Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-06-2012, n. 9025 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 9.2.2006, la Corte di Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il termine apposto al contratto del 1.6.2000, stipulato per esigenze eccezionali conseguenti a processi di ristrutturazione ex art. 8 del c.c.n.l. del 1994, accertando che tra l’appellante Q.A. e la società Poste Italiane era intercorso sin dal 1.6.2000 un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, e condannava la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dal 26.9.2002, essendo stato il contratto stipulato dopo il 30.4.1998, in assenza di disposizione derogatoria stabilita dalla contrattazione collettiva L. n. 56 del 1987, ex art. 23. Rilevava che non valeva invocare la risoluzione consensuale per decorso del tempo tra la scadenza del termine e la proposizione di azione giudiziale intesa a far valere la nullità del termine, in mancanza di ulteriori elementi univoci che denotassero una tale volontà e che il tentativo obbligatorio di conciliazione rappresentava valido atto di messa a disposizione di energie lavorative del prestatore di lavoro, non potendo detrarsi l’aliunde perceptum in presenza di deduzione affatto generica del datore a riguardo.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la società Poste Italiane, con cinque motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso la Q., esponendo ulteriormente le proprie difese con memoria.

Il presente giudizio, sospeso in attesa della decisione della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionalità della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, è pervenuto nuovamente alla trattazione del Collegio.

Motivi della decisione

Preliminarmente, deve rilevarsi la nullità della procura apposta a margine della comparsa di costituzione di nuovo difensore del 16.4.2012, con la quale risulta dalla Società Poste Italiane conferito mandato nel presente giudizio all’avv. Rossana Clavelli, in sostituzione dell’avv. Anna Maria Ursino, con la conseguente nullità della costituzione in giudizio della prima, ferma restando la validità della costituzione in giudizio della seconda. Nel giudizio di cassazione è stato affermato da questa Corte (nel regime anteriore alla L. n. 69 del 2009) che "la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso o dal controricorso, essendo necessario, in alternativa, il suo conferimento nella forma prevista dal citato art. 83, comma 2 (cfr.

Cass 9.4.2009 n. 8708; Cass. 20.8.2009 n. 18528).

D’altra parte, nella fattispecie, ratione temporis, neppure potrebbe invocarsi il nuovo testo dell’art. 83 citato, secondo il quale la procura speciale nel giudizio di cassazione, può essere apposta a margine od in calce anche di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, in quanto lo stesso "si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 45 (4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data, se la procura non viene rilasciata a margine od in calce al ricorso e al controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall’art. 83, comma 2" (cfr. Cass. 26.3.2010 n. 7241, Cass. 28.7.2010 n. 17604 e Cass. 4476/2012).

Con il primo motivo, la società denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando la natura non negoziale ma meramente ricognitiva degli accordi successivi a quello del 25.9.1997.

Con il secondo, ascrive alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ribadendo la erroneità della tesi della limitata efficacia temporale dell’accordo del 25.9.1997, interpretato in violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e senza considerare gli accordi ulteriori, e limitandosi al senso letterale delle disposizioni. Evidenzia il permanere delle esigenze della ristrutturazione aziendale poste a fondamento della stipula, rispetto alle quali anche gli accordi successivi si configuravano come mere prese d’atto della situazione valutata dalle parti sociali.

Con il terzo motivo, deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 1217 e 1223 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando la non idoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a configurare la mora accipiendi del datore di lavoro, dovendo verificarsi la prova della suddetta offerta di prestazioni lavorative in concreto.

Con il quarto motivo, la società lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, evidenziando che, ai fini della risoluzione de rapporto per mutuo consenso, rileva la mancanza di operatività del rapporto per tempo apprezzabile, significativa della volontà delle parti di sciogliere il rapporto.

Con il quinto motivo e con riguardo alla questione dell’aliunde perceptum, osserva come la prestazione di attività per terzi da parte del lavoratore dopo la scadenza del rapporto a termine, dedotta tempestivamente, non sia stata valutata dal giudice del merito.

Con i primi due motivi, da trattarsi congiuntamente per la connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, viene dedotto che l’art. 8 del c.c.n.l. del 1994, così come integrato dall’accordo 25-9-97, subordinava la sua applicazione unicamente all’esistenza di un processo di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali dell’azienda, per cui l’interpretazione di tale accordo compiuta dalla Corte di Firenze risulta viziata, oltre che dall’erronea lettura della L. n. 56 del 1987, art. 23, che ha condizionato, viziandola irrimediabilmente, anche la successiva esegesi della disciplina contrattuale, anche dall’autonoma e concorrente violazione delle regole ermeneutiche legali di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. (ed in particolare del criterio letterale e del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione). Le censure non possono essere accolte.

In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato dei lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove, però, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8- 2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Alla stregua di tale orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo. Nè a diverse conclusioni può giungersi dall’esame dell’accordo del 18.1.2001, ovvero della disposizione di cui all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, pure invocati dalle Poste a sostegno del proprio assunto.

Si ha riguardo ad un accordo – stipulato ad oltre due anni di distanza dall’ultima proroga – che non potrebbe coprire mai il "vuoto" normativo creatosi nel periodo precedente, rendendo legittimi comportamenti posti in essere in contrasto con norme imperative di legge. Ed in ogni caso il nuovo accordo non potrebbe mai travolgere diritti già acquisiti nel patrimonio di terzi nel periodo intermedio (cfr. in termini Cass. n, 15331 del 7.8.2004).

Risulta, dunque, irrilevante il richiamo all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, sia perchè esso si riferisce chiaramente alle sole assunzioni da effettuare dopo l’entrata in vigore del nuovo contratto, sia perchè la possibilità di procedere ad assunzioni a termine "per esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione" è subordinata all’esito di confronto con la controparte sindacale a livello nazionale ovvero a livello regionale, il che, a ben vedere, conferma l’inesistenza di qualsiasi pregresso accordo generale per tale tipo di assunzioni.

Con riguardo al terzo motivo, relativo alla mora accipiendi, vale osservare che la relativa prospettazione si rivela priva di autosufficienza, in quanto, pur evidenziandosi l’idoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a configurare valido atto di messa in mora, non se ne riporta il contenuto, al fine di consentire alla Corte di valutare la fondatezza del rilievo. Deve, quindi, dichiararsene l’inammissibilità.

Merita di essere disatteso il quarto motivo, in virtù di considerazioni già espresse da questa Corte, con le quali si è rilevato nel senso che "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo e che la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Nella specie la Corte d’Appello ha implicitamente e correttamente ritenuto che non vi era stato alcun comportamento della lavoratrice che potesse far presumere una sua acquiescenza alla risoluzione del rapporto e che il solo decorrere del tempo tra la cessazione di quest’ultimo ed il tentativo di conciliazione non poteva essere in alcun modo interpretato come volontà di accettazione della risoluzione per mutuo consenso.

Infine, quanto al motivo di impugnazione relativo all’aliunde perceptum, deve rilevarsi che la censura si fonda sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe omesso di motivare, se non in via piuttosto generica, in ordine ad un fatto controverso ed in parte decisivo per il giudizio e con lo stesso si deduce la violazione del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., nonchè dell’art. 421 c.p.c., in ragione dell’omissione di ogni decisione in merito alla richiesta formulata dalla società, volta ad ottenere l’esibizione della documentazione necessaria al fine di consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti dalla Q. per attività svolte alle dipendenze e/o nell’interesse di terzi. Si afferma, poi, che l’aliunde perceptum non possa che essere genericamente dedotto, essendo, se mai, onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, e che, in definitiva, fatti costituenti parte determinante della res controversa non hanno formato oggetto di una valutazione da parte del giudice del merito, con conseguente vizio della sentenza. Osserva questa Corte che la deduzione del vizio come prospettata avrebbe reso necessario trascrivere il motivo dedotto in sede di gravame, al fine di consentire alla Corte di valutare la denunziata omissione valutativa e che comunque, in termini più generali, la stessa non coglie nel segno e risulta formulata in dispregio del principio di autosufficienza, non riportandosi neanche il contenuto preciso delle istanze istruttorie asseritamente avanzate e disattese dalla Corte del merito, in ragione della ritenuta natura astratta delle enunciazioni che si intendevano provare o in relazione alle quali era stato sollecitata l’attivazione di poteri istruttori d’ufficio.

A ciò consegue la declaratoria di inammissibilità del quinto motivo.

Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Orbene, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie, benchè, con sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 siano state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1. Ed invero, il motivo dedotto in relazione alla quantificazione del risarcimento è stato dichiarato inammissibile, il che preclude ogni esame della questione.

Il ricorso va, in conclusione, complessivamente respinto e le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico della società ricorrente nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 3000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2012

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