Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 29-09-2011) 21-11-2011, n. 42933

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Novara, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale G. V. fu condannato alla pena di giustizia, oltre risarcimento del danno, perchè ritenuto responsabile del delitto di ingiuria in danno di C.A., cui rivolgeva le parole: "lei per me può solo andare a fa ‘nculo, terrone di merda".

Ricorre per cassazione il difensore e deduce violazione di legge e difetto dell’apparato motivazionale, per insussistenza dell’elemento oggettivo del reato, attesa la inidoneità della espressione a ledere il bene protetto e comunque la sussistenza della causa di non punibilità ex art. 599 c.p..

La giurisprudenza di legittimità ha preso atto del mutamento del contesto socioculturale e del diffondersi dell’uso di espressioni poco corrette, che vanno comunque contestualizzate e riportate al criterio di media convenzionale del linguaggio. Dunque, per valutare la natura effettivamente offensiva di un’espressione, si deve aver riguardo a quattro parametri: la personalità dell’offeso, quella dell’offensore, il contesto in cui l’espressione fu utilizzata, la coscienza sociale. Ebbene, va innanzitutto ricordato che i rapporti tra G. e C. erano tesi da tempo per ragioni di contrapposizione all’interno del condominio, poi bisogna tener conto del fatto che le espressioni adoperate dal primo sono ormai divenute di uso comune e hanno perso la loro portata offensiva, poi ancora che l’offeso ha "costruito l’occasione", rivolgendo, prima, alla moglie del G. e, poi, al predetto, una richiesta che egli sapeva avrebbe fortemente irritato i destinatari. Tanto ha fatto in presenza di una terza persona che, ad arte, aveva portato con sè.

La esimente art. 599 c.p., dunque ricorre ad evidenza, in quanto la reazione dell’imputato era certamente prevedibile da parte del C.. E’ poi chiaro che, non avendo il C. alcuna stima del G., lo stesso non poteva sentirsi offeso dalle parole del predetto.

Meno che mai poteva sentirsi offeso dalla parola "terrone", in quanto egli non è originario dell’Italia meridionale.

Ha depositato memoria il difensore della PC, con la quale chiede il rigetto del ricorso, allegando nota spese.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè, in parte, articolato in fatto, in parte, manifestamente infondato.

E’ articolato in fatto nella parte in cui sostiene – per altro senza fornire dimostrazione alcuna – che C. poteva prevedere la reazione del G. e che lo stesso avrebbe, in pratica, predisposto una sorta di "agguato" per scatenare nel G. la reazione verbale e poterlo, quindi, querelare.

Partendo dal presupposto che tra i due esisteva un’antica ruggine, il ricorso pretende di dedurre che C. avrebbe fatto "cadere in trappola" (in presenza di terza persona) il G., creando ad arte una situazione che, quasi certamente, avrebbe indotto il predetto a insultarlo.

Ciò, a parere del ricorrente, integrerebbe la condizione di non punibilità ex art. 599 c.p..

Orbene, a parte il fatto che tale assunto è meramente enunciato, è il caso di ricordare che, in base al dettato dell’art. 599 c.p., non è punibile chi abbia ingiuriato altra persona nello stato d’ira, determinato dal fatto ingiusto dell’insultato.

Nel caso di specie, il "fatto ingiusto" sarebbe – come si legge in sentenza e come il ricorrente non contesta – la richiesta di ottenere la chiave di un cancello che chiudeva uno spazio condominiale. Questo è il dato obiettivo, mentre l’ipotesi che la richiesta sia stata avanzata per provocare una prevedibile reazione è, come si diceva, meramente enunziata. Ma, a ben vedere, se anche ciò fosse, manche potrebbe ritenersi integrato il requisito della ingiustizia del fatto antecedente alla reazione ingiuriosa, atteso che l’esercizio di un diritto, sia pure a titolo "sperimentale" (sai per vedere come "risponde" l’obbligato alla prestazione), non costituisce, di per sè, fatto ingiusto.

Quanto poi all’assunto che la espressione utilizzata (e che il, G. non nega) non avrebbe carattere offensivo, esso è del tutto destituito di fondamento.

E’ pur vero che la recente giurisprudenza di questa Sezione ha mostrato alcune "aperture" verso un linguaggio più diretto e "disinvolto", ma è altrettanto vero che talune espressioni hanno un carattere obiettivamente insultante.

Ciò che conta è la valenza sociale delle parole, al di là e al di fuori della specifica intenzione di chi le adopera (e, bene inteso, sempre che chi le adopera ne sia consapevole).

Certamente (obiettivamente) ingiuriose sono quelle espressioni con le quali si "disumanizza" la vittima, assimilandola a cose, animali o concetti comunemente ritenuti ripugnanti, osceni, disgustosi. Di talchè, paragonare un uomo a un escremento ("terrone di merda") è certamente locuzione che, per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo, conserva intatta la sua valenza ingiuriosa.

L’espressione utilizzata nel caso in esame, contiene anche una connotazione odiosamente razzista ("terrone") e non vale osservare che il C. non aveva origini meridionali, atteso che, con la medesima tecnica della assimilazione denigratoria, egli è stato paragonato, non solo a un rifiuto organico, ma anche a un individuo che, per la sua origine, è evidentemente ritenuto obiettivamente inferiore (si intende: dal G., che, in un sol colpo, ha offeso il C. e gli italiani del Sud).

Nè la personalità dell’offensore (che dal ricorso si apprende essere persona di livello culturale superiore: il Dott. G.) può essere invocata per scriminare la sua condotta o attenuarne la valenza negativa, atteso che proprio detto livello ha ragionevolmente fatto presumere ai giudici del merito che l’imputato fosse pienamente consapevole della valenza fortemente negativa delle espressioni adoperate.

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue condanna alle spese del grado. Consegue anche condanna al versamento di somma a favore della cassa ammende. Si stima equo determinare detta somma in Euro 1000.

L’imputato è anche tenuto al ristoro delle spese sostenute dalla PC in questo grado di giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende; condanna altresì il ricorrente alla rifusione delle spese della parte civile, liquidate in complessivi Euro milleottocento (1.800), oltre accessori, come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *