Cass. civ. Sez. I, Sent., 04-06-2012, n. 8946 Opposizione a dichiarazione di fallimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 5.7.2005 il Tribunale di Treviso dichiarava di ufficio il fallimento della F.lli Barro Giovanni e Luigi s.r.l., a seguito della relazione dell’amministratore giudiziario nominato ai sensi dell’art. 2409 c.c., previa revoca degli amministratori in carica.

La decisione, impugnata da L., G. e B.M., veniva confermata dalla Corte di Appello di Venezia.

In particolare gli appellanti deducevano: a) l’insussistenza dell’insolvenza; b) l’intervenuta preclusione alla declaratoria del fallimento di ufficio, in ragione della pendenza dell’istanza di fallimento dell’amministrazione giudiziaria; c) il censurabile comportamento dell’amministratore giudiziario, che non avrebbe consentito la presentazione dell’istanza di fallimento. La Corte territoriale, tuttavia, sui diversi punti sottoposti al suo esame, rilevava che le doglianze aventi ad oggetto l’inammissibilità della procedura ex art. 2409 c.c. risultavano tardive, per essere state prospettate in comparsa conclusionale; che il fallimento era stato dichiarato di ufficio, sicchè apparivano inconsistenti i profili critici attinenti alla pretesa presentazione di un ricorso prefallimentare da parte dell’amministratore giudiziario; che i dati acquisiti avrebbero confermato l’esistenza dello stato di insolvenza della società; che la mancata presentazione del ricorso per concordato preventivo avrebbe escluso la configurabilità di un diritto al rinvio della procedura fallimentare per la relativa delibazione. Avverso la detta sentenza B.M. proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui resisteva con controricorso il fallimento.

Entrambe le parti depositavano infine memoria.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 23.4.2012.

Motivi della decisione

Con i motivi di impugnazione B. ha rispettivamente denunciato:

1) violazione dell’art. 2409 c.c., art. 6, L. Fall. (ante riforma 2006), per l’omessa rilevazione della irritualità del procedimento ex art. 2409 c.c. nei confronti di società a responsabilità limitata. Ed infatti la Corte territoriale non avrebbe considerato che dal duplice errore commesso dal tribunale (quello cioè di aver dapprima dato corso alla detta procedura e quindi di non averne rilevato l’illegittimità) sarebbero derivati effetti (quali incrementi del passivo, indiretta sollecitazione di iniziative dei creditori, mancata proposizione di concordato) che avrebbero poi dato causa al fallimento;

2) nullità della sentenza per omesso esame ("da pretesa tardività") di circostanze decisive, atteso che la questione relativa all’inammissibilità della procedura ex art. 2409 c.c. sarebbe stata prospettata non già con la comparsa conclusionale del 29.9.2010, ma con quella dell’8.4.2010, certamente tempestiva;

3) vizio di motivazione (per omissione) sul punto relativo alla violazione del diritto alla presentazione di istanza di concordato da parte della società poi dichiarata fallita. La Corte non avrebbe infatti colto il contenuto della censura, consistente nel fatto che la mancata convocazione dell’assemblea da parte dell’amministratore giudiziale avrebbe a torto precluso il ricorso alla procedura di concordato preventivo;

4) violazione degli artt. 356 e 359 c.p.c., per l’omesso apprezzamento dell’inesistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, inesistenza dedotta sotto il profilo dell’errata designazione dell’amministratore giudiziario che aveva poi dato causa ad una altrimenti evitabile fase di liquidazione;

5) violazione dei medesimi articoli, attesa l’insussistenza dell’insolvenza. All’epoca vi sarebbe stata infatti soltanto una iniziativa giudiziaria (gruppo Marcegaglia) di importo contenuto (Euro 26.000), mentre i soci avrebbero manifestato la propria disponibilità al ripianamento dell’esposizione.

La Corte di appello, tuttavia, anzichè valorizzare i dati ora esposti avrebbe tenuto conto esclusivamente della situazione venutasi a creare dopo la dichiarazione di fallimento ed avrebbe per di più negato l’ammissione di prova testimoniale, articolata al fine di dimostrare la situazione di crisi reversibile in cui versava la società alla data della dichiarazione di fallimento;

6) violazione degli artt. 152 e segg., 162 e segg., L. Fall., 111 Cost., per non aver la Corte dato sostanziale risposta ai rilievi consistenti nella violazione del diritto alla presentazione dell’istanza di concordato, che sarebbe stata riconducibile all’esistenza di una condizione di crisi, anzichè di uno stato di vera e propria insolvenza.

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo di impugnazione B. ha sostanzialmente lamentato l’illegittimità del procedimento instaurato ai sensi dell’art. 2409 c.c. nei confronti di società a responsabilità limitata, quale quella dichiarata fallita, nonchè l’omessa percezione dei conseguenti effetti pregiudizievoli venutisi a determinare per la stessa società a causa del ricorso alla detta procedura.

In particolare la denunciata illegittimità risulterebbe incontestabilmente, oltre che "dalla lettera del nuovo diritto societario dalla sentenza n. 481 del 2005 della Corte Costituzionale (il cui contenuto sarebbe stato poi ribadito da questa Corte con la sentenza n. 403 del 2010), che per l’appunto avrebbe confermato la conformità ai principi costituzionali della disposizione in questione, nella parte in cui esclude dal controllo ivi previsto le società a responsabilità limitata. Ritiene il Collegio che la correttezza di quest’ultimo rilievo non comporti gli effetti denunciati con le censure oggetto di esame. Ed infatti la Corte di Appello ha al riguardo espressamente precisato che il fallimento in questione era stato dichiarato di ufficio. Tale circostanza dunque, ai fini della sollecitata delibazione in ordine alla legittimità o meno della detta declaratoria, elimina ogni eventuale nesso di causalità fra gli effetti riconducibili alle iniziative adottate a causa e nell’ambito della procedura ex art. 2409 c.c. ed il contestato fallimento.

In altri termini, essendo applicabile nella specie la normativa fallimentare vigente prima della riforma del 2006, che per l’appunto prevedeva anche la dichiarazione del fallimento di ufficio (art. 6), l’esame in sede di gravame del giudice dell’opposizione non poteva che essere incentrato sull’esistenza o meno dell’insolvenza, quesito al quale il giudice del merito, come detto, ha dato risposta affermativa.

Il ricorrente, per vero, nel motivo di impugnazione ha evidenziato la superficiale e incidentale trattazione del profilo ritenuto di maggiore rilevanza, individuato nella insussistenza dei presupposti per l’accesso alla procedura ex art. 2409 c.c..

Al riguardo va tuttavia considerato che, come sopra già rappresentato, l’oggetto del giudizio di impugnazione avverso la dichiarazione di fallimento (pur se intervenuta di ufficio) va individuato nell’accertamento relativo all’esistenza o meno dell’insolvenza, mentre le cause di determinazione della stessa potranno eventualmente rilevare sotto il profilo risarcitorio, ove provato il nesso fra il preteso comportamento illegittimo di altri organi intervenuti e l’evento conseguentemente manifestatosi.

Nè può ritenersi che l’illegittimità della procedura instaurata ai sensi dell’art. 2409 potesse essere ostativa alla dichiarazione di fallimento di ufficio.

In proposito occorre invero rilevare che il tribunale può correttamente procedere alla dichiarazione di fallimento di ufficio quando la situazione di insolvenza emerga da fonti ufficiali di informazione (C. 02/9483) e non risulti dalla scienza privata del giudice (C. 96/1876, C. 90/9704, C. 85/1980, C. 78/801, C. 66/1154), condizione riscontrabile nel caso in esame, in cui la prospettazione dell’insolvenza è stata incontestabilmente veicolata nell’ambito di un procedimento civile.

Non è poi inutile rilevare come l’esito del procedimento rappresentativo della situazione di insolvenza sia del tutto insignificante, essendo compito del giudice valutare esclusivamente la situazione con esso rappresentata, e ciò tanto più ove si consideri l’interesse pubblicistico al contenimento del dissesto ed all’applicazione della disciplina sanzionatoria dettata negli artt. 216 e segg., L. Fall. nel caso di accertata insolvenza. Per di più va ancora ricordato che il ricorrente, nel lamentare le conseguenze determinate dell’illegittima soggezione della società alla procedura ex art. 2409, ha rappresentato le peculiari difficoltà economiche da questa derivanti, ed il dato oggettivo segnalato assorbe, in questa sede, ogni ulteriore deduzione in ordine alla relativa causale.

Con il secondo motivo, il ricorrente si è doluto dell’erroneità del giudizio secondo cui la comparsa conclusionale del 30.10.2010 sarebbe stata tardiva, censura che, oltre ad essere generica per la mancata specifica indicazione delle questioni che a torto sarebbero state considerate nuove, va disattesa in quanto la questione relativa alla legittimità o meno della procedura ex art. 2409 c.c. (profilo sul quale è incentrato il motivo in esame) risulta assorbita dalle considerazioni sopra svolte in ordine alla sua ininfluenza sul giudizio di insolvenza.

Con il terzo ed il sesto motivo, anch’essi da esaminare congiuntamente stante la connessione fra loro esistente, il ricorrente ha poi denunciato l’erroneità della decisione nella parte in cui era stata negata la sussistenza di violazioni di sorta, con riferimento alla preclusione alla presentazione dell’istanza di concordato che si sarebbe venuta a creare.

In particolare era stata segnalata la mancata convocazione dell’assemblea da parte dell’amministratore giudiziale per la finalità indicata ed era stata altresì sostenuta l’equivalenza fra la situazione di crisi e quella di insolvenza ai fini dell’ammissibilità della procedura, deduzioni che tuttavia non avevano avuto risposta da parte del giudice del merito, atteso che la Corte di Appello, male interpretando le censure, aveva negato l’esistenza di un diritto al rinvio della procedura fallimentare per l’inesistenza di un ricorso per concordato preventivo.

Osserva il Collegio che le censure oggetto di esame non colgono adeguatamente la ragione della decisione.

Come detto, la dichiarazione di fallimento nella specie è intervenuta di ufficio, e, pertanto sotto questo riflesso appaiono irrilevanti sia il comportamento antecedente dell’amministratore giudiziale (che illegittimamente avrebbe impedito la rituale proposizione del ricorso per concordato preventivo), che la pretesa erroneità del giudizio circa l’esistenza dei presupposti per la proponibilità del ricorso per concordato. Al contrario la Corte di Appello ha ravvisato una situazione di insolvenza della società manifestatasi nel corso di un procedimento civile, ha ritenuto che per effetto di ciò dovesse darsi corso alla dichiarazione di fallimento, ha considerato che non vi fossero ragioni che imponessero il differimento della decisione ed i detti profili, pur se ipoteticamente non condivisi nel merito, non risultano viziati sia sotto l’aspetto della legittimità che di quello motivazionale.

Per il quarto motivo valgono le considerazioni già svolte nell’esame delle censure precedentemente considerate.

Ed infatti a tale proposito il B. ha denunciato l’erroneità della sentenza impugnata perchè non avrebbe tenuto debito conto dell’anomalia del ruolo svolto dall’amministratore giudiziale, della sua carente legittimazione, della persistente possibilità di un rifinanziamento da parte dei soci ovvero dell’apertura di una fase di liquidazione societaria.

Si tratta, coitì è evidente, di aspetti che attengono a comportamenti dell’amministratore giudiziale posti in essere prima della dichiarazione di fallimento e che, essendo questa intervenuta di ufficio, risultano ininfluenti rispetto alla censura avente ad oggetto la pretesa illegittimità della stessa.

Resta infine il quinto motivo, con il quale il ricorrente ha sostenuto l’insussistenza dello stato di insolvenza, rilevando in particolare la sostanziale assenza di iniziative giudiziarie nei confronti della società (ve ne era stata soltanto, una di modesto importo), la manifestata disponibilità dei soci ad un rifinanziamento, la limitazione dell’esame della situazione economica – finanziaria della società al periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, la mancata ammissione di prova testimoniale idonea a dimostrare la reversibilità della crisi. I rilievi risultano tuttavia privi di pregio poichè la Corte di Appello ha esaminato i diversi profili rilevanti in proposito ed ha quindi formulato il proprio giudizio, sostenendolo con motivazione sufficiente ed immune da vizi logici. Più precisamente, la Corte territoriale ha innanzitutto evidenziato "il notevole sbilancio patrimoniale negativo tra la valorizzazione dell’attivo … e gli esiti dello stato passivo", effetto a suo giudizio non addebitabile alle conseguenze di una dichiarazione di insolvenza asseritamente insussistente (come sostenuto dall’appellante B.), e ciò in ragione di "segnali evidenti di difficoltà già manifestatisi", quali l’attivazione per ottenere dilazione da parte di alcuni creditori (professionisti ed Unicredit), il versamento di acconti al maggiore creditore garantito anche con fideiussione personale, l’accordo per la messa in mobilità di quindici dipendenti, a fronte di un numero complessivo di venticinque.

Inoltre ha anche considerato la Corte che la disponibilità dei fratelli B. a dare corso ad ulteriori finanziamenti, dei quali pure era stata ravvisata la necessità, non aveva avuto il seguito programmato, e ciò in quanto l’amministratore giudiziale aveva ritenuto indispensabile per la ripresa dell’attività un finanziamento di Euro 800.000, mentre i soci avevano promesso di versare Euro 600.000, e di questa somma sarebbero stati in grado di versare nell’immediato Euro 150.000, dovendosi reperire gli ulteriori fondi con la vendita di quattro appartamenti.

Comunque i finanziamenti in questione non sarebbero mai stati eseguiti e, oltre alla mancata acquisizione di attivo, sarebbero emersi anche ulteriori profili negativi sul piano economico – finanziario, specificamente consistenti: nella mancanza di risultati positivi da cinque anni; nel mancato pagamento delle due prime rate di un mutuo ipotecario contratto con Unicredit; nel mancato rimborso a Medio Venezia Banca di una rata di mutuo in scadenza; nell’omesso pagamento di contributi INPS in scadenza a metà febbraio e metà marzo 2005; nell’omesso versamento delle ritenute di acconto e dell’IVA maturate nel marzo 2005.

Si tratta dunque di un quadro complessivo ben delineato, che depone nel senso della correttezza della decisione adottata sotto gli aspetti che rilevano in questa sede di legittimità, non adeguatamente contrastate con doglianze che, a fronte della specificità delle argomentazioni svolte, risultano fra l’altro generiche. Quanto infine alle prove testimoniali di cui la Corte aveva negato l’ammissione, la Corte ne aveva affermato l’irrilevanza in ragione dei dati successivamente esposti, evidentemente ritenuti assorbenti, e della loro inidoneità a contrastare risultanze documentali, giudizio censurato in modo generico, con la semplice riproposizione di alcuni dei capitoli giudicanti rilevanti sulla decisione, e senza l’indicazione, quindi, dei profili di erroneità in cui sarebbe incorsa la Corte nel formulare il giudizio di ininfluenza sopra riportato.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 23 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2012
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