Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-05-2012, n. 8702

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 409/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Termini Imerese, rigettava la domanda proposta da B.M. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso per "esigenze eccezionali" ex art. 8 CCNL 1994 e acc. 25-9- 97 e succ., per il periodo 1-6-1999/30-10-1999 con la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato e con la condanna della società alla riammissione in servizio e al pagamento delle retribuzioni maturate.

La B. proponeva appello avverso la detta sentenza e la società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza depositata il 6-4-2006, in accoglimento dell’appello dichiarava l’illegittimità del termine apposto al contratto de quo e condannava la società a riammettere in servizio la B. e a pagarle le retribuzioni maturate a decorrere dalla notifica del ricorso introduttivo, con gli accessori.

Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso con otto motivi.

La B. ha resistito con controricorso.

Infine entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, in ragione dell’inerzia del lavoratore dalla scadenza del contratto alla notifica del ricorso introduttivo (8-2- 2003), sostenendo che in caso di prolungato disinteresse delle parti deve presumersi tale risoluzione "incombendo sul lavoratore l’onere di provare le circostanze atte a contrastare la predetta presunzione" e con il secondo motivo la ricorrente denuncia altresì vizio di motivazione sul punto.

Tali motivi sono infondati e vanno respinti.

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1- 2-2010 n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23-7-2004 n. 13891 e Cass. 6-7- 2007 n. 15264).

Orbene nella fattispecie la Corte d’Appello ha rilevato che "nella specie, da un lato nessuna prova è stata fornita al riguardo da Poste Italiane s.p.a.; dall’altro l’inerzia della lavoratrice dopo la cessazione dell’attività lavorativa è da attribuire, alla luce del successivo ricorso dalla medesima proposto all’autorità giudiziaria, ad una fiduciosa aspettativa di essere integrata a tempo pieno nell’organico dell’azienda o, quanto meno, di essere nuovamente destinataria di un altro contratto a termine, evenienza quest’ultima cui la società appellata ha fatto ricorso in varie occasioni", ciò tanto più alla luce della circolare della società che impediva la conclusione di ulteriori contratti con soggetti che avevano in atto un contenzioso con la società con riferimento a contratti precedenti.

Tale decisione è conforme ai principi sopra richiamati e resiste alle censure della ricorrente.

Con i successivi quattro motivi (dal terzo al sesto) la ricorrente censura sotto vari profili, la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine finale apposto al contratto de quo: in particolare con il terzo motivo si lamenta contraddittoria motivazione laddove da un lato viene affermata l’ampiezza della delega alla contrattazione collettiva nella individuazione delle ipotesi legittimanti il contratto e dall’altro viene richiesta l’introduzione di un limite temporale di validità; con il quarto motivo si deduce la mancanza di un tale limite temporale e con il quinto motivo si nega che un siffatto limite sia stato previsto dagli accordi collettivi succedutisi, i quali avrebbero avuto natura soltanto ricognitiva del perdurare della situazione in cui si trovava l’impresa e si lamenta violazione dei criteri ermeneutici nell’interpretazione degli stessi; con il sesto motivo si deduce insufficiente motivazione sul punto.

Su tali motivi osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v, Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011).

"Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In applicazione di tale principio vanno quindi respinti anche i motivi dal terzo al sesto, considerati unitariamente.

Con il settimo motivo denunciando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099 c.c., la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa "nella violazione dei principi e delle norme di legge sulla messa in mora e sulla corrispettività delle prestazioni", in particolare in quanto la Corte territoriale "ha considerato quale preteso atto di messa in mora della società, la notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado" che "non contiene alcuna offerta della prestazione di lavoro", ed altresì ha omesso di accertare se ed in che misura la B. avesse svolto ulteriori e successive attività lavorative, in ordine alle quali la società, "al di là" delle richieste avanzate di informazioni presso l’UPLMO e di esibizione dei modelli 740 della lavoratrice, "non poteva essere in grado di produrre o provare alcunchè".

La ricorrente formula, quindi, ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis, il seguente quesito di diritto:

"Dica la Suprema Corte adita: se in applicazione del principio di sinallagmaticità che disciplina il rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, l’accertamento della nullità dell’apposizione del termine comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni per l’intervallo in cui non ha reso la prestazione e se dalle somme dovute a titolo risarcitorio ed in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 c.c. e segg. e dell’art. 2043 c.c. e segg., in quanto dai primi richiamati, devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso della ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale graverebbe conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa".

Osserva il Collegio che tale quesito risulta del tutto astratto e privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, in quanto si risolve soltanto nella mera enunciazione astratta del principio invocato dalla ricorrente, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto rispetto ad esso del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. Cass. 4-1-2011 n. 80 e Cass. 29-4- 2011 n. 9583, nonchè, in particolare sul medesimo quesito, Cass. 7-4- 2011 n. 7955, Cass. 1-9-2011 n. 17975).

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare "deve comprendere l’indicazione sia della "regola iuris" adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo" e "la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile" (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339, v. anche Cass. 20-6-2008 n. 16941).

Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Mancando tali elementi il quesito in esame deve ritenersi inammissibile.

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente riporti il contenuto del ricorso introduttivo, quantomeno nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che il lavoratore avesse chiaramente "offerto le proprie prestazioni lavorative al datore di lavoro".

Per la stessa ragione risulta infine inammissibile l’ottavo motivo, con il quale la ricorrente lamenta vizio di motivazione sul punto, senza riportare il contenuto dell’atto che secondo il suo assunto non avrebbe integrato la messa in mora ravvisata dalla Corte di merito.

Così risultati inammissibili gli ultimi due motivi, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della B..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla B. le spese, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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