Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-05-2012, n. 8737

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Per quanto ancora interessa in questa sede, la vicenda processuale può riassumersi come segue.

Nel 1985 l’impresa dei signori N. e C., a seguito di contestazioni sul rispetto delle distanze tra la palazzina in costruzione in (OMISSIS) e l’immobile dei fratelli G., li conveniva in giudizio per accertare l’avvenuto rispetto delle norme edilizie. I fratelli G., costituitisi, in via riconvenzionale chiedevano che fosse accertata la violazione delle distanze minime legali di 10 metri tra la palazzina in costruzione e le pareti del loro fabbricato e del relativo "appodiato" (parte annessa all’edificio principale) posto sul lato sud, chiedendo che ne fosse disposto l’arredamento fino alla distanza legale con conseguente parziale demolizione.

Espletata c.t.u., il Tribunale di San Benedetto del Tronto con sentenza 181 del 2006 individuava in metri la distanza minima legale tra i due fabbricati e, rilevato che questa non era stata rispettata, ordinava l’arretramento di quello dell’impresa.

La Corte di Ancona accoglieva l’impugnazione di N. e C., anche nella qualità, all’esito del supplemento di c.t.u., disposto per verificare il rispetto delle distanze legali con riguardo alla sopravvenuta normativa edilizia più favorevole agli appellanti, di cui il c.t.u. non aveva tenuto conto. Al riguardo, la Corte territoriale osservava che dalla c.t.u. espletata in primo grado era emerso che "il fabbricato realizzato dalla parte attrice- appellante era a distanza inferiore a metri 10 (precisamente metri 7,57) dal fabbricato di parte convenuta, se si calcola tale distanza dal pilastro reggente un corpo dell’edificio sino allo appodiato dell’edificio di parte convenuta". In particolare la Corte anconetana osservava che le "supplementari valutazioni peritali acquisite nel presente grado sono di incontestabile chiarezza alla luce di quanto obiettivamente rilevato in termini di evidenze materiali, rapportabili alla normativa sopravvenuta" (pagina 16); condivideva la conclusione del c.t.u. che escludeva che i due fabbricati in questione potessero essere qualificati come tra loro "prospicienti", secondo la definizione contenuta nello strumento urbanistico, risultando essi tra loro quasi paralleli; concludeva che "non trattandosi di edifici prospicienti, in senso tecnico, la questione della presunta violazione delle distanze legali appare obiettivamente infondata" (pagina 16) non potendosi comunque far "riferimento al pilastro sostegno che, essendo propagine strutturale, non potrebbe mai considerarsi quale elemento di identificazione fisionomica della struttura dell’edificio fenistrato" (pagina 17).

Avverso tale decisione ricorrono i fratelli G. che articolano due motivi di ricorso ulteriormente dettagliati. Resistono con controricorso gli intimati in proprio e nella qualità, "per quanto di diritto e ragione". Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. – I motivi di ricorso.

Col primo motivo viene dedotta la "violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2 e alla L. n. 150 del 1942, art. 41 quinquies, in aggiunta alla L. n. 765 del 1967, art. 17 e agli artt. 872 e 873 cod. civ.".

Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto di fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5) in relazione agli articoli di cui al superiore punto 1". 2. Parte ricorrente descrive poi in quattro "motivi" alcuni errori in fatto che sarebbero stati commessi dalla Corte territoriale, articolando successivamente in diritto ulteriori sei "motivi", che denunciano: a) il primo l’errata ritenuta equivalenza tra le parole "antistante" e "prospiciente" quanto alla interpretazione degli strumenti urbanistici (artt. 13 e 60 del regolamento edilizio), che avrebbe comportato l’utilizzo di un differente metodo di misurazione delle distanze con risultati errati (lineare o radiale); b) il secondo l’errata applicazione della normativa locale urbanistica sopravvenuta, inapplicabile perchè derogativa di quella nazionale ( D.M. n. 1444 del 1968); c) il terzo l’errore sul metodo di misurazione utilizzato; d) il quarto la mancata applicazione del diritto di prevenzione nella misurazione delle distanze anche in proiezione verticale; e) il quinto l’esclusione del pilastro come punto di misurazione, erroneamente considerato come elemento ornamentale e non strutturale; f) il sesto il mancato rilievo della violazione delle distanze anche con riguardo ai balconi e alla presenza di finestre.

3. – I resistenti hanno eccepito con controricorso l’inammissibilità dei motivi, lamentando a) la mancata esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle violazioni di norme quanto ai primi due motivi; b) la mancata riconduzione delle censure a pagina 5 e seguenti a specifiche ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c.; c) la proposizione di questioni nuove prospettate con il quarto (pagina 9) e sesto (pagina 10) motivo, non essendo mai stata sollevata la questione relativa alla distanza tra fabbricati calcolata con riguardo alla proiezione verticale dell’edificio e dei balconi.

4. – Il ricorso, in effetti, si presenta di difficile comprensione, sia quanto allo svolgimento del processo (specie con riguardo alla decisione assunta in primo grado), sia quanto al contenuto delle censure avanzate in modo generico con i primi due motivi, ma dettagliate con i successivi, anche se in assenza di un chiaro riferimento alle norme violate (peraltro ricavabili agevolmente sulla base dei primi due motivi). La lettura complessiva del ricorso, alla luce dei primi due motivi (e in particolare del secondo) consente però di ritenere infondate le prospettate eccezioni per quanto di seguito chiarito.

5. – Occorre, infatti, rilevare che la sentenza impugnata non offre con la sua motivazione una chiara ricostruzione della situazione di fatto, nè da conto analiticamente dell’applicazione del nuovo regolamento edilizio (che doveva essere applicato in quanto più favorevole, vedi Cass. 2003 n. 8512 e seguenti conformi) alla questione controversa. Essa si limita ad affermare conclusivamente che "alla luce della predetta normativa urbanistica sopravvenuta … il controverso problema della presunta violazione delle distanze legali appare chiaramente superato, non evidenziandosi, dalle osservazioni tecniche di parte, fattori critici obiettivamente attendibili, sul piano tecnico-scientifico, a smentita delle predette, coerenti e logicamente organiche conclusioni del c.t.u.".

Al riguardo e con riferimento agli elementi di fatto relativi al calcolo delle distanze, la Corte territoriale recepisce la conclusione del c.t.u., che, come già detto nella parte espositiva, escludeva trattarsi di edifici prospicienti, ma non chiarisce poi quale norma del regolamento edilizio ha applicato per giustificare la conclusione, cui è poi giunta, secondo la quale non si era verificata una violazione delle distanze (posto che era stata accertata una distanza di 7,57 metri tra pilastro di sostegno dell’edificio dei resistenti e appodiato dei ricorrenti), nè la Corte indica il metodo a tal fine utilizzato per il calcolo e i relativi punti di riferimento. Anzi sul punto specifico la Corte territoriale esclude espressamente che si debba prendere come punto di riferimento il pilastro di sostegno (preso invece in considerazione dalla sentenza di primo grado), definendolo "propaggine strutturale", senza chiarire perchè esso non potrebbe mai considerarsi "quale elemento di identificazione fisionomica della struttura dell’edificio finestrato", neanche indicando se tale pilastro si limiti o meno ad una sola funzione di sostegno, essendo le aree circostanti non costruite.

In definitiva, la motivazione della Corte territoriale fa riferimento alle conclusioni della c.t.u., ma non chiarisce, oltre quanto già riferito, le conclusioni assunte, specie a fronte dei motivi di impugnazione e delle posizioni delle parti.

Sotto tale profilo, quindi, sussiste un’evidente carenza motivazionale che esclude la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità avanzata dai resistenti quantomeno con riguardo al secondo motivo di ricorso, che lamenta appunto il riscontrato vizio di motivazione.

6. – In accoglimento di tale assorbente secondo motivo (vizio di motivazione), la sentenza impugnata va, quindi, cassata e rinviata alla Corte di appello di Bologna, che procederà ad una nuova valutazione delle risultanze della c.t.u. e chiarirà, con riguardo alle posizioni delle parti cristallizzate nel giudizio d’appello ed alla luce della normativa edilizia sopravvenuta applicabile al caso in questione, se – e in che misura – vi sia stata la lamentata violazione delle distanze. La Corte bolognese regolerà anche le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Cassa in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Bologna, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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