Cass. civ. Sez. I, Sent., 31-05-2012, n. 8780

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 14 giugno 2004 la Rinaldi F.lli Società Agricola (in prosieguo indicata come Rinaldi) citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano il Consorzio Produttori Latte di (OMISSIS), cui ella aveva aderito nel 1989 per poi recederne a partire dal 1 gennaio 2003. L’attrice chiese che, previa declaratoria d’inopponibilità o di nullità della deliberazione assembleare con cui i consorziati avevano escluso ogni possibile prelievo di denaro dal fondo consortile, il consorzio convenuto fosse condannato a corrispondere alla Rinaldi la quota spettantele in base alla previsione dell’art. 46 dello statuto, approssimativamente quantificata in Euro 35.500,00.

Il consorzio si costituì per chiedere il rigetto della domanda, ed in tal senso si pronunciò il tribunale. Anche il gravame proposto dalla Rinaldi fu rigettato con sentenza della Corte d’appello di Milano depositata il 31 agosto 2009.

La corte milanese, dopo aver riportato per esteso le ragioni per le quali il primo giudice, non avendo ravvisato nel disposto del citato art. 46 dello statuto un diritto intangibile dei consorziati ad ottenere la liquidazione della quota in caso di recesso, aveva negato che la delibera assembleare con cui era stato disposto il c.d.

"congelamento" del fondo consortile integrasse una modifica statutaria ed aveva di conseguenza considerato tale delibera pienamente valida ed efficace, escluse che ciò avesse implicato uno sconfinamento del decisimi rispetto alle domande ed alle eccezioni proposte dalle parti, com’era stato invece eccepito dall’appellante.

Dichiarò poi di condividere nel merito le argomentazioni giuridiche del tribunale, stimando che la contestata delibera assembleare di "congelamento" del fondo consortile attenesse al modo di funzionamento e non alla struttura statutaria del consorzio, onde nessun diritto alla quota di liquidazione poteva essere vantato dal consorziato receduto, in difetto di una delibera positiva in tal senso, laddove la delibera negativa in concreto adottata appariva frutto di una scelta gestoria circa le esigenze di destinazione del fondo, eventualmente impugnabile solo per un vizio di eccesso di potere, che nella specie non era stato però dedotto. Aggiunse poi ancora la corte distrettuale che la pretesa inopponibilita alla Rinaldi della delibera assunta nel marzo del 2003, epoca in cui la medesima Rinaldi aveva già cessato di far parte del consorzio, non aveva alcun rilievo, posto che analoghe delibere erano state adottate annualmente in precedenza a partire dal 1971.

Tale sentenza è stata impugnata dalla Rinaldi con ricorso per cassazione, basato su due motivi.

Il consorzio intimato si è difeso con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. La ricorrente, col primo motivo d’impugnazione, reitera la propria censura di ultrapetizione, rivolta alla sentenza di primo grado, e si duole che la corte d’appello non l’abbia accolta.

La doglianza non ha però fondamento.

Il vizio di ultrapetizione si verifica – come ripetutamente affermato da questa corte (si veda, ad esempio, Cass. 11 gennaio 2011, n. 455) – quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum e causa petendi) e sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, così da emettere un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato) o da attribuire o negare un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), fermo però restando che egli è libero non solo d’individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, ma di rilevare altresì, indipendentemente dall’iniziativa della parte convenuta, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva o estintiva di una data pretesa, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge (cfr., tra le tante, Cass. 7 dicembre 2005, n. 26999; e Cass. 19 giugno 2009, n. 14468). Entro i limiti dianzi segnati, pertanto, nulla osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti e ad una loro qualificazione giuridica autonoma rispetto a quelle prospettate dalle parti, anche applicando, se del caso, una norma giuridica diversa da quella invocata (in tal senso vedi anche Cass. 24 marzo 2011, n. 6757).

A tale principio il primo giudice era stato pienamente fedele, e correttamente quindi la corte d’appello ha rigettato il motivo di gravame fondato sulla pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c.:

perchè i fatti sui quali il tribunale ha basato la propria convinzione sono esattamente quelli dedotti in causa delle parti (sui quali, del resto, non v’era discussione) e la pronuncia di rigetto ha investito la domanda nei termini in cui questa era stata proposta. E’ perciò irrilevante, a questo fine, la circostanza che fosse stata già o meno prospettata dalle parti l’interpretazione giuridica che la sentenza di primo grado ha dato alla clausola statutaria riguardante la liquidazione della quota in caso di recesso di un consorziato, e quindi la tesi secondo la quale detta clausola non attribuisce al consorziato stesso un diritto intangibile ad ottenere tale liquidazione, legata ad un’eventuale successiva valutazione discrezionale degli organi del consorzio in ordine all’utilizzo del fondo consortile. Si tratta, all’evidenza, di quell’opera d’interpretazione e di qualificazione giuridica dei dati di causa che, come detto, rientra tra i compiti autonomi di chi è chiamato a giudicare, non potendosi egli esimere dal verificare se la domanda – nella specie, la domanda volta a far valere in causa il preteso diritto alla liquidazione della quota da parte del consorziato receduto – trovi o meno un adeguato fondamento giuridico nei fatti addotti da chi la ha proposta.

2. Neppure il secondo motivo di ricorso, che si articola in più censure variamente riferite a vizi di motivazione dell’impugnata sentenza ed alla violazione di svariate disposizioni della legge sostanziale e processuale, appare meritevole di accoglimento.

2.1. La ricorrente assume, innanzitutto, che la corte d’appello sarebbe incorsa in errore quando ha affermato che il tribunale, decidendo nel modo già prima riferito, si era solo parzialmente discostato da precedenti pronunce sullo stesso tema. La diversità rispetto a tali precedenti pronunce sarebbe, invece radicale.

Ma siffatta obiezione, quale che ne sia la fondatezza, appare manifestamente irrilevante in questa sede, non sussistendo certo, nè per il tribunale nè per la corte d’appello, alcun vincolo giuridico che imponesse loro di attenersi a precedenti di merito: sicchè l’eventuale errore nel vagliare la conformità della decisione a detti precedenti non inficia in alcun modo la decisione medesima, che è sorretta da una motivazione la cui fondatezza dev’essere autonomamente vagliata.

Del tutto generica, e pertanto inammissibile, è poi la doglianza secondo cui il significato che il tribunale e la corte d’appello hanno attribuito alla clausola statutaria che disciplina il recesso dei consorziati – divergente rispetto a quella che in analoghe situazioni era stata data nelle suaccennate precedenti decisioni – violerebbe le disposizioni contenute nell’art. 1362 c.c. e segg., che però il ricorrente non individua specificamente.

2.2. Non è condivisibile nemmeno l’affermazione secondo cui, nel rigettare il gravame proposto avverso la sentenza di primo grado, la corte d’appello avrebbe omesso d’indicare le ragioni del proprio convincimento. La sentenza d’appello riporta per intero la motivazione di quella di primo grado, da conto diffusamente dei motivi di gravame e quindi, dopo aver disatteso, per le ragioni già prima ricordate, l’eccezione di ultrapetizione formulata dall’appellante, afferma di condividere l’interpretazione data dal tribunale alla più volte richiamata clausola statutaria concernente il recesso dei consorziati. Non si limita, però, ad un’apodittica dichiarazione di adesione, ma spiega come detta clausola richieda, per poter liquidare la quota in favore del consorziato receduto, una specifica delibera rimessa alla valutazione degli organi del consorzio; e come tale delibera, al pari di qualsiasi altra afferente alle necessità di finanziamento dell’attività consortile, abbia carattere discrezionale, potendo perciò determinare la quota di liquidazione anche in misura pari allo zero: scelta di gestione in presenza della quale sarebbe prospettabile solo un’eventuale impugnazione per eccesso di potere in danno del consorziato receduto (non esperita però nel presente caso), senza che si possa configurare alcun diritto intangibile di quest’ultimo ad ottenere l’attribuzione in proprio favore di una quota parte del fondo.

La ricorrente si duole che, in tal modo, non sia stata data risposta alle censure da essa rivolte alla pronuncia di primo grado, ed a tal fine trascrive larghi passi del proprio atto d’appello. Senonchè, la lettura di tali passi evidenzia la scarsa aderenza di molte delle argomentazioni ivi espresse alla ratio decidendi della sentenza impugnata e, quanto ai rilievi in astratto maggiormente pertinenti, persuade di come invece alle obiezioni sollevate la corte milanese abbia dato adeguata risposta. Infatti è evidente che le argomentazioni dell’appellante muovevano quasi sempre dal presupposto che lo statuto riconoscerebbe al consorziato receduto un diritto pieno ed incoercibile alla corresponsione di una somma risultante dalla liquidazione della sua quota di partecipazione al fondo consortile; ma si è già visto come proprio tale presupposto era stato negato dal tribunale e come la corte d’appello abbia condiviso l’interpretazione data dal primo giudice alla relativa clausola statutaria, senza che siano stati evidenziati con sufficiente specificità eventuali vizi giuridici che inficino tale interpretazione. Altre argomentazioni dell’atto d’appello erano volte a dimostrare l’esistenza di una situazione di bilancio del consorzio che avrebbe giustificato la liquidazione della quota in seguito al recesso, anche in considerazione della dimensione relativamente modesta dell’azienda della Rinaldi; ma appare chiaro che simili argomentazioni sono adeguatamente confutate dai rilievi svolti dalla corte territoriale in ordine al carattere discrezionale della scelta del consorzio di non procedere alla liquidazione di detta quota, non sindacabile se non a seguito d’impugnazione per eccesso di potere, qui però non proposta.

2.3. A quest’ultimo aspetto si riferisce l’ultimo profilo di censura sollevato dalla ricorrente, la quale ravvisa una contraddizione nel fatto che la corte d’appello abbia ipotizzato il suaccennato onere d’impugnare per eccesso di potere la deliberazione di "congelamento" del fondo consortile ed, al tempo stesso, abbia affermato che la rinnovazione annuale di una simile manifestazione di volontà da parte dell’assemblea non sarebbe stata neppure necessaria, in quanto gli effetti della prima delibera in tal senso assunta già nel 1971 erano idonei a perdurare nel tempo. Al che la ricorrente obietta che essa è entrata a far parte del consorzio solo nel 1989 e che, quindi, non avrebbe certo potuto impugnare tempestivamente una delibera risalente a molti anni prima.

Anche quest’obiezione non è però affatto risolutiva: perchè l’affermazione della corte d’appello sulla non necessità di rinnovare annualmente la prima delibera con cui i consorziati avevano stabilito di non procedere alla ripartizione neppure parziale del fondo consortile in caso di recesso è, a propria volta, priva di rilievo decisivo. La stessa corte d’appello, infatti, non ha mancato di aggiungere che, comunque, analoghe delibere erano state assunte annualmente, per ragioni di maggior certezza, e che l’ultima di esse era intervenuta quando la Rinaldi era ancora aderente al consorzio, senza che tuttavia essa l’avesse impugnata; ed allora è chiaro che è appunto la mancata impugnazione per eccesso di potere di quest’ultima delibera a sigillare, nel ragionamento spiegato nell’impugnata sentenza, l’impossibilità di mettere in discussione la scelta del consorzio di non procedere alla liquidazione della quota a carico del fondo consortile, restando priva di ogni peso decisivo l’osservazione incidentale sugli ipotetici effetti che l’analoga delibera di oltre trenta anni prima avrebbe potuto ancora produrre, qualora non fosse stata annualmente rinnovata.

3. Alla reiezione del ricorso, per le ragioni dianzi indicate, fa seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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