Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-05-2012, n. 8746 Assegnazione di fondi Riforma agraria e fondiaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 10 novembre 1995, la signora G.E. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Grosseto, la propria sorella G.A. esponendo che: – il comune dante causa ( G.G.) era assegnatario di un fondo dell’Ente Maremma, che aveva riscattato il 4 settembre 1974; – che alla morte del predetto assegnatario erano divenute coeredi le due figlie e la moglie del "de cuius", P.M.; – che, con atto dell’11 novembre 1985, G.A. era stata designata dalle coeredi quale assegnataria del bene, con pattuizione che le altre coeredi sarebbero state soddisfatte con altri beni caduti in successione, la cui obbligazione, però, non veniva adempiuta; tanto premesso chiedeva che l’atto di designazione venisse dichiarato inefficace e che fosse accertato che la sua quota di comproprietà del fondo era pari ad un terzo. Nella costituzione della convenuta e chiamata in causa l’altra coerede e genitrice della parti in causa P.M. (la quale aderiva alla posizione della convenuta), il Tribunale adito, ritenuta la natura negoziale dell’accordo intercorso tra le parti e rilevato l’inadempimento della convenuta G.A., dichiarava la risoluzione dell’accordo, respingendo, in virtù dell’indivisibilità per legge del fondo, la domanda di accertamento della comproprietà per la quota di un terzo, con compensazione delle spese giudiziali. Interposto gravame da parte della G.A., la Corte di appello di Firenze, nella costituzione dell’appellata G.E. e nella contumacia di P.M., con sentenza n. 1665 del 2005 (depositata l’8 novembre 2005), in riforma dell’impugnata sentenza e in accoglimento del formulato appello, respingeva le domande proposte da G. E. e la condannava alla rifusione, in favore dell’appellante, delle spese del doppio grado.

A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale rilevava che, pur non potendosi disconoscere all’atto di designazione dedotto in controversia la natura di atto di autonomia privata presupponente il rispetto del limite dell’indivisibilità del fondo soggetto alla disciplina della L. n. 1078 del 1940, artt. 4, 5 e 6 lo stesso non avrebbe potuto essere ricondotto nell’ambito della categoria dei contratti a prestazioni corrispettive, dal momento che ciò che poteva competere agli eredi non assegnatari non era il "tantundem" per la designazione del coerede, ma soltanto la liquidazione della loro quota ereditaria. In ogni caso, osservava la Corte distrettuale in modo assorbente (e senza trascurare che, nella specie, non era stato fissato alcun termine per l’adempimento della dedotta obbligazione in capo alla G.A., nei cui confronti non era nemmeno stata intimata apposita costituzione in mora), ai sensi della citata L. n. 1078 del 1040, art. 6, comma 3, ove l’assegnataria non avesse pagato le somme dovute alla scadenza fissata, si sarebbe potuto procedere alla vendita del fondo nel modo e per gli effetti previsti dalla cit. legge, art. 5, comma 2, (con il rito camerale contemplato dall’art. 7 di detta legge), ma non sarebbe stato possibile chiedere la risoluzione di un atto non avente propriamente natura contrattuale.

Avverso la suddetta sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la G.E., articolato in sei motivi, ai quale ha resistito con controricorso l’intimata G.A..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente ha censurato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione della L. n. 1078 del 1940, artt. 4, 5 e 6 nonchè della L. n. 379 del 1967, artt. 4 e 7 nonchè dell’art. 722 c.c. chiedendo a questa Corte di statuire sul se, in caso di morte dell’assegnatario dopo il riscatto del fondo, la relativa successione configuri un’ipotesi di vocazione legittima anomala, ovvero un’ipotesi di assegnazione preferenziale, provvedendo, conseguentemente, in caso di configurazione della seconda prospettazione, all’annullamento della sentenza impugnata con la quale era stata riformata la sentenza di primo grado.

2. Con il secondo motivo la G.E. ha dedotto il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la sentenza impugnata aveva inquadrato la controversia nella categoria delle successioni legittime anomale avuto riguardo alla fattispecie, propriamente ricorrente nella controversia in questione, della successione nel terreno di riforma fondiaria dopo l’avvenuto riscatto in capo al "de cuius". 2.1. Questi primi due motivi – che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi (riguardando, sotto i diversi profili dell’asserita violazione di legge e dell’assunto vizio di motivazione – la medesima questione) – sono infondati. Come è risaputo, la L. n. 1078 del 1940, espressamente richiamata con riferimento all’ipotesi in cui per l’esercizio del riscatto l’assegnatario abbia acquisito la piena proprietà del fondo, individua una serie di disposizioni dirette ad assicurare l’infrazionabilità delle unità poderali costituite in comprensori di bonifica da enti di colonizzazione ed assegnati in proprietà a coltivatori diretti, nel caso di trasferimento sia per atto "inter vivos" che "mortis causa". Gli artt. 1 e 9 di detta legge affermano espressamente che la suddivisione dell’unità poderale non può derivare da nessun atto di trasferimento tra vivi o "mortis causa" volontario o coattivo. Risulta così stabilito all’art. 3 che gli atti aventi per effetto il trasferimento dell’unità poderale sono nulli e che la nullità può essere fatta valere solo nel termine quinquennale dall’atto, con il conferimento della correlata legittimazione anche al P.M.. L’art. 4 della legge in questione estende tale disciplina sostanziale alla disposizioni testamentarie che abbiano per effetto il frazionamento dell’unità poderale. Il successivo art. 5 stabilisce l’attribuzione dell’unità poderale, in caso di morte dell’assegnatario, gradatamente al coerede designato dal testatore; in difetto di designazione, ad un coerede idoneo e disposto ad accettare l’attribuzione o, in caso di disaccordo tra gli eredi, a quello fra essi designato dal giudice, individuato sulla base delle condizioni ed attitudini personali. L’art. 6 disciplina le modalità di soddisfacimento dei coeredi esclusi dall’assegnazione, stabilendo che essi devono essere soddisfatti dalle rispettive quote con gli altri beni mobili o immobili caduti in eredità e, in mancanza, con il riconoscimento, in loro favore, del diritto di ottenere dall’assegnatario, o solidalmente dagli assegnatari dell’unità poderale, la quota di loro spettanza o la parte di essa non soddisfatta con l’attribuzione degli altri beni ereditari;

inoltre, con la previsione dell’ultimo comma di detto articolo, risulta previsto che qualora l’assegnatario o gli assegnatari non paghino le somme dovute alla scadenza prefissata, si procede alla vendita del fondo nel modo e con gli effetti previsti dal precedente art. 5, comma 2.

Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 4632 del 2001 e Cass. n. 14765) ha avuto modo di precisare che, in tema di assegnazione di terre di riforma fondiaria, la L. n. 379 del 1967, art. 4, comma 1, ribadendo il divieto di frazionamento ai sensi della L. n. 1078 del 1940 anche per il fondo riscattato, fa riferimento non solo alle norme che sanciscono la nullità degli atti tra vivi e delle disposizioni testamentarie aventi per effetto il frazionamento, ma anche a quelle dettate nell’ipotesi di morte dell’assegnatario e per la conseguente procedura di subentro dell’erede, con la conseguenza che l’autorità giudiziaria, adita con il procedimento camerale previsto dalla L. n. 379 del 1967, nel caso in cui l’assegnatario sia deceduto e non abbia designato chi, tra gli eredi, debba succedergli nella titolarità del bene (ipotesi equiparabile a quella in cui la designazione sia stata dichiarata nulla), non può emettere una pronuncia negativa, ossia di rigetto della domanda di uno dei coeredi che abbia chiesto l’attribuzione del fondo, ma deve, essendo palese il disaccordo tra coeredi, individuare e scegliere tra essi il più idoneo, per le sue condizioni ed attitudini personali, ad assumere l’esercizio dell’unità agraria secondo il disposto della L. n. 1078 del 1940, art. 5, comma 1, e della L. n. 379 del 1967, art. 7.

Orbene, alla stregua di tale inquadramento sistematico, il collegio rileva che l’impostazione sostanziale seguita dalla Corte toscana nella premessa generale funzionale alla risoluzione delle questioni sottoposte al suo esame risulta essenzialmente rispondente ai predetti principi poichè, in concreto, attraverso il meccanismo di designazione derivante dall’applicabilità della disciplina riconducibile alla riforma fondiaria, il legislatore ha inteso prevedere un sistema derogativo a quello tipico della successione ordinaria (con particolare riferimento anche al principio di omogeneità espresso dai criteri prefissati dagli artt. 718 e 727 c.c.) allo scopo di favorire la continuità della conduzione e della concentrazione dei fondi (soggetti al vincolo di infrazionabilità) nella persona del soggetto idoneo a garantire un’efficiente coltivazione (ovvero munito dei requisiti contemplati dalla L. n. 230 del 1950, art. 16), stabilendo i criteri per la conseguente designazione in proposito. Del resto la stessa Corte costituzionale (con la sentenza n. 103 del 1985) ha evidenziato che l’esclusione dei coeredi dai diritti successori sul fondo riscattato costituisce una necessaria conseguenza del divieto di frazionamento del fondo stabilito dalla L. n. 1078 del 1940, in virtù della quale la suddivisione dell’unità poderale non può derivare da nessun atto di trasferimento "inter vivos" o "mortis causa", volontario o coattivo (L. n. 1078 del 1940, art. 1 e 9), divieto di frazionamento che era coerente con i fini della riforma agraria e con il sistema emergente dagli artt. 41, 42, 44 e 47 Cost. A tal proposito deve tenersi conto, in particolare, del dato che l’art. 44 Cost., coordinando il fine di stabilire equi rapporti sociali e quello di conseguire il razionale sfruttamento del suolo, nel prevedere che la legge imponga obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissi limiti alla sua estensione, promuova ed imponga la trasformazione del latifondo, prevede, altresì, che la legge incentivi e preveda la "ricostituzione delle unità produttive"; sotto questo profilo, dunque, si giustificava sia la previsione delle limitazioni alla frazionabilità del suolo assegnato, sia la creazione di uno statuto proprietario differenziato, elementi, questi, che ben potevano determinare un differenziato regime successorio (alla luce del dato che l’art. 42 Cost., comma 4, ammette limiti "ex lege" alla successione "mortis causa") e, in particolar modo, escludere l’applicabilità della regola del pari diritto degli eredi ad una porzione in natura dei beni ereditati (sulla scorta di questo approccio ermeneutico il giudice delle leggi ha, quindi, rilevato l’infondatezza – in riferimento all’art. 3 Cost. – della questione di legittimità costituzionale della L. n. 1078 del 1940, art. 6, in quanto richiamato dalla L. n. 379 del 1967, art. 4 al quale rinvia la L. n. 386 del 1976, art. 10, comma 2, nella parte in cui esclude i coeredi diversi dal designato dai diritti successori sul fondo di riforma riscattato).

3. Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto un ulteriore vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, avuto riguardo alla parte in cui la sentenza impugnata aveva escluso la risolvibilità dell’atto di designazione (stipulato tra le parti con convenzione del 1985) del coerede assegnatario del terreno di riforma fondiaria (per il quale sussisteva il vincolo di infrazionabilità), difettando l’elemento della sinallagmaticità. 3.1. Anche questo motivo è privo di pregio giuridico e deve, perciò, essere respinto. Al di là del profilo del difetto di autosufficienza della doglianza nella parte in cui non riporta gli elementi essenziali (trascrivendoli) della convenzione dedotta in controversia, la sentenza impugnata appare adeguatamente motivata sul piano logico-giuridico, poichè, alla stregua della complessiva disciplina positiva precedentemente richiamata, l’atto di designazione che i coeredi stipulino eventualmente ai sensi della L. n. 1078 del 1940, art. 5, comma 1, ha ad oggetto unicamente l’individuazione del coerede al quale viene attribuito il fondo infrazionabile, mentre il pagamento delle quote ai coeredi non assegnatari non costituisce propriamente il "corrispettivo" di detta individuazione, costituendo, invece, espressione de correlato fenomeno successorio orientato a garantire la liquidazione del relativo credito, la cui disciplina è contenuta nell’art. 6 della citata legge. In altri termini, come correttamente argomentato da parte della Corte territoriale, il negozio, necessariamente plurilaterale o almeno bilaterale, con il quale le parti provvedono alla designazione, persegue unicamente lo scopo della individuazione del soggetto al quale viene attribuito il fondo infrazionabile, ma non investe anche la gamma dei diritti spettanti agli altri partecipanti al negozio, i quali derivano esclusivamente dalla legge e si sostanziano in un credito (di valore) corrispondente alla loro quota sul fondo medesimo. Non si verte, pertanto, nella ipotesi di un contratto sinallagmatico (in ordine al quale, invece, in generale è applicabile il rimedio della risoluzione), poichè la liquidazione delle quote ai coeredi non assegnatari non si pone – come esattamente stabilito dalla Corte fiorentina – come corrispettivo della designazione dell’attributario ma trova fondamento autonomo (in virtù della titolarità di una situazione giuridica non inscindibilmente connessa a quella dell’erede subentrante: cfr. Cass. n. 11773 del 1992) nelle disposizioni legislative di riferimento (e non già, quindi, nell’accordo di designazione), potendosi pervenire, in caso di inadempimento della parte assegnataria, alla conseguenza finale della vendita coattiva del fondo, ai sensi della stessa L. n. 1048 del 1940, art. 6, comma 3, (senza, perciò, che – proprio al fine di assicurare l’indivisibilità del fondo – possa scaturire il ripristino della comunione tra i coeredi, la quale produrrebbe, inevitabilmente e contrariamente alla "ratio" della disciplina speciale in questione, il superamento dell’assetto giuridico conseguito tra le parti con la conclusione dell’atto negoziale di designazione).

4. Con il quarto motivo la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1218, 1206-1217 e 2697 c.c. (in virtù dell’art. 360 c.p.c., n. 3), chiedendo a questa Corte di valutare se, sussistendo un rapporto obbligatorio di origine contrattuale, sia onere del debitore che intende liberarsi dall’obbligazione procedere alla costituzione in mora del creditore e, quindi, alla liberazione coattiva mediante deposito o sequestro seguito da convalida, allo scopo di liberarsi dall’obbligazione.

4.1. Il motivo è inammissibile per carenza della necessaria condizione dell’interesse a ricorrere posto che la doglianza relativa all’individuazione della parte onerata a provvedere alla costituzione in mora è superata dalla ravvisata ed esatta esclusione di un rapporto obbligatorio di origine contrattuale al quale sarebbe stata applicabile la risoluzione, ragion per cui la questione dedotta con il motivo in esame non ha formato oggetto di una "ratio decidendi" determinante per l’accoglimento del gravame. In ogni caso, la Corte distrettuale – una volta esclusa la risolubilità dell’accordo negoziale di designazione – ha congruamente rilevato come la mancata quantificazione della quota all’unica coerede rimasta non assegnataria non fosse addebitabile alla coerede designata, non essendo stata attivata la procedura di liquidazione prevista dalla L. n. 1078 del 1940, artt. 6 e 7 il cui onere incombeva alla medesima ricorrente, che avrebbe dovuto dedurre l’omesso soddisfacimento della propria quota, che il termine per adempiere era scaduto e, così, ottenere che l’autorità giudiziaria procedesse alla vendita dell’unità poderale (non potendo, pertanto, porsi a carico della coerede designata gli effetti negativi di tale inerzia).

5. Con il quinto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione della L. n. 1078 del 1940, artt. 5, 6 e 7 (sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), chiedendo a questa Corte di statuire sul se, stipulato un atto di assegnazione di un terreno di riforma fondiaria, l’accertamento dell’inadempimento delle obbligazioni contrattuali rientra nella competenza del giudice ordinario secondo il rito camerale previsto dalla L. n. 1078 del 1940, art. 7 (come ritenuto dalla Corte territoriale nella fattispecie, la quale aveva, però, definito nel merito la controversia malgrado si fosse svolta nelle forme del processo ordinario), ovvero se rientra nella competenza del giudice ordinario nell’ambito di un processo a cognizione piena.

5.1. Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento.

Dal complessivo quadro normativo richiamato si desume (v., da ultimo, Cass. n. 17884 del 2009 e Cass. n. 9483 del 2011) che la L. n. 1078 del 1940, all’art. 7, prevede che la procedura camerale si applichi soltanto per le materie di cui ai precedenti artt. 5 e 6, ovvero nell’ipotesi in cui, in difetto di designazione del testatare e in presenza di una pluralità di eredi in disaccordo tra loro, l’intervento del giudice è necessario per individuare (sulla scorta del criterio delle condizioni personali e delle migliori attitudini a gestire l’impresa agricola) il subentrante senza comportare annullamento di alcun negozio o contratto che abbia effetto nei riguardi dei coeredi stessi.

Nella specie, per come è pacifico, la controversia era stata instaurata per l’ottenimento della declaratoria di risoluzione per assunto inadempimento di G.A. del negozio di designazione di erede e per il correlato riconoscimento della titolarità di un 1/3 del fondo, con il conseguente trasferimento delle relative quote in favore delle altre due coeredi (sorella e madre) e, quindi, la causa fuoriusciva da quelle propriamente previste dal citato L. n. 1978 del 1940, art. 7 da assoggettare al rito camerale. Del resto, la Corte fiorentina non ha affatto affermato, in motivazione, che la causa in discorso non dovesse essere trattata nelle forme ordinarie (proprio sulla scorta del concreto oggetto della domanda – e della correlata "causa petendi" – effettivamente dedotta in giudizio), ma ha solo chiarito che, solo ove la controversia fosse insorta ai fini della liquidazione e de pagamento delle quote ereditarie (come per tutte le altre controversie concernenti la designazione dell’erede assegnatario), sarebbe stato necessario osservare il predetto rito camerale, evenienza, questa, che non si era venuta a configurare nel caso di specie in cui il giudizio era stato instaurato per l’ottenimento di una pronuncia di tipo diverso. In ogni caso, va rilevato che – seppure, per mera ipotesi, si volesse intendere il ragionamento della Corte toscana nel senso della ritenuta applicabilità di detto rito camerale alla vicenda contenziosa in discorso (il che, comunque, non è) – la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 6254 del 1991) ha, in generale, evidenziato condivisibilmente che, qualora il procedimento di cui alla L. 3 giugno 1940, n. 1078, artt. 5 e 6 per la designazione del coerede subentrante al titolare dell’unità poderale nel rapporto di assegnazione e per la liquidazione in danaro della quota spettante ai coeredi estromessi si sia svolto, anzichè con il rito camerale a norma dell’art. 7 della legge citata, nelle forme del processo ordinario, non è configurabile alcuna nullità del procedimento e della sentenza che lo conclude, risultandone rafforzate le garanzie di difesa delle parti.

6. Con il sesto ed ultimo motivo la ricorrente ha prospettato la violazione e falsa applicazione della L. 19 febbraio 1992, n. 191, art. 1 (ancora in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), chiedendo a questa Corte di decidere sul se, in relazione ad una successione "mortis causa" apertasi dopo che siano trascorsi trentanni dalla data di assegnazione, sia o meno applicabile il disposto del citato art. 1 della richiamata L. n. 191 del 1992. 6.1. Quest’ultimo motivo è palesemente infondato avendo la giurisprudenza di questa Corte costantemente affermato (cfr. Cass. n. 9636 del 1998; Cass. n. 9849 del 2005 e Cass. n. 12060 del 2009) che la L. 19 febbraio 1992, n. 191, che ha eliminato il vincolo d’indivisibilità delle unità poderali, costituisce "ius superveniens" che innova la precedente disciplina, con la conseguenza che non può trovare applicazione alle successioni apertesi (come quella dedotta nella controversia oggetto del ricorso) in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, sia in base al principio generale di irretroattività della legge, sia perchè, al fine di stabilire la disciplina applicabile, bisogna fare riferimento non alla data di proposizione della domanda giudiziale, ma a quella di apertura della successione, atteso che la successione "mortis causa", per il principio "tempus regit actum", è disciplinata dalle norme operanti al momento della morte del "de cuius", non rilevando in contrario che si verta in ipotesi di successione legittima.

7. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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