Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-06-2012, n. 9020

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 12.5.2005 (recte 3.11.2005)/17.2.2006 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Roma il 5.6.2003, impugnata da C.S., dichiarava la nullità del termine apposto al contratto stipulato fra il predetto e le Poste Italiane per il periodo 16.12.1998/30.1.1999, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994, "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

Osservava in sintesi la corte territoriale che, trattandosi di contratto stipulato, successivamente al 30.4.1998, si doveva ritenere che gli accordi sindacali intervenuti successivamente all’accordo del 25.9.1997 non fossero meramente ricognitivi del perdurare delle esigenze legittimanti le assunzioni a tempo determinato, ma erano piuttosto volti a stabilire precisi limiti di scadenza all’autorizzazione alla stipulazione di contratti a tempo determinato, con la conseguenza che era inibito alle parti di autorizzare retroattivamente, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica, la stipulazione di contratti a termine non più legittimati per effetto della durata in precedenza stabilita.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con tre motivi. Resiste con controricorso C.S., il quale ha anche proposto ricorso incidentale e depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Con il primo ed il secondo motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 230 del 1962, della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, poteva essere esercitato senza limiti di tempo, non prevedendosi alcun limite temporale al riguardo, con la conseguenza che agli accordi c.d. attuativi del contratto del 25.9.1997 non poteva che riconoscersi una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle esigenze sottese alla necessità di stipulare ulteriori contratti a termine.

Con il terzo motivo la società ricorrente censura la sentenza impugnata, prospettando violazione degli artt. 1217e 1233 c.c., per aver omesso di verificare se vi fosse stata effettiva costituzione in mora da parte del lavoratore e per aver, comunque, omesso di accertare, ai fini dell’entità del risarcimento, se e in che misura lo stesso avesse svolto attività lavorativa successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro a termine, potendo essere l’aliunde perceptum sol genericamente dedotto dal datore di lavoro. Col ricorso incidentale, infine, la intimata prospetta violazione degli artt. 112, 114, 115 e 432 epe e 1218, 1227, 2094, 2099, 2967 c.c., nonchè vizio di motivazione, rilevando che erroneamente la corte territoriale aveva escluso il diritto al risarcimento del danno atteso che la messa in mora era intervenuta a distanza di oltre tre anni dalla cessazione del rapporto a termine. 2.1 ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

3. Va preliminarmente dichiarata la inammissibilità della costituzione, quale nuovo procuratore della società ricorrente, dell’avvocato Rossana Clavelli, fermo restando la permanente validità della costituzione del precedente difensore. Deve, infatti, ribadirsi che (nel regime anteriore alla L. n. 69 del 2009) "la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poichè l’art. 83 c.p.c., comma 3, nell’elencare gli atti in margine o in calce ai quali può essere apposta la procura speciale, indica con riferimento al giudizio di cassazione soltanto quelli sopra individuati; ne consegue che se la procura non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal cit.

art. 83 c.p.c., comma 2 cioè con atto pubblico o scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata" (così ad es. Cass. n. 8708/2009, Cass. n. 18528/2009).

Nè, nella fattispecie, potrebbe invocarsi ratione temporis il nuovo testo dell’art. 83 c.p.c., secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso e dal controricorso (come, nel caso, la memoria di nuovo difensore in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato), in quanto lo stesso si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 45 (4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data, se la procura non viene rilasciata a margine o in calce al ricorso o al controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall’art. 83 c.p.c., comma 2 (v. da ultimo Cass. n. 4476/2012).

4. Con riferimento al primo ed al secondo motivo del ricorso principale, vanno, quindi, ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

Questa Corte ha, infatti, affermato, sulla scia di Cass. S.U. n. 4588/2006, che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. n. 21063/2008,v. anche Cass. n. 9245/2006, Cass. n. 4862/2005, Cass. n. 14011/2004). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatali, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. n. 21062/2008, Cass. n. 18378/2006).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. n. 18383/2006, Cass. n. 7745/2005, Cass. n. 2866/2004). In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l, 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. n. 20608/2007, Cass. n. 7979/2008, e da ultimo ad es. Cass. n. 6294/2011; Cass. n. 7502/2011).

5. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile.

Il motivo, che si fonda sul presupposto che il giudice di appello abbia condannato la società ricorrente al pagamento delle retribuzioni con decorrenza dalla costituzione in mora, risulta, infatti, privo di ogni attinenza col decisum, avendo la sentenza impugnata, in realtà, escluso il diritto del lavoratore al risarcimento, rigettando la domanda per tal scopo avanzata in giudizio; sicchè inammisibile, anche per difetto di interesse, risulta la relativa censura.

6. Meritevole di accoglimento è, invece, il ricorso incidentale.

Giova, al riguardo, premettere come, secondo l’insegnamento risalente di questa Suprema Corte, formatosi in particolare con riferimento alla fattispecie dell’art. 18 St., devono ritenersi suscettibili di risarcimento i danni evitabili dal lavoratore con l’ordinaria diligenza, atteso che l’art. 1227 c.c., comma 2 (che stabilisce che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza) pone a carico di quest’ultimo il dovere di non aggravare con il fatto proprio e con la propria condotta il pregiudizio subito (v. ad es. già Cass. n. 5766/1994), fermo restando, riguardo all’elemento della colpa, come non possa essere preso in considerazione ogni comportamento che astrattamente possa aggravare il danno, ma solo quello che ecceda l’ordinaria diligenza, essendo costituito il limite dell’esigibilità del comportamento attivo dall’"ordinaria", e non dalla "straordinaria" diligenza, nel senso che le attività che il creditore è tenuto a porre in essere ai fini dell’evitabilità del danno non devono essere gravose o straordinarie (v. ad es. di recente Cass. n. 9898/2005; Cass. n. 12867/2004; Cass. 9850/2002).

In questo contesto, e con specifico riferimento alla questione se possa costituire fonte di danno risarcibile l’inerzia processuale, e quindi il maggior tempo trascorso tra l’illecito ed il suo accertamento giudiziale, nella giurisprudenza di legittimità è accreditata l’affermazione che l’ordinaria diligenza esige che il lavoratore faccia tempestivamente valere in giudizio il suo diritto (v. ad es. Cass. n. 10072/1995; Cass. n. 5766/1994),ma è, al tempo stesso, puntualizzato che , iniziata l’azione giudiziaria, "l’ordinaria diligenza è tuttavia nella valutazione della legittimità della pretesa giudiziale e nella tempestività con cui questa è fatta valere dal lavoratore; (per cui) questi ha il "diritto" di attendere il giudiziale riconoscimento del proprio diritto" (così Cass. n. 11786/2002), e, più in particolare, che, se non può escludersi la rilevanza di comportamenti di quest’ultimo gravemente dilatori (cfr. Cass. n. 9898/2005; Cass. n. 320/1992), il tempo impiegato per la tutela giurisdizionale non può in ogni caso essergli imputato come scarsa diligenza, stante l’esistenza di norma che ne regolano l’iter, con la previsione di termini perentori, che consentono ad entrambe le parti di interferire nell’attività processuale, e, comunque, per la presenza, per entrambi le parti, di poteri processuali paritetici per la tutela dei diritti e la conseguente riduzione del danno (v. ad es. Cass. n. 734472010; Cass. n. 9898/2005; Cass. n.5993/1995; Cass. n. 7872/1991).

Nel caso, la corte territoriale ha sostanzialmente omesso di chiarire le ragioni per le quali, nonostante la rituale messa in mora della società ricorrente e la conseguente imputabilità alla stessa del mancato ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro, fosse configurabile una colpevole inerzia e un contegno dilatorio del lavoratore, e ciò senza nemmeno verificare se fra la cessazione del rapporto di lavoro, l’offerta della prestazione di lavoro e l’instaurazione del giudizio fosse trascorso un tempo tale da far constatare comportamenti gravemente dilatori e fermo restando che il tempo impiegato per la tutela giudiziaria non può essere imputato quale causa di danno.

In ogni caso, a seguito dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni sul contratto a termine contenute nella L. n. 183 del 2010, il diritto al risarcimento del danno del ricorrente incidentale rinviene ora fondamento nella previsione dell’art. 32, commi 5 e 6 dello stesso testo, che, come noto, stabilisce che, "nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva…".

Alla luce, infatti, di tale disposizione, il risarcimento, seppur nella misura forfetizzata prevista, è sempre dovuto in favore del lavoratore, a prescindere dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dall’esistenza stessa di un danno effettivo per il lavoratore, non assumendo, nella struttura della norma, alcun rilievo l’aliunde perceptum, che non vale più a delimitare la misura del danno risarcibile dal creditore della prestazione, tenuto ad adempiere l’obbligazione per il sol fatto dell’accertamento della nullità del termine, e, quindi, per effetto di una norma, che, per come non ha mancato di avvertire il giudice delle leggi (cfr. Corte cost. n. 303 del 2011), assume contenuto eminentemente sanzionatorie.

Il ricorso principale va, dunque, rigettato, mentre va accolto quello incidentale. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio ad altro giudice di pari grado, il quale provvederà a nuovo esame, sulla base dei criteri di interpretazione indicati, regolando anche le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, accoglie quello incidentale, cassa e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2012

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