Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-06-2012, n. 8840

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Roma, confermando la statuizione di primo grado, rigettava la domanda proposta da S.D., dipendente della BNL fino al 31 marzo 1998, intesa ad ottenere la differenza di indennità di anzianità e di TFR con l’inclusione degli accantonamenti del 4% della retribuzione che la Banca versava sul conto di previdenza integrativa. In relazione al TFR, la Corte affermava che, con la dichiarazione in calce al CCNL del 1987, le parti avevano escluso dal computo le somme destinate ad interventi di carattere previdenziale ed assistenziale, onde il criterio generale dell’onnicomprensività era stato derogato dalla chiara manifestazione di volontà degli stipulanti, come consentito dalla L. n. 297 del 1982. Quanto poi alla indennità di anzianità maturata fino al 1982, che è per legge onnicomprensiva, la Corte rilevava che la inclusione richiesta non era consentita, non avendo i versamenti effettuati dalla Banca natura retributiva, ma natura e funzione oggettivamente previdenziale. La Corte Costituzionale infatti, con la sentenza n. 421 del 1995, scrutinando la conformità a Costituzione del D.L. n. 103 del 1991, art. 9 bis, convertito in L. n. 166 del 1991, aveva affermato che le contribuzioni datoriali, preordinate al finanziamento dei fondi di previdenza complementare, non possono più definirsi "emolumenti retributivi con funzione previdenziale", ma come contributi strutturalmente previdenziali, estranei alla nozione di retribuzione imponibile di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 12, assoggettabili alla sola contribuzione di solidarietà, il che peraltro era stato confermato dalla legislazione successiva ( L. n. 662 del 1996, e L. n. 124 del 1993). Inoltre, l’art. 8 dello Statuto del Fondo di previdenza integrativa poneva a carico della Banca un contributo ordinario pari al 4% della retribuzione globale annua dei partecipanti ed a carico di ciascun dipendente un contributo nella misura del 2% del proprio trattamento economico globale, contributo che la Banca tratteneva all’atto del pagamento delle retribuzioni. Si trattava dunque di Fondo a prestazione definita, in cui il contributo gravante sulla Banca, diversamente da quello gravante sul lavoratore, veniva determinato sull’ammontare annuo delle retribuzioni spettanti ai partecipanti, ed affluiva su un conto generale e non già su quello individuale di ciascun dipendente. Nè il medesimo contributo finanziava direttamente le singole pensioni integrative, ma assolveva a specifiche funzioni mutualistiche e solidaristiche, andando a coprire gli aumenti per i figli a carico e l’integrazione al minimo. Inoltre gli accantonamenti non venivano restituiti in caso di cessazione dal servizio senza diritto a pensione, ed, al riguardo, la Corte territoriale escludeva che il richiamo – fatto in appello dalla Banca all’art. 27 dello Statuto – costituisse eccezione nuova, trattandosi solo di argomentazione giuridica. Non vi erano quindi, da parte della Banca, versamenti di sorta su conti individuali e quindi non era applicabile la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia.

Infine, questo assetto non poteva considerarsi smentito dalla possibilità offerta eccezionalmente ai pensionati, per assicurare l’equilibrio finanziario della sezione A del Fondo, di risolvere il rapporto attraverso la corresponsione di un importo in capitale pari al 100% della riserva matematica.

Avverso detta sentenza il lavoratore soccombente ricorre con quattro motivi.

Resiste la BNL con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo mezzo si denunzia erronea interpretazione dei CCNL per il personale direttivo delle aziende di credito del 1987, del 1990 e del 1995, perchè, quale che fosse la disposizione contrattuale, prima dell’entrata in vigore della L. n. 297 del 1982, la onnicomprensività della retribuzione ai fini dell’indennità di anzianità non ammetteva deroghe ad opera della contrattazione collettiva. Inoltre, per il periodo successivo al 1982, il ricorrente critica l’interpretazione data dai Giudici di merito, alla dichiarazione di intenti riportata in calce al CCNL del 1987.

Con il secondo mezzo, denunziando violazione dell’art. 2120 cod. civ., della L. n. 153 del 1969, art. 12 e del D.L. n. 103 del 1991, art. 9 bis, insiste il ricorrente per la natura retributiva dell’accantonamento del 4% effettuato dalla Banca, trattandosi di erogazione non occasionale e continuativa costituente forma di arricchimento dei dipendenti, strettamente connessa al rapporto di lavoro.

Con il terzo mezzo si denunzia difetto di motivazione ed errata interpretazione dello Statuto del Fondo, nonchè violazione degli artt. 2251, 2262, 2263 cod. civ., perchè, il Fondo pensioni era una società semplice e, fino all’accordo del 2002, ciascun partecipante era quindi titolare di una quota dell’intero patrimonio proporzionato ai conferimenti; La Corte di merito avrebbe errato nell’affermare che i contributi versati dalla BNL al Fondo pensione affluenti sul Conto generale non entrano nella disponibilità dell’iscritto perchè avrebbe così violato le disposizioni sulla società semplice di cui agli artt. citati in epigrafe. La distinzione tra Conto generale e Conto individuale non avrebbe avuto alcuna rilevanza, nè prima nè dopo l’accordo del 2.8.2002, allorquando a ciascun iscritto venne attribuita una posizione individuale. L’esame delle disposizioni statutarie che impongono il trasferimento del saldo del conto individuale al conto generale, dimostrerebbe che non esiste differenza tra i due fondi, in quanto al partecipante è comunque dovuta la liquidazione dell’intero capitale sociale.

Con il quarto mezzo si denunzia difetto di motivazione sulla eccezione di tardività della deduzione svolta dalla BNL in appello sul fatto che il versamento datoriale non entra nella disponibilità del lavoratore, in quanto affluisce sul conto generale.

Il ricorso non merita accoglimento.

E’ sufficiente, per addivenire al rigetto, la conferma delle argomentazioni di cui alla sentenza impugnata sulla natura previdenziale e non retributiva dei versamenti (4%) che il datore di lavoro effettua presso il Fondo pensioni, senza necessità di esaminare il primo motivo di ricorso sul tenore della contrattazione collettiva, che, secondo la tesi del ricorrente, non derogherebbe al criterio generale di onnicomprensività della retribuzione ai fini del TFR ai sensi della L. n. 297 del 1982.

La natura previdenziale e non retributiva degli accantonamenti e quindi la loro "irriducibilità" a fungere da corrispettivo della prestazione lavorativa che ne meriti l’inclusione nelle indennità spettanti alla fine del rapporto, rende inutile esaminare anche le argomentazioni di cui al terzo e quarto motivo di ricorso, concernenti la regolamentazione del Fondo di previdenza integrativa, e quindi la distinzione tra conto personale e conto generale.

1. Recita l’art. 2120 cod. civ. in tema di indennità di anzianità, che, L. n. 297 del 1982, art. 5, è pur sempre in vigore per l’anzianità maturata prima del maggio 1982, a cui si aggiunge il TFR per il periodo successivo, che "L’ammontare dell’indennità è determinato… in base all’ultima retribuzione e in relazione alla categoria alla quale appartiene il prestatore di lavoro". L’art. 2121, precisa ancora che l’indennità deve essere computata "calcolando le provvigioni, i premi di produzione e la partecipazione agli utili o ai prodotti, ed ogni altro compenso di carattere continuativo con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese".

Pertanto la nozione di retribuzione delineata dal queste norme ("ultima retribuzione" e "compenso") presuppone che vi sia un effettivo passaggio di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore e che le somme erogate si trovino in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa; si deve quindi trattar di somme aventi carattere e funzione retributiva, e proprio

P.Q.M.

indennità vengono denominate come "retribuzione differita". 2. La indennità di anzianità e il TFR, devono quindi "rispecchiare" il trattamento economico "corrisposto" durante lo svolgimento del rapporto medesimo, avendo la funzione di essere d’ausilio al lavoratore nel periodo in cui, cessato il rapporto di lavoro, viene meno il diritto alla retribuzione che prima veniva percepita, sicchè sarebbe incongrua la inclusione di somme di cui durante lo svolgimento non si è mai goduto.

Ebbene, i versamenti effettuati dalla Banca a favore del Fondo, mai sono stati "corrisposti" ai dipendenti, nè dovevano esserlo, pena, ovviamente, la impossibilità di funzionamento del Fondo medesimo.

3. Trattandosi, ed è pacifico, di fondo di previdenza integrativa, i versamenti erano preordinati non certo all’immediato soddisfacimento del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, sono stati, e dovevano essere, accantonati e non direttamente corrisposti, per garantire il trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, o in caso di invalidità sopravvenuta, secondo le condizioni previste dal relativo statuto e con divieto di distrazione ai sensi dell’art. 2117 cod. civ..

Vero è infatti che ai diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro accede, in questi casi, un ulteriore rapporto contrattuale, che obbliga il datore ai versamenti per garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa di quella obbligatoria.

Questo ulteriore rapporto costituisce un indubbio beneficio per il lavoratore, il quale però non altera, nè modifica, nè si compenetra con i diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, ed in particolare, non incide sulle modalità di erogazione delle indennità ricollegate alla fine del rapporto medesimo.

4. Il beneficio, che al lavoratore apporta il rapporto di previdenza integrativa, non è costituito dai "versamenti" effettuati dal datore, ma dalla pensione che con essi verrà conseguita.

La contribuzione infatti, data la funzione del Fondo, per sua natura, non può entrare nel patrimonio dei lavoratori interessati, i quali possono solo pretendere che venga versata al soggetto indicato nello Statuto. Il lavoratore non la riceve nè nel corso del rapporto, nè alla sua cessazione, essendo solo il destinatario di una aspettativa a trattamento pensionistico integrativo, che si concreterà esclusivamente al maturarsi di certi requisiti e condizioni.

Il rapporto di previdenza integrativa ha certamente come necessario presupposto l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, ma ha poi regole proprie, tra le quali quella essenziale è certamente l’obbligo del versamento, a carico del datore di una contribuzione, ed a favore non certo del lavoratore ma, necessariamente, a favore del soggetto onerato della prestazione integrativa.

Questo obbligo non può quindi "rifluire" sul rapporto di lavoro ed alterarne la fisionomia, perchè non è in nesso di corrispettività diretta con la prestazione lavorativa.

La prova evidente della autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare emerge considerando che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa, perchè non si sono verificati i requisiti prescritti, il dipendente nulla ha diritto di ricevere.

L’obbligazione che il datore assume con il sistema di previdenza integrativa, inoltre, non è "monetizzabile" direttamente nei confronti del lavoratore, a differenza di altri benefit, come il servizio mensa o il servizio trasporto che il datore può scegliere o di organizzare direttamente o garantire con il rimborso del relativo costo a mani del dipendente.

Ed ancora, mentre questi benefit vengono erogati durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, il trattamento integrativo, ossia la pensione di anzianità o di vecchiaia, o anche quella di invalidità, presuppone la cessazione del rapporto di lavoro.

La natura previdenziale e non retributiva vale, per le considerazioni sopra espresse, qualunque sia il soggetto destinatario della contribuzione, sia che questo abbia una personalità giuridica autonoma, sia che si tratti, come accadeva talvolta per i fondi preesistenti al D.Lgs. n. 124 del 1993, di una gestione separata nell’ambito dello stesso soggetto datore di lavoro.

5. Il carattere non retributivo dei versamenti effettuati dal datore per la previdenza integrativa è avvalorato dal regime previdenziale che li governa.

L’annosa vicenda è nota e si può riassume come segue: sull’obbligo (invero da molti contestato), previsto dalla L. 12 aprile 1969, n. 153, art. 12, di includere nella retribuzione imponibile ai fini previdenziali anche i contributi versati dai datori di lavoro per trattamenti di previdenza integrativa, istituiti da contratti collettivi anche aziendali o da regolamenti, il legislatore intervenne con il D.L. n. 103 del 1991, art. 9 bis, introdotto in sede di conversione dalla L. n. 166 del 1991. 5.1. Con tale disposizione, definita di interpretazione autentica, si stabili: a) che l’art. 12 citato doveva essere interpretato nel senso che fossero escluse, dalla base imponibile dei contributi di previdenza e assistenza sociale, le contribuzioni e somme versate o accantonate per il finanziamento dei trattamenti integrativi previdenziali o assistenziali; b) che restavano salvi i versamenti effettuati anteriormente all’entrata in vigore della legge; c) che dal primo periodo di paga successivo all’entrata in vigore della nuova normativa, per le contribuzioni o le somme destinate al finanziamento dei trattamenti integrativi era dovuto, ad esclusivo carico dei datori di lavoro, un contributo di solidarietà del dieci per cento in favore delle gestioni pensionistiche di legge cui erano iscritti i lavoratori.

5.2. Fu sollevata questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, del citato del D.L. n. 103 del 1991, art. 9-bis, comma 1, secondo periodo, nella parte in cui disponeva che per i contributi versati anteriormente all’entrata in vigore di tale norma valesse il principio della soluti retentio in favore delle gestioni degli istituti ed enti previdenziali esercenti la previdenza e l’assistenza obbligatorie.

Con la sentenza n. 421 del 1995, la Corte Costituzionale, nel motivare la statuizione di accoglimento, individuò i principi costituzionali cui il legislatore avrebbe dovuto uniformarsi nel disciplinare la materia.

Il Giudice delle leggi definì la norma non di interpretazione autentica, bensì innovativa "con efficacia retroattiva" e rilevò che non era la retroattività a determinarne l’illegittimità, quanto piuttosto l’aver essa stabilito per gli inadempienti l’esonero totale dal versamento dei contributi senza alcuna "contropartita", in contrasto con il principio di razionalità-equità ( art. 3 Cost.) coordinato con il principio di solidarietà ( art. 2 Cost.) col quale deve integrarsi l’interpretazione dell’art. 38 Cost., comma 2. 5.3. Con tale pronuncia, chiarita dalla successiva sentenza n. 178/2000, la Corte ha affermato che, per rendere la normativa esaminata conforme alla Costituzione, sarebbe stata necessaria l’istituzione anche per il passato di una contropartita analoga al contributo di solidarietà, idonea a dare ragione dell’esonero dalla contribuzione in favore della previdenza obbligatoria. In ottemperanza alla suindicata decisione, i commi 193 e 194, art. 1, L. 23 dicembre 1996, n. 662, hanno nuovamente disciplinato la materia.

Con la prima delle citate disposizioni è stato riprodotto, privandolo della definizione di interpretazione autentica, il D.L. n. 103 del 1991, art. 9-bis, comma 1; con la seconda è stato istituito per il passato il richiesto contributo di solidarietà. 5.4. In conclusione la Corte Costituzionale ha affermato che il legislatore ha inserito la previdenza integrativa nel sistema dell’art. 38 Cost., per cui le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi "emolumenti retributivi con funzione previdenziale", ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale.

5.5.. Va così definitivamente stabilito che i versamenti effettuati dal datore ai fondi di previdenza complementare, quali che siano i lineamenti del Fondo – e quindi ciò vale anche per i fondi costituiti all’interno stesso del datore di lavoro, non aventi soggettività giuridica autonoma – non sono assoggettati a contribuzione Inps ma solo ad un contributo di solidarietà (valido a regime e riferito anche al passato ma solo per gli anni dal primo settembre 1985 al 30 giugno 1991), così escludendosi che questi abbiano natura retributiva.

Si badi poi che l’esonero dalla contribuzione AGO non vale solo per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.L. n. 103 del 1991, ma anche anteriormente, fin dall’inizio della istituzione di detti fondi, stante il carattere retroattivo di questa disposizione. Quindi i predetti contributi hanno, ed hanno sempre avuto, natura previdenziale e non retributiva. onde è infondata la pretesa al loro inserimento nelle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro.

Va ancora considerato che i versamenti effettuati dal datore alle forme pensionistiche complementari non concorrono neppure a formare il reddito da lavoro dipendente, ai sensi del D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 3, comma 2, lett. a).

6. E’ pur vero che la giurisprudenza di questa Corte si era orientata in senso contrario, a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 974/97 (seguita da numerose altre, cfr. da ultimo Cass. 13558/2001).

Con dette pronunzie si è fatto riferimento ad un’ampia nozione di retribuzione che consentirebbe di distinguere fra le erogazioni corrispettive in senso stretto, adeguate perciò inderogabilmente alla quantità e qualità di lavoro, e quelle con funzione previdenziale o assistenziale.

Ma la evoluzione della legislazione successiva, in specie appunto l’esonero dalla contribuzione ordinaria dei versamenti effettuati dal datore per la previdenza integrativa, esonero che vale anche per il passato stante il suo carattere retroattivo, convince della necessità di superare questo orientamento, considerato anche il rilievo sempre maggiore attribuito dal legislatore alle forme integrative di previdenza, che si considerano ormai rientrare nell’alveo dell’art. 38 Cost.. Detta evoluzione, attraverso le numerose norme emanate ( D.Lgs. n. 124 del 1993 e D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252) ha ormai marcato irreversibilmente la distinzione tra trattamenti retributivi e accreditamenti per la previdenza integrativa.

E d’altra parte sarebbe incongruo riconoscere natura retribuiva, tale quindi da determinarne la inclusione nel computo delle indennità spettanti alla fine del rapporto, a somme mai erogate durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, su cui non si versa la contribuzione previdenziale obbligatoria, e che non entrano neppure tra i redditi da lavoro dipendente ai fini fiscali.

7. Mette conto infine di segnalare la recente legislazione sul rapporto tra previdenza complementare e TFR, che si compendia ai commi 755 e 756 dell’articolo unico della Legge Finanziaria n. 296 del 2006. Si tratta delle disposizioni che prevedono il conferimento del TFR alla previdenza complementare: all’esito della parabola sopra illustrata non sono dunque i versamenti contributivi per la previdenza complementare che vengono inclusi nel TFR, ma è quest’ultimo che serve ad alimentare la previdenza complementare.

Ai sensi di questa norme le quote di TFR che matureranno dal primo gennaio 1997 verranno versate presso le forme pensionistiche complementari di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. Più precisamente ciò accadrà ove i lavoratori manifestino detta opzione, mentre, in mancanza di opzione, nelle aziende con meno di 50 addetti, il TFR maturando resterà come prima presso i datori di lavoro, mentre nelle aziende con almeno 50 addetti, le quote di TFR non destinate alle forme pensionistiche complementari, confluiranno nell’istituito "Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 cod. civ.", che è un fondo a ripartizione, gestito dall’Inps per conto dello Stato.

8. In definitiva il ricorso va rigettato, enunciandosi il principio di diritto per cui "Le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare – quale che sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti – non si computano nè nella indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) nè nel trattamento di fine rapporto".

Il mutamento di giurisprudenza induce alla compensazione tra le parti delle spese del giudizio.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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