Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-06-2012, n. 9019 Conciliazione in sede sindacale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato ai sensi dell’art. 149 c.p.c. in data 21-22 febbraio 2007. la s.p.a. Poste Italiane chiede, con un duplice motivo, la cassazione della sentenza depositata il 21 febbraio 2006, con la quale la Corte d’appello di Firenze, riformando la decisione del giudice di primo grado, ha condannato la società, a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 così come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 "per esigenze eccezionali… " – al contratto di lavoro intercorso con M.A.M. il 30 settembre 1999 e con S.R. il 16 ottobre 1998, a risarcire alle lavoratrici il danno, rapportato alle retribuzioni perdute dall’atto di messa in mora del creditore della prestazione.

In particolare, la società ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23; dell’art. 1362 c.c. e segg. nonchè il vizio di omessa motivazione in relazione al combinato disposto degli artt. 414 e 434 c.p.c. per avere respinto con motivazione generica l’eccezione di aliunde perceptum proposta dalla società.

Alle domande della società hanno resistito con un unico controricorso le intimate.

Successivamente la società ha depositato copia del verbale di conciliazione in sede sindacale intervenuta con S.R. il 9 ottobre 2008.

Motivi della decisione

Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti S.R., per il venir meno dell’interesse allo stesso a seguito della cessazione della materia del contendere conseguente all’intervenuta conciliazione stragiudiziale in sede sindacale. Le spese del relativo giudizio vanno compensate tra le parti nello spirito dell’accordo raggiunto.

Il ricorso nei confronti M.A.M. è anzitutto infondato nel primo motivo.

I giudici di merito hanno infatti, tra l’altro, individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 31 maggio 1998 e quindi in data antecedente a quella del contratto di lavoro in esame.

In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di "delega in bianco" alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato (espresso anche in sede di diretta interpretazione delle norme del C.C.N.L. ai sensi di quanto stabilito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte, che qui si ribadisce sulla base della diretta conoscenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro da interpretare, ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della resistente per la causale indicata, in quanto stipulati successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Con riguardo all’ultima censura del ricorso, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Tali disposizioni prevedono: il comma 5, che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a ri-sarcire il lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8; il comma 6, che, in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purchè stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, i quali contemplino l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità è ridotto alla metà; il comma 7, che tali previsioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge.

In proposito, va premesso che nel giudizio di legittimità costituisce condizione necessaria per poter applicare lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente e in maniera ammissibile, secondo la disciplina loro propria, le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine; deve pertanto altresì trattarsi di motivi non tardivi, generici o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366-bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis (applicabilità da escludere nel caso di specie).

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Premessi tali principi, è da rilevare che nel caso in esame la società ricorrente contesta che la corte di merito abbia disatteso l’eccezione di sottrazione dal danno da risarcire del c.d. aliunde perceptum, pur genericamente dedotto dalla ricorrente.

In proposito, va peraltro rilevato che una tale deduzione non investe il reale contenuto della sentenza che ha respinto il motivo di appello relativo alla sottrazione del c.d. aliunde perceptum.

La Corte territoriale ha infatti motivato la propria decisione col rilievo che la domanda di risarcimento del danno formulata in giudizio era limitata alla richiesta di condanna generica, con rinvio ad altra sede dell’accertamento del relativo quantum ed ha ritenuto che è in quest’ultima sede e non nel presente giudizio che andrà proposto e risolto il problema.

La mancanza di censure in ordine a tale motivazione rende inammissibile la parte finale e subordinata del motivo, con conseguente non applicabilità al caso in esame della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 – 7.

Concludendo, in base alle considerazioni esposte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, secondo la liquidazione fatta in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di S. R., spese relative compensate; rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 2.500,00, per onorari, oltre accessori di legge (spese generali del 12,50%, IVA e CPA).

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2012

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