Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-05-2012, n. 8687 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 1 agosto 2009 la Corte d’Appello di Brescia, respingeva il gravame svolto da Poste italiane s.p.a contro la sentenza di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da G.G., aveva dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti stipulati con la predetta società a partire dal 4 dicembre 1998, a norma dell’accordo sindacale già scaduto nell’aprile 1998, sul presupposto che non vi fosse la prova che l’assunzione era stata motivata da esigenze eccezionali anzichè da normali sostituzioni di personale assente per ferie o malattia.

2. Il lavoratore deduceva la nullità del termine apposto ai vari contratti a termine stipulati a partire dal 4 dicembre 1998, il primo dei quali motivato, ai sensi dell’art. 8 CCNL 1994 come integrato dall’accordo del 25 settembre 1997, da esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali.

3. Il primo Giudice riteneva ingiustificata l’apposizione del termine al primo contratto.

4. Il lavoratore proponeva gravame.

5. La Corte territoriale riteneva non assolto, dalla società, l’onere probatorio in ordine all’effettiva ricorrenza delle esigenze eccezionali indicate nel contratto individuale e dimostrata, dalle risultanze di causa, l’utilizzazione del lavoratore per sostituire personale assente; escludeva la risoluzione del contratto per mutuo consenso, in difetto di atti univocamente significativi dell’intenzione di rinunciare; infine, riteneva infondata l’eccezione di nullità dell’intero contratto.

6. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la s.p.a.

Poste italiane ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi, illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c. con la quale ha invocato l’applicazione dello ius superveniens. L’intimato ha resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità ed infondatezza del ricorso.

Motivi della decisione

7. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione indicando, quale fatto controverso e decisivo per il giudizio, "l’autonomia che, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 è riconosciuta alle parti collettive nel determinare le ipotesi in cui è possibile stipulare contratti a termine" e denuncia l’evidenza dell’error in procedendo per aver la corte di merito ammesso e negato la pienezza dell’autonomia delle parti sociali.

8. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente, denunciando violazione della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e carenza di motivazione, si duole che la corte di merito abbia ritenuto necessarie le concrete ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine collegate alla sede di lavoro del G., escludendo la possibilità di stipulare contratti a termine in assenza di prova della ristrutturazione del singolo ufficio di assegnazione del dipendente, richiedendo un elemento in più non inserito nella clausola convenzionale.

9. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 2, si duole che la corte di merito abbia disatteso l’eccezione di scioglimento del rapporto di lavoro, non considerando che l’inerzia del lavoratore è elemento significativo quando ha durata congrua. Assume, inoltre, di aver formulato, fin dalla memoria difensiva, deduzioni istruttorie, non accolte, per l’esibizione, da parte del lavoratore, della documentazione idonea all’accertamento dei redditi percepiti dal 2000 in poi.

10. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094, 2099, 2697c.c, censura la sentenza per aver ritenuto atto di messa in mora la lettera di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, nè a tal fine rileverebbe il deposito del ricorso. Assume che il convenuto avrebbe diritto alle retribuzioni, a titolo risarcitorio, solo dal momento dell’effettiva ripresa del servizio e che comunque risultano violati i principi in tema di onere probatorio per essere stato riconosciuto il risarcimento del danno pur non sussistendo alcuna prova dell’inadempimento e del danno.

11. Per ragioni di consequenzialità logica deve darsi ingresso preliminare alla trattazione del terzo motivo inerente alla risoluzione del contratto per mutuo consenso, rilevando l’inadeguatezza della censura giacchè la società anzichè dolersi dell’asserita erroneità della soluzione sotto il profilo della violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 avrebbe dovuto svolgere argomenti critici sul piano logico e motivazionale della decisione.

12. Passando all’esame del primo motivo, va rilevata l’inammissibilità anche del predetto motivo giacchè la censura prospettata involge, nella sostanza, la violazione della contrattazione collettiva da devolvere alla Corte sotto il profilo della violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, e non già una questione di fatto, censurabile in sede di legittimità per vizio motivazionale, ove per "fatto controverso e decisivo" la ricorrente ha preteso di indicare l’"autonomia che, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 è riconosciuta alle parti collettive nel determinare le ipotesi in cui è possibile stipulare contratti a termine". 13. E veniamo alla principale e assorbente censura della ricorrente, concernente le ragioni giuridiche in forza delle quali la Corte territoriale ha ritenuto l’illegittimità del termine.

14. Osserva il Collegio che, in primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 4588/2006, questa Corte ha affermato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle: parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, Cass. 20- 4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011).

15. "Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato" (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

16. In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8- 2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

17. In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, da ultimo, Cass. 1411/2012 e numerosi precedenti).

18. Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998, in quanto privi di presupposto normativo.

19. Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

20. Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero "senza senso" (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

21. Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate: senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica, di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

22. Deve dunque affermarsi che la sussistenza delle esigenze eccezionali è stata negozialmente riconosciuta dalle parti stipulanti nel periodo temporale limitato alla data del 30.4.98 e che, conseguentemente, la legittimità dei contratti a termine stipulati entro tale data è basata su una ricognizione di fatto derivante direttamente dal sistema normativo nato dall’attuazione dell’art. 23, che esclude l’onere di Poste Italiane di dare prova di una specifica e concreta esigenza, mentre per i contratti a termine stipulati, come nella specie, dopo tale data, l’assunzione a termine dopo quella scadenza non è supportata dallo strumento derogatorio.

25. Tanto premesso, le ragioni poste dalla Corte di merito a base del decisum, fondate sull’assunto secondo cui non sarebbe consentito autorizzare un datore di lavoro ad avvalersi liberamente del tipo contrattuale del lavoro a termine ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. del 1994 e successivi accordi attuativi, senza l’individuazione di ipotesi specifiche di collegamento tra contratti ed esigenze aziendali cui sono strumentali e senza che il datore di lavoro abbia assolto l’onere probatorio della riconducibilità della singola assunzione alla ristrutturazione aziendale menzionata dalla contrattazione collettiva, si pongono in palese violazione dei principi affermati da questa Corte.

24. Il secondo motivo di censura coglie, pertanto, nel segno giacchè, diversamente da quanto statuito dalla Corte territoriale che non pone in discussione la validità della clausola ex art. 8 CCNL 1984 ma correda la relativa applicazione della prova della necessaria esigenza in concreto dell’assunzione a cagione: della riorganizzazione, rileva il Collegio che ai fini della prova della giustificazione del termine in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23 è sufficiente, da parte del datore di lavoro, la prova della sussistenza delle esigenze di carattere generale dedotte nella clausola convenzionale collettiva richiamata nel contratto individuale, senza dover provare l’esigenza in concreto, id est della singola sede o ufficio cui il dipendente sia addetto, di un processo di riorganizzazione collegato al più ampio processo di riorganizzazione su scala nazionale e il relativo nesso di causalità con la singola assunzione.

25. Passando ai profili economici conseguenti alla dichiarazione di illegittimità del termine, così passando all’esame del quarto motivo, osserva il Collegio che l’applicabilità, nella specie, dello ius superveniens ( L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e ,7) ha reso ormai irrilevante ogni discorso sulla mora accipiendi del datore di lavoro in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, poichè detta norma prevede una tutela risarcitoria quantificata secondo parametri diversi.

26. Così recitano le disposizioni di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7 richiamate dalla società nella memoria ex art. 378 c.p.c.: "5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8. 6. In presenta di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o attendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. 7.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudici, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudici, ove necessario, ai soli, fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.". 27. La disciplina de qua, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (sul punto v. Cass. ord. 2112/2011), come è stato già affermato da questa Corte (v., fra le altre, Cass. 3056/2012, Cass. 1411/2012, Cass. 1409/2012), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad "introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione", rispetto alle "obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente". 28. La norma, che "non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato", in base ad un’"interpretazione costituzionalmente orientata", va intesa nel senso che "il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto", con la conseguenza che, a partire da tale sentenza, "è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva" (altrimenti risultando "completamente svuotata" la "tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato").

29. Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte costituzionale, il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum, sicchè l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria ed è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione.

30. In definitiva la norma in oggetto, come affermato dal Giudice delle leggi, risulta "adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi". Infatti, al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità nè dell’offerta della prestazione, nè di oneri probatori di sorta.

Al datore (di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die.

31. Peraltro la Corte Costituzionale (richiamando le proprie precedenti pronunce: sent. nn. 298/2009, 86/2008, 282/2007, 354/2006, ord. n. 102/2011, 109/2010 e 125/208) ha escluso "che inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l’eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziali)" possano rilevare al fini del giudizio di legittimità costituzionale. Del resto circa le "presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine" la Corte Costituzionale ha rilevato non solo che "il processo è neutro rispetto alla tutela offerta", ma anche che "l’ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonchè gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89". 32. Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che "la garanzia economica in questione non è nè rigida, nè uniforme" e, "anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti intangibili in caso di prosecuzione: del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonchè le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti". 33. A tale interpretazione adeguatrice, indicata (con sentenza interpretativa di rigetto) dal Giudice delle leggi come conforme a Costituzione, con riferimento agli artt 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, comma 1, il Collegio, condividendo le argomentazioni sulla ratio della norma e sullo sviluppo dell’operazione ermeneutica, intende aderire, non ravvisando, nel contempo, una diversa interpretazione che sia patimenti non solo rispettosa della Costituzione ma anche del tutto conforme alla lettera e alla ratio della norma stessa (cfr.

Cass. 166/2004, Cass. 1581/2010).

34. Così intesa, in sostanza come una sorta di penale stabilita dalla legge – in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro – a carico del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall’esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore (e da ogni onere probatorio al riguardo), sia dalla messa in mora del datore di lavoro, con carattere "forfetizzato", "onnicomprensivo" di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto, l’indennità in esame appare non solo conforme alla Costituzione (ai sensi di Corte cost. 303/2011 cit.), bensì anche pienamente rispondente alla lettera e allo spirito della legge.

35. Altre interpretazioni, che in qualche modo riducano o eliminino il predetto carattere "onnicomprensivo" dell’indennità, ovvero ne delimitino ulteriormente il periodo di "copertura", in ragione di elementi (come la messa in mora o l’epoca della domanda) estranei alla fattispecie legale (al pari di quelle, opposte, estensive del periodo medesimo), risulterebbero travalicare i detti fondamentali criteri ermeneutici.

36. Orbene, tale normativa sopravvenuta va applicata nel caso in esame, per quanto il tenore testuale del cit. art. 32, comma 5 – riferendosi alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa Corte.

37. Una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost n. 214/2009 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quell’occasione si trattava del D.Lgs. n. 368 cit., art. 4 bis introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, comma 1 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133), a fortiori lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3 Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità. 38. Nè la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.

39. In proposito si muova dalla rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

40. In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma.

41. In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell’art. 32, comma 5 cit.) che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, secondo periodo.

42. Indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. art. 437 c.p.c., comma 2 poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per sltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase.

43. Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437 c.p.c. o come divieto di applicazione dell’art. 32, comma 5 ai giudizi pendenti in appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto), è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo) valorizzando l’inciso "ove necessario" e il valore disgiuntivo/inclusivo (di operatore logico booleano "Or") della congiunzione che precede l’ultima proposizione del cit. art. 32, comma 7 ("ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.").

44. L’inciso "ove necessario" dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice dell’interprete.

45. Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, mentre in appello – proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno consentiti solo questi ultimi.

46. In conclusione, deve ribadirsi che il combinato disposto del cit. art. 32, commi 5 e 7 è applicabile anche in sede di legittimità (v., da ultimo, Cass. 3305/2012).

47. Ne consegue l’accoglimento del secondo e del quarto motivo nei sensi di cui in motivazione e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, affinchè determini il risarcimento dovuto al G. in una misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo e il quarto motivo del ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motiva accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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