Cassazione penale, Sentenza n. 17305 del 2011 Stupefacenti. La crisi di astinenza non incide sulla capacità di intendere e volere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Ritenuto in fatto

[OMISSIS] ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 8 aprile 2009 della Corte di appello di Firenze che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Livorno, ha ridotto la pena a mesi 10 di reclusione per i reati ex art. 337 e 582 c.p., deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1) le conformi sentenze dei giudici di merito in punto di colpevolezza.
Con sentenza del 9 gennaio 2007, all’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Livorno ha affermato la responsabilità di [OMISSIS] in ordine ai delitti di lesioni aggravate e resistenza a pubblico ufficiale, a lui ascritti al capo A) della rubrica, nonché di danneggiamento aggravato, di cui al capo B) e, concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, ed applicata la diminuente dei rito, lo ha condannato alla pena di anni 1, mesi 4 di reclusione, interamente condonata a sensi della legge 241/2006.

La Corte di appello di Firenze con sentenza 8 aprile 2009 accertati i fatti, ha escluso la circostanza che l’imputato fosse affetto da una permanente alterazione dei processi intellettivi, assimilabile alla malattia mentale ex art. 89 c.p., essendo solo desumibile dagli atti, con evidenza, che il suo comportamento violento fu determinato da un contingente stato di agitazione da crisi di astinenza, in assenza di “psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti”.

La corte distrettuale peraltro, avuto riguardo ai complessivi criteri di valutazione di cui all’art. 133 c.p., ha ritenuto eccessiva la sanzione inflitta, pur considerando la non trascurabile gravità dei fatti ascritti, avuto riguardo: al particolare stato emotivo del soggetto al momento dei fatti e l’incidenza dello stato di agitazione determinato dalla crisi di astinenza sulle sue condizioni intellettive e volitive in quella situazione; all’omessa valutazione delle attenuanti generiche non essendo stata contestata, relativamente al più grave delitto di cui all’art. 337 c.p., alcuna aggravante.

Considerato in diritto

1) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di rigetto della Corte di legittimità.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo della mancata applicazione nella specie del disposto dell’art. 89 c.p. ed avuto riguardo alla pronuncia delle S.U. in tema di disturbi gravi di personalità.
Il motivo è infondato attesa la corretta motivazione del giudice del gravame.
Come già detto, la corte distrettuale – in punto di invocata seminfermità di mente dell’imputato – ha ritenuto che nella specie, non vi sia prova che l’imputato fosse affetto da una permanente alterazione dei processi intellettivi, assimilabile alla malattia mentale e rilevante ex art. 89 c.p., essendo solo desumibile dagli atti, con evidenza, che il suo comportamento violento fu determinato da un contingente stato di agitazione da crisi di astinenza, in assenza di “psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti”.

Premesso che per “crisi di astinenza”, si intende usualmente quello stato di sofferenza psicofisica (idoneo a causare anche reazioni organiche) che colpisce la persona la quale sospende oppure riduce bruscamente il consumo abituale di sostanze (quali alcool, farmaci o droga), idoneo a creare stati di dipendenza, il tenore del gravame impone una breve rassegna delle regole rilevanti sul tema ed avuto riguardo alle pronunce della Corte di legittimità la quale ha più volte ribadito:

a) che non tutti gli stati di tossicomania, la quale è una dipendenza meramente psichica alla droga, o di tossicodipendenza, che è una assuefazione cronica alla stessa, producono di per sé alterazione mentale o disagio psichico rilevante agli effetti di cui agli artt. 88 e 89 c.p., ma solo quegli stati di grave intossicazione da sostanze stupefacenti che sono in grado di determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico dell’imputato, incidendo profondamente sui processi intellettivi o volitivi di quest’ultimo (Cass. pen. sez. 6, 6357/1996 Rv. 205097);

b) che la situazione di tossicodipendenza, in grado di influire sulla capacità di intendere e di volere, è solo quella che, per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie e consistenti disagi che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione A strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica. (Cass. pen. sez. 3, 35872/2007 Rv. 237284);

c) che per escludere (o diminuire) l’imputabilità, l’intossicazione da sostanze stupefacenti non solo deve essere cronica (cioè stabile), ma deve produrre un’alterazione psichica permanente, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie e disagi che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti; lo stato di tossicodipendenza non costituisce, pertanto, di per sé, indizio di malattia mentale o di alterazione psichica (Cass. pen. sez. 6,7885/1999 Rv. 214757);

d) che, in ogni caso, in tema di intossicazione acuta dovuta all’uso di sostanze stupefacenti, per la sussistenza del vizio di mente (totale o parziale) non è sufficiente che il giudice di merito riconduca l’azione dell’imputato ad un modello di infermità apoditticamente affermata, ma, proprio ai fini della corretta qualificazione del vizio, è necessario che indichi e valuti motivatamente i dati anamnestici, clinici, comportamentali, evincibili dalle stesse modalità del fatto, ragionevolmente rivelatori dell’asserito quadro morboso, agli effetti della sua “graduabilità” rispetto all’imputabilità. Cass. pen. sez. 6, 31483/2004 Rv. 229793 );
Orbene, nella specie, la Corte di appello con un giudizio di merito – rispettoso delle regole sub a), b) e c) – in questa sede insindacabile, ha ritenuto che la crisi di astinenza, nei termini rilevati nella condotta dell’accusato, sia stata inidonea a realizzare quella grave compromissione dei processi di intelligenza e volontà richiesta dal legislatore, il quale ha dato all’interprete un grado di misura espresso con l’inequivoca espressione “scemare grandemente”.

Nella vicenda comunque, provata l’esistenza di una crisi di astinenza, difetta invece la diversa prova di una realtà di cronica intossicazione o comunque di un disagio psichico capace di indurre una infermità di mente grandemente efficace sulla funzionalità dell’intendere e/o di volere.
Conclusione questa che non può essere invalidata dalla richiamata decisione delle S.U. 9163 del 25 gennaio 2005.
In termini va subito premesso che, secondo la più accreditata e sensibile dottrina psichiatrico – forense e medico legale, nonché per le scienze del comportamento in genere, è ormai pacifico che le nozioni di “capacità di intendere e di volere” e quella di “vizio di mente” non corrispondono a categorie scientifico-naturalistiche. Esse altro non sono che convenzioni giuridiche, nate in un periodo storico dominato dall’ideologia positivista ed ancorato a una psichiatria biologica che non è conforme alle moderne correnti psicodinamiche e fenomenologiche: esse peraltro hanno un contenuto sostanziale che la dottrina e la prassi giurisprudenziale necessariamente si sforzano di adeguare ai tempi, come avvenuto in tema di disturbi gravi di personalità.

Su tale tema infatti un punto nodale di riferimento è notoriamente dato dalla sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005 delle Sezioni Unite, la quale ha stabilito che anche i “disturbi della personalità”, come quelli da nevrosi e da psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa.

Peraltro la portata dell’affermazione è stata dalla stessa Corte tarata e ridimensionata con le ulteriori precisazioni che sono state date dalle regole-corollario secondo cui non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” o gli “stati emotivi e passionali”, i quali non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente. È inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.
Per riassumere: i disturbi della personalità (nevrosi e psicopatie) possono essere apprezzati alla luce delle norme degli artt. 88 ed 89 C.P., con conseguente pronuncia di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, a condizione che essi abbiano, riferiti alla capacità di intendere e di volere, le seguenti qualità, globalmente in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione dell’autore del fatto illecito e cioè:
consistenza e intensità, intese come valore concreto e forte; rilevanza e gravità pesate come dimensione importante del disagio stabilizzato; c) rapporto motivante con il fatto commesso, apprezzato come correlazione psico – emotiva rispetto al fatto illecito (cfr. in termini: Cass. pen. sez. 6, 43285/2009 Rv. 245253).

Orbene, venendo al caso di specie, l’affermata mera condizione di un generico stato di agitazione da crisi da astinenza, in capo all’autore della condotta illecita (di resistenza violenta, di lesioni e di danneggiamento), non accompagnata da altre provate indicazioni in termini di grande e grave disassamento, da infermità, delle funzioni noetiche e volitive dell’agente, non integra lo schema dogmatico dell’art. 89 c.p., dato che essa realizza una mera condizione di stato emotivo e passionale, non incidente ex art. 90 c.p. sugli ambiti dell’intendere e del volere, anche se utilizzabile, come avvenuto nella gravata sentenza in termini di graduazione del trattamento sanzionatorio.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un secondo motivo si lamenta la mancata applicazione nel massimo delle ritenute e riconosciute circostanze attenuanti generiche.

Il motivo per come formulato è inammissibile: i giudici di merito, con argomentazione non censurabile in questa sede, hanno applicato le circostanze attenuanti generiche per il reato più grave in misura diversa da quella massima, avuto riguardo ai reati satelliti e ai pesanti precedenti penali dell’imputato.

Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata in Cancelleria il 5 maggio 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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