Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-05-2012, n. 8690

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

E.P. ha proposto opposizione avverso la cartella esattoriale con la quale gli era stato intimato il pagamento in favore dell’INPS della somma di Euro 71.252,92 a titolo di contributi previdenziali dovuti in relazione alla posizione di alcuni lavoratori che, secondo gli accertamenti compiuti dall’Istituto, avevano prestato la propria attività lavorativa alle sue dipendenze con tutte le caratteristiche proprie del rapporto di lavoro subordinato.

Il Tribunale di Trento ha respinto l’opposizione con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello della stessa città, che ha ritenuto che, alla stregua di una valutazione delle effettive modalità di svolgimento dei singoli rapporti di lavoro, al di là della formale qualificazione delle parti in sede di conclusione del contratto, tutti i rapporti in questione si fossero effettivamente svolti in regime di subordinazione, non rilevando in contrario che, in relazione ad uno dei lavoratori, fosse stata esclusa in sede penale la responsabilità del ricorrente, nè che con altri lavoratori fosse stato stipulato, a suo tempo, un contratto di associazione in partecipazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione E.P. affidandosi a cinque motivi di ricorso cui resiste con controricorso l’INPS (anche quale mandatario della SCCI spa).

La Uniriscossioni spa non ha svolto attività difensiva.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si denuncia l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione, nonchè la violazione del principio del contraddittorio, nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto l’irrilevanza dell’assoluzione dell’imputato in sede penale sul rilievo di un contrasto tra dispositivo e motivazione che nessuna delle parti aveva dedotto, chiedendo a questa Corte di stabilire "se sia ammissibile o meno che il giudice esamini fatti e circostanze nuove, ma dedotti da alcuna delle parti". 2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 652 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire "se sia ammissibile che, esclusa in sede penale la responsabilità di un soggetto, per non avere commesso il fatto, il medesimo debba essere chiamato a rispondere in sede civile, come se lo avesse commesso". 3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 652 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, chiedendo alla Corte di stabilire "se sia ammissibile che un fatto accertato in sede penale, sia escluso dal giudice civile. E se sia ammissibile fondare la decisione su un dato di fatto inesistente". 4.- Con il quarto motivo si deduce l’inesistenza della motivazione in relazione alla posizione di un lavoratore con il quale era intervenuta una conciliazione per effetto della quale la sussistenza del rapporto di lavoro era stata circoscritta ad un periodo ben determinato, escludendola in periodi diversi.

5.- Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 2549-2552 c.c., nonchè vizio di motivazione, per quanto concerne la posizione di altri lavoratori con il quali era stato stipulato un contratto di associazione in partecipazione, chiedendo a questa Corte di stabilire "se sia ammissibile che il giudice esamini un contratto di natura privatistica, lo interpreti e lo qualifichi, a prescindere da qualsiasi prospettazione o impugnazione delle parti". 6.- Il ricorso deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

7.- Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010).

Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione". Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr, ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

8.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell’art. 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall’esposizione del motivo di ricorso, nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). E’ stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l’individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009); per gli stessi motivi, il quesito di diritto non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla S.C. di stabilire se sia stata violata o meno una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve poi investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto (Cass. n. 1285/2010, Cass. n. 4044/2009).

9.- Nella specie, i quesiti formulati da parte ricorrente, e sopra riportati, non risultano in alcun modo adeguati a recepire l’iter argomentativo che supporta le singole censure per l’assoluta genericità e inidoneità dei quesiti stessi a evidenziare il nesso tra la fattispecie concreta e il principio di diritto di cui si chiede l’enunciazione, oltre che per la totale carenza di qualsiasi elemento idoneo a consentire al giudice di legittimità l’immediata individuazione della questione sulla quale è chiamato in concreto a pronunciarsi e a esercitare la propria funzione nomofilattica; e tutto ciò a prescindere dalla pur di per sè assorbente considerazione che l’art. 652 c.p.p. regola l’efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno, sicchè i richiami alla suddetta norma operati dal ricorrente con il secondo e il terzo motivo appaiono del tutto inconferenti, trattandosi di fattispecie in cui non si controverte nè in tema di restituzioni nè in tema di risarcimento del danno.

9.- Anche le dedotte carenze motivazionali, del resto, non appaiono sufficientemente individuate e precisate con i singoli motivi di impugnazione nel senso che si è sopra indicato, ovvero mediante la necessaria indicazione del fatto controverso in una parte del motivo che costituisca un momento di sintesi del complesso degli argomenti critici sviluppati nell’illustrazione dello stesso motivo e delle ragioni per le quali tali carenze dovrebbero rendere la motivazione inidonea a giustificare la decisione; dovendo rimarcarsi, peraltro, che, come questa Corte ha costantemente ribadito, il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito – poichè in questo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione – ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 18885/2008, Cass. n. 6064/2008), ipotesi questa che non è riscontrabile nella fattispecie in esame, per avere la Corte territoriale motivato il proprio convincimento in ordine alla natura dei rapporti di lavoro in contestazione sulla base di una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, assegnando, con ragionamento logico e coerente – oltre che rispettoso dei principi giuridici costantemente affermati in materia da questa Corte: cfr. ex plurimis Cass. n. 12581/2002, Cass. n. 7931/2000 e, per quanto riguarda in particolare la fattispecie del contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, Cass. n. 24871/2008 – valore preminente, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, agli elementi desumibili dal comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto medesimo piuttosto che alla formale qualificazione delle parti in sede di conclusione del contratto.

10.- Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.

11.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente nei confronti dell’Inps. Non deve provvedersi in ordine alle spese nei confronti della società Uniriscossioni spa, che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Inps liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge; nulla per le spese nei confronti della intimata.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *