Cons. Stato Sez. VI, Sent., 28-12-2011, n. 6888 Energia elettrica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il presente ricorso in revocazione si rivolge avverso la decisione del Consiglio di Stato, VI, 22 gennaio 2007, n. 140 che confermava la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Milano, IV, n. 83 del 2006.

1.1 Con quella sentenza il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia respingeva il ricorso proposto dalla Società elettrica Liparese avverso la deliberazione dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas n. 145 del 6 agosto 2004, che determinava le aliquote definitive di integrazione tariffaria spettante alle imprese elettriche minori, non trasferite all’Enel, per il periodo 1991/1998, nonché l’accertamento del diritto al riconoscimento della voce di utile di impresa anche per gli esercizi precedenti al 1991.

La società appellante risultava essere una "impresa elettrica minore", che vende l’energia a prezzi stabiliti autoritativamente in misura inferiore ai costi di esercizio; per tale ragione, usufruiva di integrazioni economiche poste a carico di un fondo di compensazione, gestito dalla Cassa Conguaglio per il Settore Elettrico (CCSE).

Per quanto concerne le integrazioni tariffarie, spettanti dal 1991 al 1998, l’Autorità aveva provveduto a rideterminare tale integrazione, dovendo includere, in esecuzione di precedenti giudicati, una componente di utile aggiuntiva rispetto al ripiano delle perdite di bilancio derivante dalla produzione di energia a costi svantaggiati.

Veniva dapprima adottata la deliberazione 26 luglio 2000, n. 132, con la quale era prevista la remunerazione del patrimonio netto delle imprese secondo un tasso ricavabile mediante una apposita formula.

Con una successiva deliberazione, la n. 63 del 2002, l’Autorità rideterminava le aliquote per gli anni dal 1991 al 1998, ai fini della corresponsione dell’integrazione in questione. Tale delibera venne a sua volta annullata in sede giurisdizionale causa l’illegittima esclusione degli ammortamenti anticipati dalle poste di bilancio.

Con la deliberazione 6 agosto 2004, n. 145, l’Autorità determinava nuovamente le aliquote in questione nei confronti dell’impresa ricorrente.

2. Tale decisione veniva impugnata in primo grado davanti al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia.

Nel ricorso veniva lamentata l’asserita sottovalutazione del patrimonio netto dell’azienda, poiché l’utile calcolato per ciascun anno sarebbe stato preso in considerazione solo per individuare la relativa aliquota annuale, mentre non se ne sarebbe tenuto conto per l’individuazione del patrimonio netto dell’anno successivo.

Secondo l’appellante, ai fini del calcolo del patrimonio netto dell’azienda, si sarebbe dovuto tenere conto di tutti gli utili che sarebbero derivati con l’applicazione delle aliquote di integrazione tariffaria, sommati tra loro anno per anno.

3. Questa VI Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza di cui oggi si domanda la revocazione, confermava il rigetto del ricorso di primo grado, con una motivazione che si ritiene utile riportare nelle sue linee essenziali.

Veniva in primo luogo ricordato che l’Autorità aveva dovuto stabilire, ora per allora, un meccanismo di calcolo per quantificare l’utile di impresa e rideterminare le integrazioni tariffarie dirette a remunerare sia le perdite, sia il mancato conseguimento di utile.

Il sistema di calcolo, stabilito con la deliberazione n. 132 del 2000, era fondato sul rapporto tra indebitamento e patrimonio netto dell’impresa: il patrimonio netto assumeva rilievo sia ai fini della determinazione di tale rapporto, che costituisce componente della formula, sia perché il tasso di remunerazione deve poi essere applicato proprio sul patrimonio netto.

L’Autorità aveva applicato la formula, includendo nel patrimonio netto "gli utili che sarebbero derivati applicando le aliquote definitive di integrazione tariffaria relative all’anno precedente a quello di riferimento", mentre l’appellante pretendeva l’inclusione di tutti gli utili, relativi alle diverse annualità precedenti.

In astratto, tutti gli utili non distribuiti entrano a far parte del patrimonio netto di un’impresa, ma nel caso di specie non poteva essere trascurato il fatto che si stesse operando fittiziamente ora per allora e ciò determinava la necessità di introdurre misure compensative, che evitassero effetti distorti della formula.

Il mancato reinvestimento degli utili derivava dal ritardo da parte dell’amministrazione nel corrispondere la corretta integrazione tariffaria, ma una volta posto rimedio a tale errore, all’attribuzione di tali utili non poteva sommarsi un esponenziale aumento del tasso di remunerazione del patrimonio netto, che si sarebbe avuto includendo in tale patrimonio gli utili di tutti gli anni precedenti, e non solo dell’ultimo anno. Utili, per i quali, peraltro, non è certo sapere se sarebbero stati trattenuti in azienda o distribuiti, in tutto o in parte.

La tesi dell’appellante avrebbe condotto, sia secondo il giudice di primo grado che secondo il Consiglio di Stato, ad una remunerazione plurima in relazione alle medesime entità, con un evidente effetto moltiplicatore nella determinazione dell’integrazione.

Del resto, l’Autorità non si era limitata a riconoscere l’integrazione tariffaria sulla base di un patrimonio netto aumentato dell’utile dell’esercizio dell’anno precedente, ma aveva correttamente tenuto conto anche delle pregresse perdite, applicando un correttivo (U) al fine di incrementare il valore del patrimonio netto delle perdite, che non vi sarebbero state se l’integrazione fosse stata attuata tempestivamente.

Ciò in relazione alla necessità di introdurre misure compensative per adattare il meccanismo di calcolo a specifici casi, in cui a distanza di anni si provvedeva a determinare in via definitiva l’integrazione tariffaria, solo tardivamente riconosciuta dall’amministrazione.

La tesi dell’appellante avrebbe condotto – secondo entrambi i livelli di giudizio – ad un ulteriore aumento del ristoro, con un meccanismo moltiplicatore dei benefici che, opportunamente e legittimamente, l’Autorità aveva già corretto con le misure sopra ricordate.

Con decisione 7 febbraio 2007, n. 512 questa VI Sezione del Consiglio di Stato respingeva il ricorso avanzato, confermando la sentenza del giudice di primo grado.

4. Avverso la decisione del Consiglio di Stato presentava questo ricorso per revocazione la Società elettrica Liparese: lamentava che l’applicazione del predetto correttivo (U) non avesse tuttavia sortito alcuna particolare incidenza. Infatti, risulterebbe dalle schede istruttorie prodotte in udienza, che il ricalcolo del valore con il correttivo (U), per gli anni dal 1991 al 1998 non recava alcuna differenza in relazione agli anni 19911995; risultando invece una somma qualificata come correttivo solo per gli anni 1996, 1997 e 1998. La mancata considerazione di tale elemento oggettivo, avrebbe quindi determinato un errore di fatto tale da giustificare il ricorso al rimedio della revocazione.

5. La causa veniva assunta in decisione nella pubblica udienza del 25 ottobre 2011.

5.1 Preliminare ad ogni apprezzamento nel merito, e preclusiva dello stesso, è la considerazione dell’inammissibilità del ricorso per revocazione, posto che nella specie non ne sussiste il tassativo presupposto di cui all’art. 395, n. 4, Cod,. proc. civ.. circa il preteso "errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa" (cfr. oggi anche l’art. 106 Cod. proc. amm.;)

Il Collegio ricorda che questo presupposto opera quando vi è stata nel giudice una svista materiale tale da averlo indotto ad affermare l’esistenza di un fatto che obiettivamente non esiste, oppure a considerare inesistente un fatto che, viceversa, risulta positivamente accertato.

Ritiene il Collegio che il preteso profilo di erroneità denunciato non si riferisca all’erronea assunzione nel giudizio di un fatto, bensì ad una operazione di valutazione di un fatto a suo tempo operata dal giudice, costituendo, pertanto, un non ammissibile sindacato sul merito della pronuncia.

5.2 Venendo poi ad un ulteriore motivo di reclamo, con il quale viene contestata la decisione n. 140 del 22 gennaio 2007 della VI Sezione del Consiglio di Stato relativamente all’accertamento della prescrizione del diritto al riconoscimento della quota utile di impresa anche per gli anni antecedenti al 1991, anche tale motivo non può essere esaminato, per le medesime ragioni.

Il motivo poggia sulla mancata o erronea valutazione del comportamento della ricorrente alla luce del d.m. 19 novembre 1996. La sentenza stabilisce che anche prima della deliberazione dell’Autorità n. 132 del 2000, che determinava la formula di calcolo, l’appellante avrebbe potuto agire per contestare, per gli anni precedenti al 1991, la mancata inclusione di una componente di utile aggiuntiva rispetto al ripiano delle perdite di bilancio derivante dalla produzione di energia a costi svantaggiati. Come risulta in atti, l’impresa ricorrente aveva già impugnato il d.m. 19 novembre 1996 nella parte in cui faceva riferimento a criteri da adottare per la determinazione dell’utile, con ricorso poi parzialmente accolto dal Tribunale amministrativo per il Lazio con sentenza del 14 aprile 1998, n. 841.

L’eccezione oggi prospettata, e già non accolta dal Consiglio di Stato con la sentenza del 2007, relativa al mancato riconoscimento della quota di utile di impresa anche per gli anni precedenti al 1991, avrebbe tuttavia ben potuto essere avanzata in quella sede, senza attendere la successiva deliberazione dell’Autorità n. 132 del 26 luglio 2000, che si limitava a determinare la formula di calcolo, non intervenendo sul già acquisito diritto all’inclusione della componente utile aggiuntiva rispetto al ripiano delle perdite di bilancio, anteriormente al 1991.

La limitazione temporale avrebbe ben potuto essere fatta allora tempestivamente valere. Non vale dunque tardivamente e con l’improprio mezzo del ricorso per revocazione invocarla in questa sede, al di fuori delle tassative ed eccezionali ipotesi in cui un siffatto mezzo è ammesso dalla legge (art. 106 Cod. proc. amm.; art. 395 Cod. proc. civ.).

Tale motivo di doglianza non può dunque trovare ingresso: anche in questo caso non si tratta di un errore derivante dalla ritenuta esistenza di un fatto che obiettivamente non esiste, oppure dal considerare inesistente un fatto che risulti invece positivamente accertato. Si tratta piuttosto della censura di un convincimento liberamente e compiutamente assunto dal giudice, in relazione ad elementi, fatti e normative a suo tempo già noti.

Il ricorso per revocazione va quindi dichiarato inammissibile.

Sussistono sufficienti ragioni per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, dichiara inammissibile il ricorso avanzato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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