Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 06-06-2012, n. 9155 Assegno di invalidità Previdenza sociale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 15.3.10 la Corte d’appello di Bari rigettava il gravame interposto da C.M. contro la pronuncia del Tribunale di Foggia che ne aveva respinto la domanda di assegno di invalidità civile (risalente, in sede amministrativa, al 29.9.03) proposta nel contraddittorio di INPS e Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Ritenevano i giudici del merito che, pacifici i requisiti sanitario e reddituale, nella specie difettassero, però, allegazione e prova del requisito socio-economico della incollocazione al lavoro dell’attrice.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la C. affidandosi ad un solo motivo.

L’INPS ha depositato procura in calce alla copia notificata del ricorso e ha poi discusso la causa in udienza.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze è rimasto intimato.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di doglianza si deduce violazione e/o falsa applicazione della L. n. 118 del 1971, art. 13 L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 1 B, lett. a) D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1, comma 1 E, tabella A, D.P.R. n. 333 del 2000, art. 1, comma 1 e L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6 perchè, proprio in virtù della sentenza n. 22113/09 di questa Corte (pur richiamata dalla gravata pronuncia), per le donne ultrasessantenni ed Infrasessantacinquenni (tale era la C. alla data della domanda amministrativa), prive del diritto di essere iscritte nelle liste speciali di collocamento avendo ormai raggiunto l’età pensionabile, il requisito socio-economico della incollocazione era soddisfatto semplicemente dall’effettivo stato di non occupazione, dimostrabile con gli ordinari mezzi di prova, presunzioni comprese.

Il motivo è infondato.

Come da ultimo questa S.C. ha avuto modo di segnalare (v. Cass. 29.3.12 n. 5085) sulla questione – avuto riguardo al regime anteriore a quello del nuovo testo della L. n. 118 del 1971, art. 13 introdotto con la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 35 che, tra l’altro, non si riferisce più agli "incollocati al lavoro", bensì agli invalidi "che non svolgono attività lavorativa" (v. anche il successivo comma 36, che ha abrogato la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 249) – Cass. 4.6.2009 n. 12916 ha enunciato il principio secondo cui "in materia di diritto all’assegno mensile di invalidità, nella vigenza della L. n. 68 del 1999, deve ritenersi incollocato al lavoro l’invalido che, uomo o donna, essendo in età lavorativa per non avere ancora compiuto il sessantacinquesimo anno di età ed essendo iscritto (o avendo presentato domanda d’iscrizione) nell’elenco dei disabili di cui alla L. n. 68 del 1999, non abbia conseguito un’occupazione in mansioni compatibili".

In senso contrario, Cass. 19.10.2009 n. 22113 (invocata da parte ricorrente) ha invece affermato che "ai fini del riconoscimento dell’assegno di invalidità civile, le donne invalide ultrasessantenni ed infrasessantacinquenni, che non hanno più diritto ad essere iscritte nelle liste speciali di collocamento per aver raggiunto l’età pensionabile, possono dimostrare il requisito dell’incollocamento al lavoro, richiesto per l’erogazione delle relative prestazioni, provando, con gli ordinari mezzi di prova, ivi comprese le presunzioni, lo stato di effettiva disoccupazione o di non occupazione".

In particolare la prima pronuncia, premesso che nella vigenza della precedente normativa (L. n. 482 del 1968) la giurisprudenza di questa S.C. aveva ritenuto che per "incollocato", ai sensi della L. n. 118 del 1971, art. 13 doveva intendersi colui che avesse invano cercato un’occupazione, sicchè tale comportamento si sostanziava nell’aver attivato i meccanismi previsti dalla citata L. n. 482 del 1968 e, quindi, nell’essersi iscritto o nell’aver presentato domanda di iscrizione nelle liste speciali, essendo rimaste identiche le finalità dell’incollocazione al lavoro quale requisito per conseguire l’assegno di invalidità, ha affermato, anche nella nuova disciplina di cui alla L. n. 68 del 1999, la necessità dell’iscrizione (o, quanto meno, della domanda di iscrizione) dell’invalido nell’elenco speciale (art. 8 di detta legge).

La stessa sentenza ha, poi, osservato che la L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 1 che non prevede più il limite dei cinquantacinque anni ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale, "non fa riferimento all’età pensionabile (diversificata tra gli uomini e le donne secondo quanto indicato nella tabella A allegata al D.Lgs. n. 503 del 1992) bensì all’età lavorativa, che i precetti costituzionali di cui all’art. 3 Cost., e all’art. 37 Cost., comma 1, non consentono di regolare per la donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, e che, giusta il disposto del D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1, comma 2, deve ritenersi fissata, per entrambi i sessi, a 65 anni".

La seconda pronuncia, partendo dalla medesima premessa del principio affermato da Cass. S.U. n. 203/1992 e successive e considerando, altresì, che tale principio, presupponendo la giuridica possibilità di iscrizione nelle dette liste, è stato ritenuto da questa Corte Suprema non utilizzabile riguardo ai soggetti per i quali l’iscrizione medesima è preclusa per il superamento del cinquantacinquesimo anno di età, ha rilevato che con la L. n. 68 del 1999 tale limite è stato abolito, applicandosi la legge stessa "alle persone in età lavorativa affette da…".

La stessa sentenza ha poi rilevato che il D.P.R. n. 333 del 2000 (regolamento di esecuzione della legge) ha stabilito che "possono ottenere l’iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio le persone disabili, di cui alla L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 1, che abbiano compiuto i quindici anni e che non abbiano raggiunto l’età pensionabile prevista dall’ordinamento, rispettivamente per il settore pubblico e per il settore privato" ed ha ritenuto che, nonostante le difficoltà derivanti dal quadro assai composito e diversificato di accesso ai trattamenti pensionistici, il riferimento all’età pensionabile contenuto nel cit. D.P.R, non potesse comunque ignorare la differenziazione generale tra uomini e donne tuttora vigente.

Da ciò la medesima pronuncia ha arguito che, con il raggiungimento dell’età pensionabile, le donne invalide ultrasessantenni ed infrasessantacinquenni, non potendo più iscriversi nelle liste speciali di collocamento, ben potessero, ai fini del diritto all’assegno mensile di invalidità, dimostrare – con gli ordinari mezzi di prova, presunzioni comprese – il solo stato di effettiva disoccupazione.

Ritiene il Collegio di aderire alla prima esegesi, così come ha fatto la summenzionata Cass. 29.3.12 n. 5085, non potendosi sottovalutare l’elemento letterale che, ormai, fa riferimento, senza distinzione di sesso, al concetto di "età lavorativa" (da intendersi come "età oltre la quale si può essere licenziati ad nutum" v.

Cass. 8.7.04 n. 12640) e non più a quello di "età pensionabile".

Rileva a tal fine il richiamo, operato dalla cit. Cass. n. 12916/2009, al limite di età (di 65 anni) previsto per tutti (uomini e donne) dal D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1, comma 2, in base al quale, in combinato disposto con la L. n. 407 del 1990, art. 6 sia i lavoratori che le lavoratrici, ferme restando l’identica età lavorativa e la diversa età pensionabile, sono licenziabili ad nutum ove abbiano conseguito (o abbiano richiesto) la liquidazione della pensione di vecchiaia, per la quale risulta coerentemente prescritto il requisito della cessazione del rapporto di lavoro (v. Cass. n. 12640/2004 cit.).

La previsione di un riferimento generalizzato all’età lavorativa uguale per tutti i soggetti protetti risulta conforme allo spirito della L. n. 68 del 1999.

La soluzione cui si da continuità non è inficiata dal riferimento all’età pensionabile che si legge nel cit. D.P.R. n. 333 del 2000, emanato ai sensi della L. n. 68 del 1999, art. 20 dovendosi intendere il regolamento alla luce della norma primaria cui da esecuzione e non certo il contrario.

2- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Si compensano fra ricorrente e INPS le spese del giudizio di legittimità, visto il contrasto giurisprudenziale di cui s’è dato conto.

Non è dovuta pronuncia sulle spese riguardo al Ministero intimato, che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Compensa fra ricorrente e INPS le spese del giudizio di legittimità. Nulla spese riguardo al Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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