Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 12-10-2011) 22-11-2011, n. 43023 Circolazione stradale

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Svolgimento del processo

Con sentenza in data 10/10/07 il GUP del Tribunale di Biella, in esito a giudizio con rito abbreviato, assolveva B.C. dal reato di omicidio colposo in danno di Q.P.R. per non aver commesso il fatto in sintesi osservando: il (OMISSIS) B. C., alla guida di un autobus SATAP, in servizio pubblico di linea, stava percorrendo la via centrale di (OMISSIS), quando il pedone Q.P.R., di anni 59 circa, posizionato sul margine destro della strada, gli aveva fatto cenno di fermare perchè evidentemente intendeva salire sul mezzo pubblico; poichè in quel punto non era consentita la sosta del bus, B. aveva segnalato al pedone di spostarsi più avanti, cioè verso il punto ufficiale di fermata dei mezzi pubblici; l’uomo, che (come successivamente accertato in sede di autopsia) versava in stato di grave alterazione alcolica, invece di seguire l’indicazione dell’autista, si era diretto verso la fiancata destra del mezzo, colpendola con la mano, per poi perdere l’equilibrio, cadendo sull’asfalto e venendo sormontato per circa 140 cm – dal piede destro fino al bacino – dalla ruota posteriore destra del veicolo che in quel momento stava affrontando una curva sinistrorsa molto stretta; l’imputato aveva sostenuto, sia nelle dichiarazioni rilasciate nell’immediatezza alla Polstrada, sia in dibattimento, di non aver notato che il pedone barcollasse quando lo aveva avvistato sul lato destro della strada, di aver percepito i colpi sulla parte posteriore destra del mezzo, di aver allora guardato nello specchietto retrovisore vedendo l’uomo rovinare per terra, subito dopo aver barcollato per un attimo: aveva negato di averlo urtato prima della caduta ed aveva precisato che al momento dell’investimento l’andatura del mezzo era ridottissima. A giudizio del GUP, pur avendo un passeggero del bus dichiarato di aver visto il pedone barcollare già al momento in cui aveva fatto cenno all’autista di fermare, non poteva ritenersi provato che il B. si fosse reso conto dello stato di alterazione psico-fisica del Q., e non poteva quindi sostenersi che egli avrebbe dovuto prevederne possibili comportamenti anomali od imprudenti, anche perchè impegnato nella guida di un mezzo ingombrante, in manovra di curva sinistrorsa assai stretta e con veicoli provenienti dalla opposta direzione di marcia. L’imputato doveva quindi essere assolto per difetto dell’elemento soggettivo del reato. Avverso tale decisione proponevano appello il PG e le Parti civili chiedendo l’affermazione di responsabilità dell’imputato: ad avviso degli appellanti si doveva ritenere che l’imputato si fosse reso conto dello stato di alterazione del Q., avendo egli stesso ammesso di averlo visto barcollare prima di rovinare a terra: del resto, anche due passeggeri del bus avevano notato le condizioni di precario equilibrio del pedone.

La Corte d’appello di Torino riteneva fondati i proposti gravami e, ribaltando la sentenza di primo grado, affermava la colpevolezza dell’imputato con le conseguenti statuizioni civili. Richiamata la "ratio" dell’art. 191 C.d.S. – ritenuta ravvisabile nella necessità di prevenire le situazioni di pericolo provocate da utenti della strada scarsamente affidabili per età e condizioni psico-fisiche – la Corte distrettuale dava conto del proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: a) il Q. – avuto riguardo alla sua età al momento dell’incidente (circa 59 anni) – doveva considerarsi pedone "anziano" ai fini e per gli effetti della previsione normativa; b) il B. aveva avuto certamente modo di rendersi conto dello stato di alterazione psico- fisica in cui si trovava il Q. nel momento in costui era apparso sulla strada che stava percorrendo il mezzo pubblico; c) già il comportamento di chi si mette a gesticolare a lato della strada invocando la sosta del bus in sito non consentito dovrebbe indurre un conducente esperto e prudente a sospettarne la pericolosità; c) il dato probatorio insuperabile al riguardo era la deposizione di uno dei passeggeri ( C.M.I.) del bus, che sentita dalla Polstrada il 20/2/06, aveva dichiarato testualmente: "notavo che sul marciapiede lato destro della carreggiata vi era un uomo che (…) procedeva barcollando. Lo stesso al sopraggiungere del pullman si voltava verso di esso e faceva segno al conducente di fermarsi":

dunque, l’avvistamento del pedone da parte della donna era avvenuto durante il percorso di avvicinamento del bus alla curva, ancor prima che l’uomo iniziasse a gesticolare; d) che la percezione del precario equilibrio del pedone da parte della teste oculare fosse stata corretta era dimostrato dal fatto che il Q. versava in quel momento in stato di intossicazione acuta da alcol (come poi accertato in sede di autopsia: tasso alcolemico di 3,05 g/l) e non era quindi in grado di controllare adeguatamente i propri movimenti nè di comportarsi con raziocinio; e) di conseguenza il B., sia per esperienza professionale, sia per la concentrazione prestata nell’esaminare la situazione della strada davanti a sè, doveva necessariamente essersi accorto del fatto che il pedone, il quale gli aveva segnalato di fermarsi, procedeva barcollando e non era quindi del tutto compos sui; f) in siffatta pericolosa situazione l’imputato era quindi gravato dall’obbligo di prevenzione sancito dall’art. 191 C.d.S., nel senso che avrebbe dovuto conformare la propria condotta di guida alla massima prudenza, e soprattutto tenere costantemente sotto controllo il pedone onde poterne prevenire e neutralizzare eventuali gesti o movimenti inconsulti o avventati; g) per contro, stando alle stesse parole dell’imputato, egli, concentrato nella manovra di svolta a sinistra in curva cieca ed assai stretta (ispezionabile tramite apposito specchio posizionato sulla facciata di un edificio), perse praticamente di vista il pedone, prestandogli nuovamente attenzione solamente quando il pedone stesso ebbe a battere con le mani contro la fiancata destra del bus: in quel momento il B. guardò nello specchietto retrovisore scorgendo il Q. barcollare per un attimo e subito dopo cadere; h) proprio questa perdita di controllo, breve ma fatale, sui movimenti del pedone configurava a carico del conducente del mezzo un’omissione colposa rilevante ai fini della causazione dell’incidente; i) il fatto di dovere affrontare una manovra delicata e difficile (tenuto conto della ristrettezza della sede stradale, della ridotta visuale offerta dalla curva, della possibile provenienza di veicoli in senso opposto) non esonerava da colpa l’imputato il quale, alla luce della pregressa condotta del pedone (gesticolare inconsulto, procedere barcollando), non avrebbe dovuto perderlo mai di vista durante tutta la fase di affiancamento e superamento, cosa questa non impossibile attesa l’ampia visuale sulla fiancata destra del mezzo consentita dagli specchietti retrovisori; l) qualora fosse risultato impossibile effettuare la manovra di svolta a sinistra e contemporaneamente tenere sotto controllo il pedone, il B. avrebbe dovuto scegliere la soluzione estrema di arrestare il mezzo e riprendere la marcia solo dopo essersi accertato che, per la posizione statica assunta dal Q., la manovra di cui sopra poteva essere portata a termine in condizioni di assoluta sicurezza.

Ha proposto ricorso per cassazione il B., a mezzo del difensore, deducendo violazione di legge e vizio motivazionale, richiamando la motivazione assolutoria della prima sentenza e formulando censure – finalizzate a contrastare l’affermazione di colpevolezza anche per le conseguenti statuizioni civili – che possono così riassumersi: a) avrebbe errato la Corte di merito, nell’individuazione della ratio dell’art. 191 C.d.S., sia con riguardo alla valutazione della ragionevolezza sia con riguardo alla nozione di anzianità: non sarebbe corretto ritenere che debba ragionevolmente attendersi da un qualsivoglia pedone un comportamento che potrebbe sembrare addirittura anticonservativo quale quello tenuto dal sig. Q.P.R. il quale, dopo che il bus era passato, si era gettato repentinamente sulla parte posteriore finendo quasi inspiegabilmente sotto le ruote posteriori dello stesso; un comportamento che peraltro la stessa Corte d’Appello non ha esitato a stigmatizzare come enormemente imprudente e sconsiderato a causa del grave stato di ubriachezza del Q.; b) sarebbe anacronistico ed addirittura offensivo considerare, al giorno d’oggi, "anziano" un soggetto di 59 anni dal quale l’utente della strada debba attendersi un comportamento pericoloso per la sicurezza e la speditezza del traffico stradale in quanto certamente o verosimilmente malfermo sulle gambe e dotato di scarsa padronanza delle proprie facoltà mentali: il precetto di cui all’art. 191 C.d.S. non dovrebbe quindi essere applicato alla fattispecie in esame; c) avrebbe ancora errato la Corte distrettuale nella valutazione della deposizione resa dalla teste C. postasi in parziale contrasto con quanto riferito nell’immediatezza del fatto dagli altri passeggeri dell’autobus, seduti, peraltro, in posizioni con visuale più favorevole, da cui si rileverebbe che il Q. era forse già sulla carreggiata e non sul marciapiede, come pure affermato in sentenza, e non aveva dato segni esteriori di ubriachezza o di altri sintomi tali da allertare più della norma il conducente; d) l’affermazione per cui il Q. si sarebbe trovato sul marciapiede al momento del primo avvistamento non risulterebbe sufficientemente supportata da elementi probatori a differenza della sig.ra C.; gli altri testi (indicati nel ricorso) avrebbero affermato che il Q. si trovava nei pressi del marciapiede ma già sulla carreggiata, il che contrasterebbe con l’affermazione che la Corte territoriale ha ritenuto di poter assumere come pacifica; e) quanto alla planimetria allegata al rapporto Polstrada, non sarebbe desumibile da tale schizzo planimetrico – perchè alquanto rudimentale – alcun dato certo o preciso; non potrebbe quindi attribuirsi a tale documento alcun valore di attendibilità al fine di valutare le distanze effettive, di tal che lo stesso sarebbe inidoneo a fondare la ricostruzione logica dell’accaduto. E’ pervenuta revoca della costituzione di parte civile a seguito dell’integrale risarcimento del danno da parte della compagnia di assicurazione presso la quale era assicurato l’autobus condotto dal B..

Motivi della decisione

Il ricorso non può trovare accoglimento, per le ragioni di seguito indicate. Relativamente alla ricostruzione della dinamica del sinistro, ed alla individuazione delle condotte dei protagonisti dell’incidente, la Corte di Appello ha fornito logica e congrua motivazione, richiamando le risultanze processuali, in particolare le testimonianze, gli accertamenti e le conclusioni del consulente del P.M.. Sicchè i rilievi mossi dal ricorrente alla sentenza impugnata, quanto alla dinamica del sinistro, si risolvono in censure concernenti per lo più apprezzamenti di merito che tendono sostanzialmente ad una diversa valutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità. Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 – da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame"; il che vuoi dire – quanto al vizio di manifesta illogicità – per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che (iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico: ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munite di eguale crisma di logicità (cfr. Sez. U, n. 30 del 27/09/1995 Cc. – dep. 14/12/1995 -Rv. 202903). Ed è stato altresì precisato nella giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite (cfr: Sez. Un., ric. Spina, 24/11/1999, RV. 214793; Sez. Un. ric. Jakani, ud. 31/5/2000, RV. 216260; Sez. Un., ric. Petrella, ud. 24/9/2003, RV. 226074), che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. Con riguardo alla specifica materia della circolazione stradale, nella giurisprudenza di legittimità è stato altresì enunciato, e più volte ribadito, il principio secondo cui "la ricostruzione di un incidente stradale nella sua dinamica e nella sua eziologia – valutazione delle condotte dei singoli utenti della strada coinvolti, accertamento delle relative responsabilità, determinazione dell’efficienza causale di ciascuna colpa concorrente – è rimessa al giudice di merito ed integra una serie di apprezzamenti di fatto che sono sottratti al sindacato di legittimità se sorretti da adeguata motivazione" (in tal senso, tra le tante, Sez.4, N. 87/90, imp. Bianchesi, RV. 182960). Non sono ravvisabili, dunque, i profili di violazione di legge e vizio di motivazione prospettati dal ricorrente, posto che, avuto riguardo al testo della sentenza impugnata, si rileva che la Corte distrettuale, attraverso il percorso motivazionale sopra ricordato (nella parte narrativa), da intendersi qui integralmente richiamato onde evitare superflue ripetizioni, ha analizzato – mediante la rivisitazione della sentenza di primo grado ed all’esito dell’esame dei motivi di appello dedotti dal P.G. e dalle Parti Civili – tutti gli aspetti concernenti le problematiche relative alla dinamica del grave incidente stradale oggetto del procedimento ed ai profili di colpa ravvisabili nella specifica condotta dell’imputato, così svolgendo considerazioni che consentono di ritenere acquisita la prova della colpevolezza dell’imputato. A fronte di tale apparato motivazionale il ricorrente ha svolto diffuse argomentazioni finalizzate essenzialmente ad enfatizzare oltre modo il tema della nozione di "anziano" di cui all’art. 191 C.d.S., laddove si tratta di un tema toccato solo incidentalmente nel complesso della motivazione del provvedimento impugnato: come del tutto evidente, infatti, il rinvio contenuto nel capo d’imputazione all’art. 191 C.d.S. ha riguardo generale all’obbligo di prudenza che si impone all’utente della strada in presenza di pedoni, tanto più se anziani – ma certo non solo se tali – in relazione all’art. 141 C.d.S., in tema di obbligo di moderare la velocità. Orbene, la decisione impugnata si pone in sintonia con il condivisibile indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui "nel caso di investimento di un pedone, perchè possa essere affermata la colpa esclusiva del medesimo per le lesioni subite è necessario che il conducente del veicolo investitore si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido e inatteso e, inoltre, che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza sia riscontrabile nel comportamento dello stesso conducente" (Sez. 4, n. 20027 del 16/04/2008 Ud. – dep. 19/05/2008 – Rv. 240221): il conducente ha infatti l’obbligo di ispezionare la strada costantemente, mantenere sempre il controllo del veicolo e prevedere tutte le situazioni di pericolo che la comune esperienza comprende.

Ciò posto, le censure del ricorrente non valgono a contestare, in fatto, la duplice circostanza, ritenuta dalla Corte territoriale fondamentale al fine di affermare la responsabilità dell’investitore: a) non esservì stata oggettiva impossibilità, per l’investitore, di avvistare la vittima investita e di osservarne tempestivamente i movimenti; b) inoltre, la riscontrabilità di infrazioni alle norme della circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza nel comportamento del conducente: nel caso di specie, l’aver tenuto una velocità eccedente quella prudenziale, tenuto conto dell’attraversamento di centro abitato, dell’ora serale, della visibilità limitata dalla mancanza di illuminazione artificiale;

velocità prudenziale non tenuta e che invece sarebbe stata idonea ad evitare il sinistro.

Quanto, poi, all’argomento della incidenza sulla responsabilità dell’imputato della presunta anomalia del comportamento della vittima, mette conto sottolineare che la decisione impugnata ha argomentato che il conducente del veicolo investitore non si era trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti: e ciò rende non rilevanti, già da questo primo punto di vista, nel senso preteso dal ricorrente, le denunciate anomalie comportamentali dell’investito; pur a voler ipotizzare che il comportamento dell’investito abbia violato l’art. 190 C.d.S. (che disciplina il comportamento dei pedoni), va osservato che il ricorrente confonde e sovrappone indebitamente il concetto di anomalia del comportamento della vittima con quello della sua imprevedibilità: proprio perchè, come evidenziato nella decisione impugnata, la strada teatro del sinistro non era di per sè preclusa ai pedoni, il ricorrente aveva l’obbligo, in quelle condizioni di tempo e luogo, di tener conto delle eventuali imprudenze e trasgressioni degli altri utenti della strada. Velocità adeguata è quella idonea a prevenire le eventuali irregolarità di comportamento degli altri utenti della strada; di tal che, muovendo da tale presupposto, e con specifico riferimento al nesso di causalità, deve escludersi che la colpa della vittima possa costituire causa – unica e determinante – dell’evento in una situazione di pericolo posta in essere dall’imputato: la causa sopravvenuta, infatti, può essere considerata causa esclusiva dell’evento quando, rispetto alla serie causale precedente, presenti i caratteri della assoluta anormalità o della eccezionalità; e non può dirsi eccezionale, e deve riconoscersi, invece, logicamente inserita nella precedente serie, la condotta di chi adotti un comportamento non in grado, magari per imprudenza o imperizia, di evitare il pericolo che altri era tenuto a non creare.

Le censure di cui al 2 e 3 motivo di ricorso, volte a denunciare il travisamento per omissione della prova nel quale sarebbe incorsa la decisione impugnata nel dare prevalente credito alla testimonianza di tale C. a preferenza di quella di altri testimoni, non colgono nel segno.

Ed invero, il giudice di merito non era tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spiegasse, in modo logico e adeguato – come avvenuto nella fattispecie, avuto riguardo alla linearità del percorso motivazionale seguito dalla Corte distrettuale e sinteticamente sopra ricordato nella parte narrativa – le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo: così dovendo considerarsi implicitamente disattese, pur se non espressamente confutate, le deduzioni difensive logicamente incompatibili con la decisione adottata (in tal senso, ex plurimis, Sez. 2, n. 13151 del 10/11/2000 Ud. – dep. 02/04/2001 – Rv. 218590).

Infine, neppure possono assumere rilievo, nel caso in esame, le modifiche apportate dalla L. n. 46 del 2006 (cd. Legge Pecorella) all’art. 606 c.p.p.. A fronte dei motivi di ricorso così come formulati, compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte di merito, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte, secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Ciò posto, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, occorre allora tener conto che la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, può parlarsi di "travisamento della prova", che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioè, incorra in una utilizzazione di un’informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della L. n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) – nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" – detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 lett. c) (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere "l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p – anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice "et similia" (cfr.

Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte della decisione impugnata a tutti i temi toccati dalla difesa del B.. Ma v’è di più, posto che non era sufficiente: a) che gli atti del processo invocati dal ricorrente fossero semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) del fatto e della responsabilità; b) nè che tali atti fossero astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorreva invece che gli "atti del processo", presi in considerazione dal ricorrente per sostenere resistenza di un vizio della motivazione, fossero "decisivi", ossia – e giova qui ripetere quanto si è avuto già modo di precisare innanzi – autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticolasse l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determinasse al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato", anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).

Tenendo conto di tutti i principi testè ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure del ricorrente, sopra esaminate, non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto: pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, il ricorrente, in realtà, ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.

Palesemente generico, infine, risulta l’ultimo motivo di ricorso, in punto di statuizioni civili: doglianza che comunque non ha più ragion d’essere essendo stata depositata la revoca della costituzione di parte civile quale conseguenza dell’avvenuto risarcimento del danno.

Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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