Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-05-2012, n. 8743

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione 30.7.93 N.A. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Messina, i coniugi A.G. e M.G. esponendo che i convenuti, circa due anni prima, a)avevano realizzato un corpo di fabbrica a distanza non legale dal confine della casa di proprietà di essa attrice, sita in Frazione (OMISSIS); b) avevano costituito una illegittima servitù di veduta carico dell’immobile N., munendo il terrazzo del loro nuovo edificio di un parapetto che consentiva il comodo affaccio; c) avevano precluso l’esercizio di un servitù di veduta diretta, laterale ed obliqua a carico del terreno sul quale era stata realizzata la costruzione in questione, imbrattando, inoltre, con cemento e vernice l’immobile della N..

Quest’ultima chiedeva, pertanto,la condanna dei convenuti al ripristino dello stato dei luoghi o alla realizzazione di opere idonee ad eliminare gli abusi edilizi denunciati oltre alla refusione delle somme necessarie per la ripulitura delle parti di immobile danneggiate in conseguenza dei lavori eseguiti.

Si costituivano in giudizio i convenuti rilevando che la nuova costruzione era stata realizzata regolarmente sul preesistente allineamento stradale,secondo il disposto del D.M. n. 3519 del 1968, art. 9.

Espletata C.T.U., con sentenza 12.1.2004, il GOA accoglieva le domande proposte dall’attrice e condannava i convenuti ad arretrare il loro fabbricato dal confine lato nord, in corrispondenza del terrazzo, di m. 4,50 in modo da rispettare la distanza di m. 10 dal fabbricato dell’attrice; condannava, inoltre, i convenuti al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale sentenza i coniugi A. – M. proponevano appello cui resistevano gli eredi di N.A., nelle more deceduta.

Con sentenza depositata il 29.3.2007 la Corte d’Appello di Messina rigettava l’appello condannando gli appellanti al pagamento delle spese del grado.

Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso i coniugi A. – M. formulando cinque motivi illustrati da memoria.

Resistono con controricorso T.R., T.A., quali eredi di N.A..

I ricorrenti deducono:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 1 disp. gen.; dell’art. 873 c.c.; del D.M. n. 3519 del 1968, art. 9; della L.R. Sic. n. 71 del 1978, art. 28, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3;

erroneamente la Corte d’appello aveva attribuito prevalenza ad una norma regolamentare del Comune di (OMISSIS) che stabilisce la distanza di m. 10 tra corpi di fabbrica, non tenendo conto della norma di livello superiore di cui alla L.R. Sic. n. 21 del 1973, art. 28, che, invece, autorizza l’edificazione nel preesistente allineamento stradale, senza il rispetto della distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; peraltro, anche a voler concedere prevalenza gerarchica alla fonte regolamentare comunale, il fabbricato dei ricorrenti risultava essere regolarmente costruito, prevedendo l’art. 15 del Programma di fabbricazione comunale che "il sindaco può concedere concessioni a costruire in deroga a norme del presente regolamento e del vigente strumento urbanistico, escludendo da tale potere di deroga solo le norme relative ai rapporti di copertura ed agli indici volumetrici"; 2) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio;

il giudice di appello, aderendo in modo apodittico alle conclusioni del C.T.U. nominato in seconda istanza, aveva attribuito il carattere di costruzione, ex art. 873 c.c., al cucinino ed al vano bagno siti nel corpo di fabbrica lato nord della N., pur trattandosi di pertinenze che per la loro altezza di circa m. 2,30, inferiore a quella legale, non potevano considerarsi vani utili; ne conseguiva che la distanza prescritta tra i due edifici in questione non era quella di m. 10 ma quella di m. 5,50, regolarmente osservata;

3) violazione e falsa applicazione degli artt. 873 e 878 c.c.; del D.M. n. 3519 del 1968, art. 9, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio( mancata o erronea valutazione di risultanze probatorie);

l’esistenza del muro di confine adagiato sul corpo scala esterno del fabbricato già N., al confine con l’immobile dei ricorrenti, interrompeva la distanza fra le costruzioni delle parti, facendo venir meno le condizioni per l’applicazione della normativa in tema di distanze;

4) violazione e falsa applicazione degli artt. 905, 906 e 907 c.c., art. 2697 c.c., in relazione all’art. 113 c.p.c., comma 1 e art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, laddove la Corte d’appello aveva ritenuto sussistente: a) la violazione del diritto di servitù di venduta (in senso diretto, laterale ed obliquo)esercitato dalla N. dal proprio immobile sul fondo finitimo e b) la costituzione di una servitù di veduta illegittima da parte dei coniugi A., dai balconi posti al primo ed al secondo piano dello stabile di loro pertinenza; i giudici di appello, al riguardo, avevano dato rilievo alle conclusioni del C.T.U. ing. G., contrastanti con quelle del C.T.U. Ar., non considerando:

che i balconi del fabbricato N., al confine con la proprietà dei ricorrenti,erano muniti di muretti dell’altezza di circa cm. 1,80 che non consentivano l’affaccio nel terreno dei convenuti ed erano rientrati rispetto alla via pubblica, con la conseguenza che la distanza di cm. 76 era regolare ex art. 906 c.c.;

che il terrazzino della N. prospettava su un vano scala attraverso cui l’immobile della stessa aveva accesso da via (OMISSIS), scala posta tra il muro di confine con la proprietà A. ed il terrazzino; tale muro, non essendo munito di parapetto, non permetteva l’affaccio diretto sul terreno confinante;

5)violazione e falsa applicazione degli artt. 872 e 873 c.c.;

dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 113 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento alla condanna delle ricorrenti alla demolizione di parte del proprio manufatto ed alla rifusione delle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio.

Il ricorso è infondato.

Il primo motivo è meramente reiterativo di questione già risolta dalla Corte territoriale con corretta e logica motivazione, laddove è stato evidenziato che le deroghe invocate, della legislazione regionale, non potevano essere operanti, in forza del principio che ne consente l’applicazione solo se ed in quanto il potere di deroga, non illimitato,attribuito agli enti comunali(e non ai privati) sia esercitato attraverso strumenti urbanistici già adottati ma non ancora approvati, ipotesi non ricorrente nella specie, posto che il regolamento comunale applicato prescriveva una distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, senza alcun profilo di contrasto tra norme di rango di- verso (cfr. Rv. 453751; Cass. n. 6029/2000).

Costituisce, peraltro, argomento nuovo e, comunque, irrilevante la dedotta possibilità di deroga prevista dal l’art. 15 del Programma di Fabbricazione del Comune di (OMISSIS), in sede di rilascio della concessione (V. pag. 8 ricorso), possibilità evidentemente non esercitata, considerato il tenore della concessione che rimanda al rispetto dei vigenti piani urbanistici.

La seconda doglianza attiene a questione di puro fatto sulla pretesa contraddizione tra le due C.T.U. che la Corte distrettuale ha, con adeguata motivazione, escluso (V. pag. 9 sent.); peraltro sulla distanza della parete finestrata dai vani c.d. non utili( piccolo servizio e cucinino), non vi è statuizione e la questione sarebbe coperta da preclusione interna, non essendo stata appellata la decisione di primo grado che sul punto si era pronunciata; la censura è, peraltro, infondata, considerata la latitudine della nozione di parete finestrata e della necessità del rispetto delle distanze tra i corpi di fabbrica anche quando una sola parete dei due edifici abbia finestre (Cass. n. 13547/2011), tenuto conto, inoltre, della generale applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, affermata dalle S.U. (Cass. 14953/2011).

Il terzo motivo è inammissibile in quanto concernente la questione di fatto se un determinato muretto "interrompa" la distanza fra i fabbricati.

In ordine alla quarta censura è sufficiente osservare che la Corte d’Appello ha optato per una plausibile qualificazione dell’affaccio, superando le più vaghe risultanze della prima C.T.U. , con motivazione in puro fatto esente dia vizi logico-giuridici( V.pag. 9 sent.).

La infondatezza dei motivi esaminati comporta quella del quinto motivo di ricorso fondato sul presupposto dell’accoglimento dell’impugnazione.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 3.500,00 di cui Euro 200,00 per spese oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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