a cinque, è di carattere processuale e si riferisce al modo in cui si è svolta la fase introduttiva del giudizio dinanzi al tribunale, disciplinato dalle allora vigenti disposizioni del cosiddetto rito societario, introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2003.

Il ricorrente si duole che non sia stato riscontrato il vizio processuale, da lui denunciato già in sede di merito, consistente nel fatto che la fissazione dell’udienza su istanza della convenuta, a norma del cit. decreto, art. 8, comma 2, lett. c), del citato decreto, era avvenuta prima del decorso del termine assegnato nella comparsa medesima all’attore per replicare. Egli si duole inoltre del fatto che sia stata considerata inammissibile la memoria di replica da lui nondimeno depositata, e sostiene che, comunque, l’eccezione d’inammissibilità a tal riguardo sollevata dalla controparte era stata proposta oltre la scadenza del termine consentito dall’ultima parte del secondo comma del successivo art. 10. Nel disattendere tali difese la corte d’appello avrebbe violato le suindicate disposizioni di legge e sarebbe incorsa in vizi di motivazione, non essendo neppur vero che la denunciata lesione del diritto di difesa si era in concreto rivelata innocua.

1.2. Un secondo gruppo di motivi di ricorso, numerati dal sei all’otto, attiene al merito, ed in particolare al servizio di consulenza finanziaria che il ricorrente afferma essergli stato malamente reso.

La corte d’appello, come si è già sopra riferito, in primo luogo ha escluso che fosse mai stata prevista la prestazione di un tale servizio in favore del sig. V., non ravvisando nei documenti prodotti la prova della stipulazione di un contratto ulteriore rispetto a quello di conto corrente bancario; in secondo luogo ha osservato che, ove pure la banca Credito Italiano, poi divenuta Unicredit Banca, davvero avesse stipulato a suo tempo un contratto di consulenza finanziaria con l’odierno ricorrente, il rapporto che da tale contratto aveva preso vita non risulterebbe tra quelli poi trasferiti alla Unicredit Private Banking, società non ancora esistente all’epoca dei fatti di causa ma sorta solo successivamente a seguito di un’operazione di scissione.

Il ricorrente censura entrambe tali affermazioni.

Anzitutto, egli sottolinea che la consulenza finanziaria è oggetto di uno specifico servizio d’investimento – servizio che il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 6, lett. f), (testo unico della finanza) includeva, al tempo dei fatti di causa, nel novero di quelli definiti accessori (dopo le modifiche apportate al suddetto testo unico dal D.Lgs. n. 164 del 2007 la consulenza è invece compresa tra i servizi d’investimento principali) – ed insiste nel sostenere che dal tenore di una lettera prodotta in causa, nella quale la Unicredit Banca (già Credito Italiano) comunicava che i rapporti intrattenuti col sig. V. sarebbero stati trasferiti alla neo costituita Unicredit Private Banking, si ricaverebbe con chiarezza come tali rapporti comprendessero anche quello di consulenza finanziaria.

Avrebbe dunque errato la corte d’appello nel ritenere che tra le parti fosse intercorso solo un contratto di conto corrente bancario.

In secondo luogo il ricorrente, dopo aver ribadito che gli ordini di vendita ed acquisto dei titoli obbligazionari a lui intestati erano stati impartiti alla banca estera, che li aveva poi eseguiti, dalla sede di una filiale di (OMISSIS) del Credito Italiano, per il tramite di un funzionario di tale istituto che vi aveva apposto la sua sigla, richiama le clausole dell’atto di scissione che ha dato vita alla società Unicredit Private Banking, ed osserva che a quest’ultima sono state trasferite le obbligazioni derivanti da contratti, o anche meri comportamenti, verso soggetti la cui posizione rientrava nel ramo d’azienda ad essa trasferito; ne deduce che anche la responsabilità per il difetto di diligenza nella prestazione del servizio di consulenza finanziaria di cui si discute fa ora capo alla suddetta Unicredit Private Banking, sicchè lacunosa e contraddittoria risulterebbe la motivazione dell’impugnata sentenza che tale conclusione non ha tratto.

1.3. Un ulteriore gruppo di motivi di ricorso, contrassegnati coi numeri dal nove al dodici, si riferisce ad un successivo passaggio della sentenza impugnata: quello in cui la corte territoriale ha ravvisato un’inammissibile domanda nuova nella pretesa dell’appellante di far valere la responsabilità della Unicredit Private Banking non più per essere divenuta essa stessa titolare passiva delle obbligazioni nascenti dal contratto di consulenza finanziaria originariamente stipulato dal sig. V. con la Unicredit Banca (già Credito Italiano), bensì in quanto tenuta in solido a rispondere dei debiti di quest’ultima a seguito dell’intervenuta scissione.

Il ricorrente imputa alla corte d’appello di aver fatto erroneamente riferimento alla responsabilità solidale – ma sussidiaria – gravante sulle società beneficiarie della scissione per i debiti rimasti in capo alla società scissa e da questa non soddisfatti a norma dell’art. 2506-quater c.c., u.c. (cui, all’epoca dei fatti di causa, prima della riforma societaria attuata col D.Lgs. n. 6 del 2003, corrispondeva l’art. 2504-decies). La disposizione invocata era, invece, quella dell’art. 2506-bis (in precedenza 2504-octies), comma 3, che contempla un’ipotesi di responsabilità diretta della società beneficiaria per le obbligazioni originariamente gravanti sulla società scissa, quando la loro destinazione non sia desumibile dal progetto di scissione. A parere del ricorrente, la domanda con cui siffatta responsabilità era stata invocata, se inquadrata nei suoi corretti termini, non avrebbe potuto esser considerata nuova rispetto a quanto prospettato dall’attore sin dal primo grado.

1.4. Il tredicesimo motivo di ricorso consta della mera affermazione secondo cui, se la corte d’appello avesse dato la giusta considerazione alle difese svolte dall’attore in primo grado, il gravame avrebbe dovuto essere accolto, con riflessi anche sul regime delle spese processuali.

2. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.

2.1. Quanto ai motivi sub 1.1., che investono questioni processuali, occorre subito osservare che alla denuncia delle asserite violazioni delle regole del processo non si accompagna una precisa e persuasiva individuazione delle conseguenze che, in termini d’ingiustizia della decisione, tali violazioni avrebbero prodotto.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo; il quale, perciò, ove il ricorrente non lo indichi in modo puntuale e specifico, non acquista rilievo idoneo a determinare l’annullamento della sentenza impugnata (così, tra le altre, Cass. 12 settembre 2011, n. 18635;

Cass. 21 febbraio 2008, n. 4435). Ed, infatti, l’interesse ad agire, necessario anche ai fini dell’impugnazione del provvedimento giudiziale, va apprezzato in relazione all’utilità concreta che può derivare alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione, non consistendo in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, privo di riflessi pratici sulla decisione adottata (così, ex multis, Cass. 21 dicembre 2007, n. 27006). Con la conseguenza che risulta inammissibile l’impugnazione volta a lamentare un semplice vizio del processo, senza prospettare le ragioni per le quali tale lesione abbia comportato l’ingiustizia del processo medesimo ed abbia impedito di difendere diritti o posizioni giuridicamente protette (in tal senso si veda anche Cass. 20 novembre 2009, n. 24532).

L’introduzione, ad opera della L. n. 69 del 2009, del nuovo art. 360- bis c.p.c., che tra le altre cose prevede l’inammissibilità del ricorso quando sia manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo (art. cit., n. 2), non contraddice – ma semmai convalida – siffatto orientamento.

Sono state manifestate opinioni diverse, in dottrina, a proposito del coordinamento tra tale nuova previsione e l’invariata disposizione del già menzionato art. 360 c.p.c., n. 4. Quale che sia la tesi preferibile, appare però certamente da escludere che il legislatore abbia inteso circoscrivere l’area dell’inammissibilità del ricorso per cassazione formulato per motivi processuali, rispetto alla situazione precedente, consentendo che si prescinda dal requisito dell’interesse, nei termini postulati dalla giurisprudenza sopra richiamata. La ratio legis della nuova disposizione appare, viceversa, volta a ribadire che le norme processuali sono funzionali all’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, e non certo a contraddire il fondamentale e generalissimo principio della strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale.

Perciò – ritornando ora al caso in esame – va detto che, corrette o meno che siano in astratto le decisioni processuali assunte dal giudice di merito e censurate dall’impugnante, la fissazione dell’udienza dinanzi al tribunale, prima che fosse scaduto il termine assegnato all’attore per replicare alla comparsa di costituzione della convenuta, e la declaratoria d’inammissibilità della memoria di replica nondimeno depositata dall’attore medesimo in tanto avrebbero potuto assumere rilievo, ai fini dell’eventuale annullamento della sentenza impugnata, in quanto ne fosse scaturita un’effettiva compressione del diritto di difesa del ricorrente, tale da influenzare l’esito per lui negativo della decisione. Nel caso di specie, se si tralasciano le affermazioni di carattere assolutamente generico, nessuna specifica indicazione si rinviene in tal senso nel ricorso, risultando viceversa palese che le argomentazioni difensive e le richieste istruttorie prospettate in causa, ivi comprese quelle sviluppate nella memoria di cui si è negata l’ammissibilità, sono state comunque esaminate dalla corte d’appello nell’impugnata sentenza e che l’esito della decisione non è stato in alcun modo influenzato dalla mancata valutazione di tesi o di richieste contenute solo nella suindicata memoria. Del resto, non può farsi a meno di notare che l’eventuale annullamento della sentenza di primo grado, per le ragioni addotte dall’allora appellante, in nessun caso avrebbe di fatto condotto ad un risultato diverso, non sussistendo comunque le condizioni per una rimessione delle parti dinanzi al tribunale, di modo che la corte d’appello avrebbe pur sempre dovuto decidere la causa nel merito, come ha fatto, sulla base degli stessi elementi e tenendo conto delle stesse argomentazioni difensive sulle quali essa si è soffermata.

Detto in altri termini, anche qualora la corte d’appello avesse condiviso le censure di ordine processuale rivolte dalla difesa del sig. V. quanto al modo in cui era stato condotto il processo di primo grado, nulla assolutamente consente d’ipotizzare che la decisione conclusiva del giudizio nel merito sarebbe stata diversa; e tanto basta ad escludere la sussistenza di un adeguato interesse a risollevare in questa sede quelle medesime censure.

2.2. In ordine alle doglianze riportate sub 1.2., è certamente vero che la consulenza finanziaria, già nella formulazione originaria del citato testo unico della finanza, formava oggetto di un separato e specifico servizio d’investimento, benchè allora fosse configurato come un servizio accessorio (mentre in seguito, dopo il recepimento della direttiva c.d. Mifid, è stato compreso tra quelli principali), che poteva essere reso anche da soggetti diversi dagli intermediari autorizzati alla prestazione di servizi d’investimento principali. E’ vero altresì che, pur in mancanza di una precisa definizione legislativa (solo successivamente introdotta dal T.U., art. 1, comma b-septies), si soleva ritenere, anche sulla scorta di comunicazioni diramate dalla Consob, che una delle caratteristiche essenziali di tale servizio risiedesse nella sua personalizzazione: cioè nel fatto che la consulenza fosse resa ad un determinato cliente in funzione delle sue specifiche esigenze d’investimento.

Tutto questo, però, non è utile a fornire una chiave di lettura delle risultanze di causa diversa da quella che il giudice di merito ha considerato rispondente alla realtà dei fatti. L’accertamento dell’inesistenza tra le parti del giudizio di un rapporto di consulenza del genere di quello ipotizzato dall’attore nell’atto di citazione si fonda sull’assenza di qualsiasi elemento univoco che valga a dare prova di un simile rapporto, ed il diverso significato che il ricorrente pretende di dare a quanto riportato in una lettera prodotta in causa si risolve in una non ammissibile censura di merito, rispetto alla quale le suaccennate osservazioni sulla configurazione giuridica del servizio di consulenza appaiono del tutto prive d’incidenza. Nè diversamente è a dirsi per il maggior peso che il ricorrente vorrebbe dare, rispetto a quello che gli ha invece accordato la corte barese, alla collaborazione che un funzionario del Credito Italiano (poi divenuto Unicredit Banca) ebbe a fornire nella trasmissione degli ordini di acquisto e vendita impartiti alla banca monegasca cui il sig. V. affidò la concreta esecuzione di tali operazioni. Collaborazione che ai giudici di merito, in primo come in secondo grado, è apparsa invece non eccedere quella richiesta dall’assistenza al cliente titolare di un conto corrente presso la banca, con l’apposizione di una sigla attestante l’esistenza sul conto di fondi sufficienti affinchè la predetta banca monegasca potesse dar corso agli ordini ad essa impartiti, senza alcuna evidenza di una significativa funzione consulenziale.

Il ricorrente dissente da tali valutazioni, ma ciò non basta ad evidenziare un qualche vizio logico della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata, nè sarebbe ovviamente possibile procedere in sede di legittimità ad una diversa valutazione delle risultanze acquisite in causa. Rilievo, questo, che appare assorbente anche degli altri aspetti di cui nel ricorso si discute: perchè, una volta escluso in punto di fatto che la vendita e l’acquisto di strumenti finanziari ordinati dal sig. V. ad una banca del (OMISSIS) siano in alcun modo riconducibili ad un servizio di consulenza finanziaria prestato da Unicredit Banca, e che quindi alla medesima Unicredit Banca possano far capo obblighi derivanti dalla prestazione di un tale servizio, vien meno evidentemente anche ogni questione sull’esatta identificazione delle posizioni giuridiche poi trasferite alla Unicredit Private Banking per effetto della scissione della prima società. 2.3. Anche il terzo gruppo di motivi di ricorso cui si è fatto cenno sub 1.3. è assorbito dai rilievi che precedono.

L’individuazione della corretta norma di legge invocata, infatti, si traduce nel rilievo per cui l’odierno ricorrente non avrebbe inteso mettere in causa la responsabilità sussidiaria della società beneficiaria della scissione (Unicredit Private Banking) per obbligazioni rimaste in capo alla società scissa (Unicredit Banca), bensì sostenere che il debito derivante dalle operazioni sopra riferite, qualora non ne fosse stata individuabile l’attribuzione nel progetto di scissione all’una o all’altra di dette società, graverebbe comunque in via solidale anche sulla beneficiaria. Ma è evidente che, da un lato, la corte d’appello non ha affatto riscontrato una simile situazione d’incertezza circa l’attribuzione del preteso debito, ritenendo invece senz’altro, in punto di fatto, che dall’atto di scissione si ricavi il permanere di quell’eventuale debito in capo alla società scissa; per altro verso che, comunque, le considerazioni prima svolte, nella misura in cui portano ad escludere sin dall’origine la riferibilità alla stessa società (poi) scissa del rapporto di consulenza finanziaria e dell’eventuale responsabilità conseguente, precludono in radice ogni possibilità d’individuare una qualsiasi ragione di responsabilità solidale a carico della beneficiaria.

2.4. L’ultimo motivo di ricorso è palesemente inammissibile, a cagione della sua assoluta genericità. 3. Il ricorso, dunque, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute nel giudizio di legittimità dalla banca controricorrente, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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