Cassazione civile anno 2005 n. 1067 Domande nuove Azioni a difesa della proprietà

APPELLO CIVILE PROPRIETA’ E CONFINI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato in data 9 dicembre 1988 X X conveniva in giudizio dinanzi al pretore di Vicenza, sez. distacc. di X, X X, e premesso:
che e proprietario di un fabbricato con annesso cortile, sito nel Comune di Villaverla, via XXV Aprile, contrassegnato in catasto al foglio 11, mappale n. 237;
che confinante con questo immobile si trova altro fabbricato di proprietà di X, distinto in catasto al foglio 11, particella 392;
che il convenuto aveva aperto una veduta sul muro di questo prospiciente il suo cortile in modo abusivo;
tutto ciò premesso, l’attore chiedeva che il giudice condannasse la controparte ad eliminare tale apertura col ripristino dello "status quo ante", o quanto meno a ridurla alle caratteristiche di luce, oltre al rimborso delle spese del giudizio.
X si costituiva con comparsa di risposta, contestando quanto "ex adverso" dedotto. In particolare eccepiva in via pregiudiziale l’incompetenza per valore del giudice adito. Nel merito deduceva che in virtù di una convenzione intervenuta tra le parti il 16 marzo 1985, egli aveva il diritto di aprire la finestra sul muro del suo fabbricato, come peraltro il medesimo attore aveva riconosciuto con la stessa. In ogni caso il diritto di che trattasi era ormai acquisito in forza di usucapione, giacchè, anche prima della convenzione richiamata, nello stesso punto del muro si trovava un’apertura, attraverso la quale era possibile sporgersi. Chiedeva quindi il rigetto della domanda "ex adverso" proposta.
Il pretore, istruita la causa anche mediante l’assunzione della prova per testimoni addotta, accoglieva la domanda dell’attore, e condannava il convenuto a ridurre l’apertura alle caratteristiche di luce.
Avverso la relativa sentenza X proponeva gravame dinanzi al competente tribunale di Vicenza, il quale, con sentenza del 3 marzo 2001, in parziale riforma di quella impugnata, ha dichiarato che l’appellante non ha alcun diritto di servitù di veduta, bensì di luce; lo ha condannato a rendere l’apertura conforme alle prescritte caratteristiche, collocandovi un’inferriata, e a non munirla di grata con maglie maggiori di tre centimetri quadrati, ponendo le spese del grado a carico del medesimo. In particolare il giudice del riesame ha osservato che in virtù della convenzione intervenuta tra le parti in realtà era stata costituita una servitù di luce, e che in precedenza non ci fosse stata quella dedotta di veduta. Nè mai questa sarebbe maturata per il decorso del prescritto termine ventennale, atteso che la causa era stata promossa solo nel 1988.
Avverso tale sentenza X ha proposto ricorso per Cassazione, sulla base di quattro motivi.
X resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno illustrato le loro censure, osservazioni e deduzioni con memoria.

Motivi della decisione
Col primo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 901, 1362, 1364 e 1371 cc, con riferimento all’art. 360, n. 3 c.p.c., in quanto il tribunale non avrebbe considerato che con la scrittura del 18 marzo 1985 egli non avrebbe rinunciato al diritto di pretendere che la controparte riducesse l’apertura alle caratteristiche di luce, ma avrebbe solamente dato il consenso affinchè il resistente collocasse una inferriata sopra il manufatto.
Il motivo è privo di fondamento.
Infatti il tribunale ha interpretato la convenzione di che trattasi nel senso che le parti avevano costituito una servitù di luce, come del resto lo stesso ricorrente voleva. Non si vede perciò per quale ragione egli si dolga.
2) Col secondo motivo il ricorrente lamenta ancora violazione dell’art. 1362 cc, nonchè insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., atteso che il giudice del riesame non avrebbe considerato che con la scrittura di che trattasi il ricorrente dava il consenso a munire l’apertura di un’inferriata, ma non rappresentava alcuna rinuncia per lui, qualora l’avesse voluto, ad ottenere l’adeguamento di essa alle altre caratteristiche previste dall’art. 901 cc. Tale censura è infondata.
Invero il tribunale ha rilevato che, come risulta dal testo letterale del documento del marzo 1985, le parti si erano richiamate espressamente a una luce, dal momento che, giusta anche le risultanze delle prove orali acquisite, il muro del mappale 392 era stato innalzato di altri due metri, risultando alto m. 5 dal suolo, e quindi la collocazione dell’inferriata altro non rappresentava che un elemento necessario per le aperture di luce. Altrimenti la sottoscrizione della dichiarazione invocata da parte di X non avrebbe avuto alcun senso.
Orbene questa Corte rileva inoltre che si tratta di valutazione della convenzione, condotta con criterio logico-giuridico corretto.
Nè è possibile, in sede di legittimità, prospettare una differente valutazione della volontà negoziale delle parti, rispetto al vaglio fattone dal giudice di merito.
In proposito invero il Supremo Collegio ha statuito più volte che "l’accertamento del giudice del merito in ordine agli elementi che caratterizzano l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un certo contratto e la valutazione delle prove si traducono in una indagine di fatto riservata al giudice del merito, sicchè le relative valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e, per quanto concerne i contratti, per violazione dei canoni legali di interpretazione" (V. SENT. 15410 DEL 02/12/2000; SENT. 04342 DEL 26/03/2001).
Su tale punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo sufficiente, oltre che giuridicamente corretto.
3) Col terzo motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 345 c.p.c., nonchè degli artt. 100, 132, 191 e 196 c.p.c., oltre che omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, relativamente all’art. 360, nn. 3 e 5 del codice di rito, dal momento che il tribunale non avrebbe indicato le ragioni, in virtù delle quali non avrebbe delibato in ordine alla domanda subordinata di acquisto della servitù di veduta per usucapione da parte del resistente, e sulla quale egli non aveva accettato il contraddittorio. Peraltro essa era nuova, e pertanto non poteva essere proposta per la prima volta in appello.
Il motivo è privo di pregio.
Il giudice di appello ha messo esattamente in evidenza che sin dal primo atto difensivo, e cioè con la comparsa di risposta, X aveva formulato in via subordinata più che una domanda, una eccezione riconvenzionale, mediante la quale deduceva che, ove mai il diritto di veduta non fosse stato riconosciuto in forza della convenzione, la relativa servitù sarebbe stata da lui acquisita comunque in virtù dell’usucapione, maturata per il tempo di trent’anni, in cui aveva mantenuto la relativa apertura sul muro.
Questa osservazione è corretta, atteso che già il relativo "thema decidendum" comunque risultava introdotto nel processo, ancorchè in via subordinata. In ogni caso il "petitum" era rimasto sempre lo stesso, e non importa il titolo su cui esso si fonda, dal momento che a tal fine quello che rileva è la medesimezza dell’oggetto della domanda, a prescindere dalla fonte da cui esso derivi, versandosi in tema di diritti autodetermina.
Questo principio peraltro è stato più volte affermato dalla giurisprudenza, secondo cui "la "causa petendi" delle azioni a difesa della proprietà o della comproprietà, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, è lo stesso diritto vantato dall’attore e non il titolo che ne costituisce la fonte;
sicchè, la specificazione del modo di acquisto del diritto reale a difesa del quale si agisce non comporta, in quanto rivolta a determinare più compiutamente la "causa petendi", mutamento della domanda e della situazione giuridica con essa fatta valere e non dà luogo in appello alla proposizione di una domanda nuova, preclusa dall’art. 345 cod. proc. civ. (Cnfr. SENT. 05894 DEL 20/04/2001;
SENT. 15907 DEL 18/12/2000).
4) Infine col quarto motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 900, 901 e 949 cc, nonchè 345 c.p.c., oltre che omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5 del codice di rito, dal momento che il giudice del riesame non avrebbe specificato le ragioni, in virtù delle quali ha ritenuto la costituzione di una servitù di luce.
Questa censura rimane assorbita da quanto enunciato relativamente ai primi due motivi.
Ne deriva che il ricorso va rigettato.
Quanto alle spese di questa fase, sussistono giusti motivi per compensarle per intero tra le parti.

P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso, e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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