Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Nei confronti di S.A. veniva emesso dal GIP del Tribunale di Firenze decreto di giudizio immediato per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 con l’aggravante di aver agito in più di tre persone riunite. L’imputato formulava richiesta di patteggiamento e, in subordine, rito abbreviato incondizionato; il P.M. non prestava il consenso per il patteggiamento e quindi il giudice disponeva procedersi con rito abbreviato. Il P.M. contestava quindi all’imputato la recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale; la difesa si opponeva sul rilievo che detta contestazione risultava preclusa dalla norma di cui all’art. 441 c.p.p., comma 1, che rinvia a quanto stabilito per l’udienza preliminare fatta eccezione per le disposizioni di cui agli artt. 422 e 423 c.p.p.; il GIP respingeva tale opposizione e riteneva ammissibile la contestazione della recidiva. Il GIP stesso chiedeva poi all’imputato se intendeva proseguire con il rito abbreviato o nelle forme ordinarie, e l’imputato optava per il rito ordinario. Il GIP separava quindi la posizione dell’imputato S. da quella degli altri due coimputati, revocava il decreto di ammissione del giudizio abbreviato ed emetteva nuovo decreto di giudizio immediato.
All’udienza dibattimentale dinanzi al Tribunale di Firenze la difesa del S. riproponeva l’eccezione di irregolarità della contestazione della recidiva; il Tribunale respingeva l’eccezione così proposta e, all’esito del dibattimento, condannava il S. alla pena di anni dieci e mesi uno di reclusione ed Euro 50.000,00 di multa. Quanto all’affermazione di colpevolezza, il Tribunale ancorava il proprio convincimento agli esiti di intercettazioni telefoniche, nonchè a quanto direttamente percepito dagli investigatori in occasione di servizi di pedinamento ed osservazione collegati alle intercettazioni stesse: osservava il Tribunale che detta attività di indagine aveva consentito di appurare che il S. aveva portato un quantitativo di droga del tipo cocaina – pari a circa 500 grammi – a casa del fratello N. dove la droga stessa era stata poi rinvenuto in sede di perquisizione; cocaina era stata rinvenuta anche nell’auto a bordo della quale si trovavano il S. e la fidanzata M.d.
O. allorquando erano stati fermati e controllati dopo essere usciti dall’abitazione del S.N.. L’imputato proponeva appello e, in rito, deduceva: nullità dell’ordinanza con la quale il GIP aveva ritenuto regolare la contestazione della recidiva ed aveva invitato l’imputato a decidere se proseguire o meno nelle forme del giudizio ordinario; "abnormità dell’ordinanza di revoca del provvedimento di ammissione dell’imputato al rito abbreviato e di tutti gli atti connessi, collegati e conseguenti e/o da essi dipendenti". Nel merito, l’appellante invocava l’assoluzione sull’asserito rilievo della mancanza di un compendio probatorio idoneo a giustificare l’affermazione di colpevolezza, ed in via subordinata sollecitava la concessione delle attenuanti generiche ed un trattamento sanzionatorio nei limiti del minimo della pena.
La Corte d’Appello di Firenze confermava l’affermazione di colpevolezza del S., e dava conto del convincimento così espresso evidenziando che le attività di indagine e le risultanze dell’istruttoria dibattimentale erano tali da confortare l’ipotesi accusatoria secondo cui il S.A. aveva trasportato la sostanza stupefacente presso l’abitazione del fratello N. per il rifornimento per la successiva vendita: ipotesi oggettivamente corroborata dal rinvenimento della droga nell’abitazione del N. e di altra sostanza sull’autovettura del S.A. allorquando questi era stato fermato appena uscito dalla casa del fratello. Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte distrettuale riteneva l’imputato non meritevole delle attenuanti generiche avuto riguardo ai suoi rilevanti precedenti penali ed avendo il S. commesso il fatto dopo poco tempo che era stato rimesso in libertà.
La Corte stessa dichiarava la nullità del capo della sentenza relativo al riconoscimento della recidiva e quindi rideterminava la pena eliminando l’aumento per la recidiva: la Corte di merito osservava in proposito che la successiva emissione di un nuovo decreto di giudizio immediato – contenente la contestazione della recidiva all’imputato – non aveva sanato il vizio che si era determinato, posto che "l’imputato aveva operato una scelta difensiva su presupposti che erano stati poi modificati" (così testualmente si legge nella sentenza di appello). Ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore avv. Manuele Ciappi, deducendo censure in rito e nel merito che possono così sintetizzarsi: a) abnormità dell’ordinanza di revoca dell’ammissione al giudizio abbreviato; si osserva con il ricorso che la volontà manifestata dall’imputato di procedere nelle forme del rito ordinario dovrebbe ritenersi viziata, perchè formulata sulla base di un presupposto poi fatto cadere dalla sentenza della Corte d’appello, ossia la contestazione della recidiva ai sensi dell’art. 423 c.p.p.; il nuovo decreto di giudizio immediato successivamente emesso sarebbe abnorme perchè il secondo comma dell’art. 458 c.p.p., nell’ultima parte, nel richiamare il caso di cui all’art. 441 bis c.p.p., comma 4, e nel consentire quindi remissione del decreto di giudizio immediato, richiamerebbe automaticamente l’intero art. 441 bis c.p.p., ed in particolare il primo comma, laddove sono consentite le contestazioni ex art. 423 c.p.p. soltanto nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato (art. 438 c.p.p., comma 5) e nell’ipotesi di integrazione probatoria disposta d’ufficio dal giudice (art. 441 c.p.p., comma 5); il ricorrente eccepisce quindi la nullità delle sentenze di primo e secondo grado; b) errata valutazione delle risultanze probatorie (esito delle intercettazioni telefoniche, attività di osservazione della P.G., esame testimoniale), e travisamento della prova: la Corte avrebbe ancorato il proprio convincimento a sole congetture tratte da un quadro meramente indiziario, trascurando, ad esempio, un dato oggettivo dalla difesa ritenuto rilevante: il mancato avvistamento, da parte degli agenti di P.G. che svolgevano attività di osservazione e pedinamento, indosso all’imputato, del marsupio marrone nel quale era occultata la droga rinvenuta dagli investigatori a casa del fratello dell’imputato stesso; il ricorrente allega al ricorso copia della deposizione resa dal teste A. (uno dei verbalizzanti).
Motivi della decisione
Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.
Per il suo evidente carattere pregiudiziale deve essere preliminarmente esaminata la censura in rito.
La tesi al riguardo prospettata dal ricorrente è infondata.
Il S., con i motivi di appello, aveva osservato che il Gip del tribunale di Firenze non avrebbe potuto invitare l’imputato a scegliere se proseguire nelle forme del giudizio abbreviato oppure nelle forme ordinarie e non avrebbe potuto raccogliere la susseguente decisione dell’imputato di proseguire nelle forme ordinarie nè successivamente revocare il decreto di ammissione al rito abbreviato ed emettere, ancora, un nuovo decreto di giudizio immediato, all’esito del quale, poi, il tribunale di Firenze, ad avviso del ricorrente, non avrebbe potuto nuovamente respingere l’eccezione suddetta, formulata in data 8 giugno 2009 in sede di udienza dibattimentale, e procedere al dibattimento ordinario conclusosi con la sentenza di condanna.
Il ricorrente dunque da atto che la Corte di appello di Firenze ha sì accolto il motivo d’impugnazione con il quale la difesa aveva chiesto che venisse dichiarata la nullità dell’ordinanza che consentiva la contestazione della recidiva, effettuata dal pubblico ministero, dopo che l’imputato era stato ammesso al rito abbreviato incondizionato; ma tuttavia si duole che tale accoglimento ha portato alla dichiarazione di nullità della sentenza del 21 settembre 2009 del Tribunale di Firenze esclusivamente nella parte in cui detto giudice aveva ritenuto la recidiva reiterata specifica infraquinquennale: la Corte di merito avrebbe così applicato alla fattispecie un precedente della giurisprudenza di legittimità non pertinente in quanto relativo a fattispecie di contestazione di circostanza in corso di abbreviato incondizionato in caso nel quale, comunque, il giudizio si era poi concluso nelle forme del rito abbreviato.
Lamenta il ricorrente che la Corte di appello di Firenze si è quindi limitata ad una mera rideterminazione della pena: con il ricorso si prospetta l’abnormità dell’ordinanza di revoca del provvedimento di ammissione dell’imputato al rito abbreviato, e, per l’effetto, del secondo decreto di giudizio immediato, emesso dal Gip del Tribunale di Firenze in data 17 marzo 2009 e di tutti gli atti conseguenziali.
Orbene, tutto ciò premesso, non è dubbio che il Gip del Tribunale di Firenze abbia errato nel ritenere ammissibile la contestazione della recidiva in sede di abbreviato non subordinato ad integrazione probatoria; ed abbia, altresì, continuato ad errare nell’applicare alla fattispecie l’art. 441 bis c.p.p., comma 4, e nell’invitare l’imputato a chiedere se intendeva proseguire nelle forme ordinarie ovvero in quelle del rito abbreviato ai sensi dell’art. 441 bis c.p.p., comma 4. E non è neppure dubbio, quindi, che l’ordinanza di revoca del giudizio abbreviato emessa dal Gip fiorentino sia la conseguenza di siffatti errori.
Deve però escludersi che il Gip di Firenze, nell’assumere siffatte decisioni, abbia dato luogo, nello specifico caso in questione, ad abnormità.
Vi sono, è vero, numerose decisioni di questa Corte di ritenuta abnormità della revoca dell’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato, ma, è bene sottolinearlo, si tratta di casi di revoche disposte al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 441 bis c.p.p. (Sez. 6, n. 21168 del 28/03/2007 Cc. – dep. 29/05/2007 – Rv. 237081, imp. Argese e altri; Sez. 3, n. 9921 del 12/11/2009 Ud. – dep. 11/03/2010 – Rv. 246326, imp. Majouri; Sez. 1, n. 17317 del 11/03/2004 Cc. – dep. 14/04/2004 – Rv. 228652, imp. Pawlak ed altro);
contro la configurazione di qualsivoglia abnormità si pone invece Sez. 5, n. 3395 del 14/12/2004 Ud. (dep. 02/02/2005) Rv. 231408 Imp. Di Ponio.
Giova ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in particolare, hanno tracciato le caratteristiche della categoria dell’abnormità (S.U. 18-6-1993, P.M. in proc. Garonzi; S.U 24-3- 1995, P.M. in proc. Cimili; S.U. 9-7-1997, P.M. in proc. Balzan; S.U. 9-7-1997, P.M. in proc. Quarantelli; S.U. 10-12-1997, Di Battista;
S.U. 24-11-1999, Magnani; S.U. 24-11-1999 confl. giur. in proc. Di Dona; S.U. 22-11-2.000, P.M. in proc. Boniotti; S.U. 31-1-2001, P.M. in proc. Romano; S.U. 11-7-2001, P.G. in proc. Chirico; S.U. 29-5- 2002, Manca; S.U. 25-2-2004, P.M. in proc. Lustri; S. U. 26/03/2009, P.M. in proc. Toni). Al riguardo, si è affermato che è affetto da vizio di abnormità: a) sotto un primo profilo, il provvedimento che, per singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ovvero quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite; b) sotto altro profilo, si è detto che l’abnormità può discendere da ragioni di struttura allorchè l’atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, ovvero può riguardare l’aspetto funzionale nel senso che l’atto stesso, pur non essendo estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo.
L’ordinanza del Gip fiorentino, nello specifico caso in esame, non può invero dirsi completamente estranea al sistema processuale – essendo prevista dall’art. 441 bis c.p.p., comma 4, con riferimento al caso di contestazione suppletiva in abbreviato condizionato con conseguente richiesta dell’imputato di procedere nelle forme del rito ordinario – nè è stata tale da determinare una stasi del procedimento. L’ordinanza di revoca del giudizio abbreviato emessa dal Gip fiorentino era, piuttosto, atto certamente viziato da nullità: nullità che avrebbe dovuto essere dichiarata dalla Corte fiorentina, ma solo ove il giudizio fosse proseguito nelle forme del rito abbreviato (e limitatamente all’aumento di pena determinato dall’applicazione della recidiva). L’imputato, una volta disattesa dal giudice la proposta eccezione ed invitato a rendere la sua dichiarazione in ordine alla prosecuzione o meno del giudizio nelle forme del rito ordinario a seguito di contestazione della recidiva – così applicata al caso la disciplina dell’art. 441 bis c.p.p., comma 1, – ha manifestato la sua volontà di procedere nelle forme del rito ordinario così sanando la nullità suddetta, accettando gli effetti dell’atto nullo e avvalendosi delle facoltà al cui esercizio l’atto nullo era preordinato, ex art. 183 c.p.p.: null’altro l’imputato avrebbe dovuto fare, invece, se non insistere per il prosieguo del giudizio nelle forme del rito abbreviato per poi domandare, in sede di impugnazione, la nullità in parte qua della sentenza che, resa all’esito del giudizio abbreviato, lo avesse condannato tenendo conto, in punto di pena, della contestata recidiva. Nessun pregio, invece, può dirsi abbia rivestito la generica "riserva" assunta dall’imputato, all’atto della richiesta del giudizio ordinario, di denunciare nuovamente "… le modalità" con le quali era intervenuta la contestazione della recidiva. Sic stantibus rebus, ne segue che una volta incardinato il giudizio nelle forme del rito ordinano – con l’emissione di nuovo decreto di giudizio immediato contenente la contestazione della recidiva – risulta esente da censura la decisione del Tribunale fiorentino; piuttosto, ha errato la Corte di appello di Firenze laddove ha impropriamente dichiarato la nullità della sentenza di primo grado, nella parte in cui era stata riconosciuta la recidiva reiterata specifica e infraquinquennale, ed ha di conseguenza ridetemninato la pena. Al fine di pervenire a tale risultato, in realtà, la Corte fiorentina ha evocato un precedente e cioè Sez. 3, n. 35624 del 11/07/2007 Ud. (dep. 27/09/2007) Rv.
237293 Imp. Terlizzi secondo cui "una volta instaurato il giudizio abbreviato non subordinato ad integrazione probatoria, e al di fuori del caso di integrazione probatoria disposta di ufficio, non è consentita al P.M. la modificazione dell’imputazione, in quanto il giudizio medesimo deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, e cioè allo stato degli atti e con la conseguente immutabilità dell’originaria imputazione, sì che è nulla in parte qua la sentenza che si formi sui fatti o sulle circostanze ulteriori che siano stati eventualmente contestati". Trattasi tuttavia di un precedente che non si appalesa pertinente: ed invero, la Corte di appello, nel caso che ci occupa, non ha tenuto conto che si era, alla fine, proceduto con le forme del rito ordinario e non con quelle del rito abbreviato. Peraltro, in assenza di un ricorso del pubblico ministero, la pur erronea decisione impugnata, più favorevole al ricorrente, non può subire alcuna modifica in punto di trattamento sanzionatorio.
Privo di fondamento è anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è stato denunciato vizio di motivazione in ordine alle valutazioni probatorie ai fini dell’affermazione di colpevolezza.
La Corte di Appello ha invero fornito logica e congrua motivazione, richiamando le risultanze processuali, in particolare gli esiti di intercettazioni telefoniche e di attività di osservazione e pedinamento ad opera della Polizia Giudiziaria, corroborati da sequestro di sostanza stupefacente. Sicchè i rilievi mossi dal ricorrente alla sentenza impugnata, quanto alle valutazioni probatorie, si risolvono in censure concernenti per lo più apprezzamenti di merito che tendono sostanzialmente ad una diversa valutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità. Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 – da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame"; il che vuoi dire – quanto al vizio di manifesta illogicità – per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico: ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munite di eguale crisma di logicità (cfr. Sez. U, n. 30 del 27/09/1995 Cc. – dep. 14/12/1995 – Rv. 202903). Ed è stato altresì precisato nella giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite (cfr: Sez. Un., rie. Spina, 24/11/1999, RV. 214793; Sez. Un. ric. Jakani, ud.
31/5/2000, RV. 216260; Sez. Un., ric. Petrella, ud. 24/9/2003, RV. 226074), che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.
Infine, neppure possono assumere rilievo, nella concreta fattispecie, le modifiche apportate dalla L. n. 46 del 2006 (cd. Legge Pecorella) all’art. 606 c.p.p., con specifico riferimento alla deposizione testimoniale evocata nel ricorso ed allegata allo stesso.
A fronte dei motivi di ricorso formulati dal ricorrente, compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito;
incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte distrettuale, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Ciò posto, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, occorre allora tener conto che:
1) la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, può parlarsi di "travisamento della prova", che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioè, incorra in una utilizzazione di un’informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli).
In sostanza, la riforma della L. n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) – nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" – detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 c.p.p., lett. c) (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere "l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta").
Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p. – anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte fornite dalle integrative pronunce di primo e secondo grado alle questioni poste dalla difesa dell’imputato in punto di responsabilità di quest’ultimo. Ma v’è di più, posto che, sempre con riferimento alla portata delle innovazioni della L. n. 46 del 2006 relativamente allo specifico caso di ricorso per cassazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), non è sufficiente: a) che gli atti del processo evocati con il ricorso siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità; b) nè che tali atti possano essere astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorre invece che gli "atti del processo", presi in considerazione per sostenere resistenza di un vizio della motivazione, siano "decisivi", ossia autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato", anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).
Tenendo conto di tutti i principi teste ricordati, deve concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle doglianze di vizio motivazionale sopra esaminate, e lo specifico atto del processo allegato al ricorso, non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto facendo riferimento all’art. 606 c.p.p., lett. e): pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, il ricorrente, in realtà, ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.
Le allegazioni difensive non valgono dunque a disarticolare l’apparato argomentativo delle integrative pronunce di primo e secondo grado (trattasi di doppia conforme quanto all’affermazione di colpevolezza): è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (in termini, "ex plurimis", Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud.-dep. 23/04/1994 – Rv. 197497; conf. Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 Ud. -dep. 05/12/1997 – Rv. 209145).
Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2011
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