Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 28-09-2011) 22-11-2011, n. 43006 Omicidio colposo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale per i minorenni di Perugia condannava C.E. alla pena ritenuta di giustizia perchè colpevole del delitto ex artt. 586, 83 e 589 c.p., per aver ceduto sostanze stupefacenti a R.D., cessione da cui era derivata, quale conseguenza non voluta, la morte di quest’ultimo. Il giudicante, sulla base delle risultanze in atti – e cioè prove dichiarative, esito delle disposte consulenze (tossicologica e medicolegale), dichiarazioni dell’imputato circa la cessione della droga al R.) ricostruiva la vicenda come segue. Il (OMISSIS), dopo ripetuti contatti telefonici tra il C. ed il R. tra le ore 14 e le 18, e dopo che il C. si era recato in (OMISSIS) unitamente a tal C.G. per acquistare lo stupefacente, il R. si era recato a casa del C. il quale gli aveva ceduto parte dello stupefacente acquistato; subito dopo il R. era rientrato nell’abitazione della madre senza più uscirne e quella stessa notte era stato rinvenuto cadavere dalla madre; il medico legale aveva collocato l’ora della morte intorno alle 21, con il possibile scarto di un’ora; la causa della morte era stata individuata in uno scompenso cardio-respiratorio acuto, dovuto ad una overdose di eroina e cocaina in un soggetto in stato di intossicazione alcoolica acuta ed assuntore abituale di sostanze stupefacenti del tipo eroina e cocaina. Il Tribunale fondava il proprio convincimento – circa la ritenuta riconducibilità della morte del R. alla droga a questi ceduta dal C. – sulle seguenti circostanze: non vi era prova che il R. avesse assunto altre sostanze oltre a quella sicuramente cedutagli dal C., anzi vi era la prova che il R. non disponesse di altre sostanze, posto che la droga che aveva nascosto in strada il sabato precedente a seguito di un incidente automobilistico, per sfuggire ai controlli di Polizia, era stata recuperata da Cr.

M. e L.P. che l’avevano anche consumata; le stesse reiterate telefonate del R. al C., quel pomeriggio, confermavano che in quel frangente il R., per sopperire alle proprie urgenti esigenze di assuntore, non aveva altro riferimento se non il C.; dopo il contatto con il C., il R. era subito rientrato in casa e vi era rimasto da solo fino al decesso; il quantitativo di morfina rilevato nel sangue del R. era stato riconosciuto dalla dott.ssa M. come di per sè dotato di una tossicità mortale, anche a prescindere dalla cocaina e dall’alcol che pure erano risultati presenti nell’organismo della vittima; quanto all’elemento soggettivo del reato, il C. aveva riferito di aver ricevuto la droga – poi ceduta al R. – da un fornitore nuovo, per cui non poteva essere sicuro della buona qualità della sostanza, anche in termini di taglio, ed avrebbe quindi dovuto usare la massima prudenza prima di cederla a terzi:

tanto più che, essendo egli stesso tossicodipendente, doveva essere ben consapevole che la sostanza fornita all’amico avrebbe anche potuto avere sull’organismo del medesimo effetti tali da provocarne la morte, evento non certo raro ed inaspettato nell’ambiente degli spacciatori e dei tossicodipendenti.

Proponeva appello l’imputato, e la Corte d’appello per i minorenni di Perugia confermava il giudizio espresso dal primo giudice, e, in risposta alle articolate e diffuse deduzioni dell’appellante, dava conto del proprio convincimento con argomentazioni che possono così sintetizzarsi: a) dalla sequenza dei movimenti del R. nel corso del pomeriggio del (OMISSIS) era agevole rilevare che la preoccupazione più urgente per il medesimo era quella di procurarsi ed assumere droga; b) dalle dichiarazione rilasciate da B. A. – inquilina dell’appartamento sottostante a quello della madre del R. dove quest’ultimo si era recato dopo aver acquistato la droga dal C. – era emerso che il R. si era trattenuto da solo nell’appartamento della madre sino all’ora della morte, presumibilmente avvenuta intorno alle 20,30 allorquando la B. lo aveva sentito rantolare; b) l’attendibilità della B. – le cui dichiarazioni erano state dettagliate, coerenti e puntuali – non appariva scalfita da alcun concreto elemento di segno contrario, nè rilevava che la teste avesse riferito quanto a sua conoscenza solo a distanza di circa cinque mesi dal fatto; c) che il R. fosse solo in casa era desumibile anche dalla circostanza che la madre, per poter entrare in casa, ed allarmata dal fatto che il figlio non rispondeva, era stata costretta ad entrare da una porta- finestra avendo trovato la porta chiusa e con la chiave inserita: nè a diversa conclusione poteva indurre il rinvenimento nel lavandino di poche stoviglie sporche, in quanto le stesse ben potevano essere state lasciate per essere lavate in un secondo m omento, dopo essere state usate nel primo pomeriggio dalla madre del R. e dai parenti che erano andati a farle visita; d) il compendio probatorio acquisito risultava univoco nel senso che doveva escludersi che il R. potesse avere avuto quel pomeriggio qualche altra fornitura oltre a quella del C.; e) parimenti poteva escludersi la disponibilità da parte del R. del quantitativo di droga celato sulla strada una settimana prima a seguito di incedente automobilistico, tenuto conto di quanto attendibilmente dichiarato dal teste Cr. – che aveva riferito di aver recuperato la droga e di averla consumata insieme al L. – nonchè di deduzioni logiche, ed a nulla rilevando il diniego del L., da attribuire, evidentemente, al timore di coinvolgimenti; f) la versione difensiva del C., secondo cui questi avrebbe ceduto al R. solo una minima quantità di eroina, risultava inattendibile avuto riguardo alle già richiamate circostanze fattuali e cronologiche di quel pomeriggio nonchè all’esito di intercettazioni telefoniche, nè detta versione poteva trovare conforto nelle dichiarazioni rese nel giudizio di secondo grado dal teste Ca. dovendo le stesse ritenersi del tutto inverosimili: il Ca. aveva invero precisato di aver mentito allorquando nell’immediatezza del fatto aveva riferito di aver ceduto al C. anche la propria parte di droga acquistata a (OMISSIS), dichiarando che in realtà aveva trattenuto per sè e poi consumato la droga: egli aveva riferito di aver inizialmente mentito al solo scopo di evitare che i genitori potessero venire a conoscenza del suo stato di tossicodipendenza; in realtà l’inverosimiglianza di siffatta ritrattazione appariva evidente considerando che: 1) allorquando il Ca. aveva reso le iniziali dichiarazioni, era già intervenuto il decesso del R. e quindi egli avrebbe dovuto avere un timore ancor maggiore, e cioè quello di rischiare – ammettendo di aver ceduto al C. anche la droga che aveva acquistato – di trovarsi coinvolto nella morte del R.; 2) all’epoca di quelle iniziali dichiarazioni il Ca. era quasi ventunenne ed era stato sentito senza la presenza dei genitori, per cui appariva contro ogni logica ritenere che il timore dei genitori potesse averlo indotto ad accusarsi di un reato, cosi determinando un impatto ancor più pesante nell’ambito familiare; g) la ritrattazione del Ca. era dunque frutto del tentativo di inquinamento probatorio posto in essere in accordo con il C. e finalizzato ad accreditare la tesi difensiva dell’imputato secondo cui quest’ultimo avrebbe in realtà ceduto al R. un minimo quantitativo di droga; h) la conferma di una cessione di quantitativo di droga ben superiore rispetto a quanto ammesso dal C. era venuta anche dall’esame tossicologico che aveva consentito di accertare la presenza nell’organismo del R. di una quantità di morfina – derivata per trasformazione dall’eroina – molto rilevante e tale da farla considerare statisticamente tossica mortale, anche da sola ed a prescindere dalla contestuale assunzione di cocaina ed alcool; i) l’esito degli gli accertamenti tossicologici induceva inoltre a ritenere che della fornitura del C. al R. doveva far parte anche la cocaina, data l’attesa della fornitura e l’immediatezza della sua assunzione dopo di essa; nè la prova della portata non letale della droga ceduta dal C. al R. poteva essere ravvisata nel fatto che un simile effetto non si era verificato per gli altri assuntori della sostanza, posto che il quantitativo ceduto al R. era diverso e maggiore di quello ammesso dal C.; i) in presenza del quadro probatorio quale emerso e delineato, la contemporanea assunzione di alcool non aveva avuto alcun ruolo determinante nell’eziologia del decesso del R., ed in ogni caso non appariva suscettibile di integrare una causa autonoma sufficiente da sola a determinare l’evento; l) il R. era stato descritto come un soggetto che era solito alternare periodi di assunzione di droga ad altri di non assunzione:

di tal che appariva di tutta evidenza l’impatto che poteva avere avuto l’indicato quantitativo di droga su un organismo non ancora assuefatto, nè potevano condividersi le conclusioni del consulente tecnico della difesa – secondo cui l’effetto letale poteva farsi deriva dalla combinazione cocaina-alcool – sia perchè le stesse risultavano smentite dagli elevati valori della morfina riscontrata nell’organismo del R., sia perchè il detto consulente aveva dato per scontato il consumo da parte del R. di un quantitativo minimo di droga; m) doveva ritenersi sussistente anche l’elemento soggettivo del reato, in base ai principi enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione con al sentenza (imp. Ronci) del 22 gennaio 2009, posto che: 1) lo stesso C. aveva ammesso di aver acquistato la droga, poi ceduta al R., da un fornitore nuovo, dal quale non aveva mai acquistato in precedenza, e, dunque, la non conoscenza della fonte di approvvigionamento – con conseguente possibilità di una fornitura suscettibile di riservare sorprese – avrebbe dovuto indurre il C. ad accertarsi della qualità della droga prima di cederla: ed in ciò appariva ravvisabile già la violazione della prima regola di prudenza; 2) altra regola di prudenza aveva violato il C. nel consegnare al R., che sapeva essere in ansiosa attesa della fornitura, quel quantitativo non minimo di stupefacente, tanto più che conosceva le abitudini del R. il quale era solito consumare tutta la fornitura nello stesso giorno o comunque a breve; 3) le indicazioni probatorie erano nel senso che la mescolanza di stupefacente – eroina adulterata con cocaina o eroina e cocaina – era riconducibile ad un’unica fornitura proveniente dal C.; l’ipotesi prospettata secondo cui il R. era solito consumare esclusivamente eroina, era risultata smentita dalle prove dichiarative acquisite e dall’analisi tossicologica; 4) conclusivamente: il C. era nella condizione – qualora avesse prestato la debita attenzione alla situazione dell’amico R. – di rappresentarsi anticipatamente l’evento e di evitarlo.

Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo dei difensori, formulando censure di violazione di legge e vizio motivazionale, con argomentazioni che possono così riassumersi: 1) la Corte distrettuale ha ravvisato un profilo di colpa nella condotta del C. per aver questi ceduto al R. la droga acquistata da un fornitore nuovo; ma la morte del R. è stata ritenuta riconducibile non alla cattiva qualità della droga nè al mix eroina-cocaina, bensì ad una overdose di eroina assunta dal R.; 2) la Corte territoriale ha affermato che al C. era noto che il R. era solito consumare la fornitura tutta lo stesso giorno, e dunque ciò significa che già altre volte il R. aveva acquistato dal C. droga in quantità superiore ad una dose singola senza che da ciò derivasse l’esito mortale; 3) la causa della morte del R. è stata individuata in uno scompenso cardio-circolatorio dovuto ad una overdose di eroina e cocaina, e secondo i giudici di merito il R. non avrebbe avuto la disponibilità di altro stupefacente oltre quello cedutogli dal Ca.; il R. aveva dunque la disponibilità di cocaina, dovendo escludersi che il Ca. avesse ceduto al R. droga diversa dalla eroina appena acquistata a (OMISSIS), ed apparendo l’affermazione della Corte d’Appello, secondo cui il C. avrebbe fornito al R. anche la cocaina, assertiva e basata su mera congettura; inoltre, in sede autoptica è stata rilevata una quantità di cocaina decisamente superiore a quella dell’eroina, il che contrasta con l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui la cocaina consumata dal R. avrebbe avuto solo una funzione adulterante; evidenzia ancora il ricorrente che la Corte distrettuale ha accennato allo stato di "intossicazione alcolica acuta" in cui versava il R. al momento del decesso, precisando a pag. 22 della sentenza che il Re.no.so.no.

a.l.a.d.a.m.e.a.a.

a.e.l.C.n.s.v.n.a.t.

c.d.p.e.d.c.d.P.D. L. secondo cui la quantità di eroina rinvenuta nell’organismo del Reggiani non era da "overdose assoluta" o comunque tale "da non essere in grado il soggetto di metabolizzarla" (cfr. nota 5, pag. 9 del ricorso); la colpa del C. sarebbe stata ritenuta sussistente dalla Corte territoriale sulla base di un percorso argomentativo non in sintonia con il dettato dell’art. 586 c.p., quale interpretato dalle Sezioni Unite con la sentenza Ronci, del 22 gennaio del 2009: ad avviso del ricorrente "non può certo affermarsi che la consumazione in un’unica soluzione di una quantità eccessiva di stupefacente (pari dunque a più dosi) da parte di soggetto avvezzo all’assunzione della stessa sostanza sia condotta prevedibile" (così testualmente a pag. 15 del ricorso);

conclusivamente, secondo la tesi difensiva, il decesso del R. sarebbe stato evento non prevedibile, "poichè conseguenza non della cessione di una sostanza "normale" per qualità e quantità, bensì cagionata da un’imprevedibile assunzione uno actu da parte del R., accompagnata dalla contemporanea assunzione di alcool ed altro stupefacente, elementi questi non conosciuti, nè conoscibili dal C. ed idonei, se non a cagionare autonomamente l’evento morte, quanto meno ad accentuare gli effetti della droga ceduta" (cfr. pag. 16 del ricorso).

Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che preliminarmente – avuto riguardo alla data di consumazione del reato, al titolo del reato medesimo ed alla pena edittale per lo stesso prevista, e tenuto conto che all’imputato sono state concesse le attenuanti generiche e quella della minore età, con giudizio di equivalenza rispetto all’aggravante contestata – occorre verificare se, alla data della odierna udienza, sia interamente decorso il termine massimo di prescrizione.

Orbene, la decisione di primo grado è datata all’11.3.2009 e quella di secondo grado al 6.4.2010. Alla fattispecie, dunque, deve trovare applicazione la L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 2, per il quale le disposizioni della L. n. 251 del 2005, art. 6 non si applicano ai procedimenti ed ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti. Nel caso di specie i nuovi termini di prescrizione sono sicuramente più brevi del complessivo termine di 15 anni che dovrebbe computarsi a dare applicazione al testo abrogato dell’art. 157 c.p., essendo stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado, come detto, in data 11 marzo 2009 (dunque, successivamente all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005) e tenuto conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui "ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli" (Sez. Un., n. 47008 del 29/10/2009 Ud. – dep. 10/12/2009 – imp. D’Amato, Rv. 244810). L’art. 589 c.p. è stato contestato, infatti, nella forma aggravata dall’art. 586 c.p., ed in primo grado sono state concesse le attenuanti generiche e la diminuente della minore età ma solo come equivalenti all’aggravante contestata (con conseguente termine massimo prescrizionale di 15 anni in relazione alla pena edittale massima di 5 anni di reclusione). Va precisato che l’art. 586 c.p., in ragione della sua dizione letterale ("la pena è aumentata"), deve intendersi non configurare una circostanza ad effetto speciale; per determinare il tempo necessario a prescrivere occorre avere riguardo, in ragione dell’art. 157 c.p., comma 2, vigente, alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato, senza tenere conto di diminuzioni per attenuanti o dell’aumento per aggravanti; il tempo necessario a prescrivere, ai sensi dell’art. 157 c.p., comma 1, vigente e dell’art. 589 c.p. (reclusione da 6 mesi a 5 anni) è dunque pari a sei anni, e, computando le interruzioni, il termine va posto, ex artt. 160 e 161 c.p., a 7 anni e 6 mesi.

Ciò posto, va rilevata l’intervenuta prescrizione. Detta causa estintiva del reato deve invero ritenersi verificata pur tenendo conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte – con sentenza (imp. Cremonese) del 28 novembre 2001, depositata l’11 gennaio 2002 – in tema di sospensione del decorso del termine di prescrizione in conseguenza di impedimento dell’imputato o del suo difensore: mette conto sottolineare, invero, che, per come si evince dagli atti a disposizione di questo ufficio, non si rilevano periodi di sospensione nel giudizio di appello, mentre per il giudizio di primo grado si rileva un solo periodo di sospensione della prescrizione (in quanto riconducibile a rinvio per impedimento del difensore), esattamente dal 20/4/2005 al 15/6/2005, insufficiente, per la sua durata, a procrastinare il termine di prescrizione oltre l’odierna udienza: il termine massimo di prescrizione – pari a 7 anni e 6 mesi, al quale va aggiunta una sospensione pari ad 1 mese e 25 giorni (dal 20 aprile 2005 al 15.6.2005) – è già maturato al 13 gennaio 2011 (in relazione alla data del fatto, 17 maggio 2003).

Tanto premesso, occorre adesso verificare se, avuto riguardo ai motivi dedotti dal ricorrente – in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte distrettuale nell’impugnata sentenza – il ricorso presenti profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perchè basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità: cfr. Sez. Un. n. 32 del 21/12/2000 – Cc. 22/11/2000 – Rv. 217266 Imp. De Luca).

Orbene, il ricorso non presenta connotazioni di inammissibilità, tenuto conto delle diffuse argomentazioni svolte nel ricorso, con particolare riferimento all’individuazione dell’elemento soggettivo del reato in relazione alla giurisprudenza in materia di questa Corte.

Deve ancora sottolinearsi, per completezza argomentativa ed una volta esclusi profili di inammissibilità del ricorso, che, ove si volessero considerare in tutto o in parte fondati i rilievi mossi dal ricorrente al percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, l’intervenuta prescrizione del reato non consentirebbe l’annullamento con rinvio per nuovo esame. Questa Corte, infatti, ha affermato, e più volte ribadito, il principio di diritto secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, perchè l’inevitabile rinvio della causa all’esame del giudice di merito dopo la pronuncia di annullamento è incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dall’art. 129 c.p.p. (in termini, "ex plurimis": Sezioni Unite, n. 1653/93, imp. Marino ed altri, RV. 192471; Sez. Un., n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, RV. 244275). Per quel che concerne, infine, l’applicabilità dell’art. 129, comma 2, codice di rito, va ricordato che, in forza dei consolidati principi di diritto enunciati da questa Corte, il sindacato di legittimità, appunto ai fini della eventuale applicazione della disposizione appena citata, deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata (cfr.

Sez. Un., Tettamanti, cit.): qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, ed in presenza di gravame che non risulti affetto da inammissibilità originaria (che non consentirebbe di rilevare la causa estintiva del reato, secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte in materia), deve essere dichiarata l’estinzione del reato. Nel caso in esame non sussistono le condizioni per una pronuncia assolutoria, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, atteso che nelle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata (conforme a quella di primo grado) – già innanzi ricordate (nella parte relativa allo "svolgimento del processo") e da intendersi qui integralmente richiamate onde evitare superflue ripetizioni – non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei ad integrare la prova evidente dell’innocenza degli imputati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, senza rinvio, perchè il reato è estinto per prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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