Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 09-11-2011) 24-11-2011, n. 43323 Giudizio d’appello sentenza d’appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Napoli, con sentenza in data 30 settembre 2010, confermava la sentenza del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli, in data 2/10/2008, appellata da P. A., dichiarato colpevole di appropriazione indebita di merce, nella qualità di depositario della società Reno De Medici s.p.a. e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione e Euro 600 di multa, pena sospesa, oltre al risarcimento dei danni a favore della parte civile.

Proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo i seguenti motivi:

a) nullità della sentenza per omessa notifica all’imputato, non comparso in udienza, davanti alla Corte di appello, dell’avviso di udienza nel domicilio dichiarato in via (OMISSIS), notificato invece, ai sensi dell’art. 161 c.p.p. presso il difensore, a mani del portiere, senza l’adempimento delle prescritte formalità previste in tale ipotesi;

b) violazione di legge in cui è incorso il GIP che non si è limitato a inviare al PM la formulazione coatta dell’imputazione ma l’ha egli stesso determinata, in violazione del principio di separazione delle funzioni giurisdizionali sancito dalla Costituzione, dal codice penale e dal combinato disposto ex artt. 405 e 409 c.p.p.;

c) violazione di legge in ordine alla penale responsabilità dell’imputato fondata su dichiarazioni testimoniali che avrebbero dovuto essere dichiarate inutilizzabili, facendo riferimento alla conoscenza di date e circostanze relative ad altri soggetti non escussi nel processo e non essendovi prova certa che la comunicazione dell’ordine di "stop" delle vendite sia stata effettivamente conosciuto dall’imputato, stante la chiara intenzione di assolvere ai suoi oneri di mandatario, senza potersi configurare alcune interversione del possesso. Riteneva quindi mancare il dolo specifico del reato, non avendo venduto le merci per se ma quale mandatario della querelante società che alla fine dell’anno 2004 ha venduto la merce alla società querelata, ritenendo trattarsi di insolvenza dai risvolti esclusivamente civilistici;

d) vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena che non risulta essere corrispondente alla gravità del reato, dovendosi contenere la pena entro il limite di mesi due, riconoscendosi la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche;

e) estinzione del reato per prescrizione.

Motivi della decisione

1) In ordine logico va esaminato, preliminarmente, l’ultimo motivo di ricorso relativo alla estinzione del reato per prescrizione, peraltro solo genericamente richiesta.

Preliminarmente, si deve osservare che nella presente fattispecie, decisa con sentenza del 2/10/2008, si applicano – ex L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 393 del 23/11/2006 – le nuove regole sulla prescrizione, comunque, più favorevoli all’imputato.

Il termine prescrizionale, per il reato di appropriazione indebita è di anni sette, mesi sei (anni sei + 1/4% per l’interruzione), non ancora decorso dall’epoca del commesso reato (dicembre 2004), indipendentemente da eventuali cause di sospensione.

2) Anche gli altri motivi di ricorso sono infondati.

Con riferimento al primo motivo va osservato che nel caso di domicilio dichiarato, la notificazione del decreto di citazione in giudizio con consegna di copia al difensore di fiducia, invece che presso il domicilio dichiarato dall’imputato, da luogo ad una nullità a regime intermedio dal momento che la notificazione presso il difensore, salvo che risultino elementi di fatto contrari, non è inidonea a determinare, in ragione del rapporto fiduciario, la conoscenza effettiva del procedimento da parte dell’imputato (Sez. 2, Sentenza n. 45990 del 07/11/2007 Ud. (dep. 07/12/2007) Rv. 238509).

Ne consegue che si è in presenza non certo di una omissione della notifica o situazione ad essa equiparata, con conseguente impossibilità di configurazione di nullità assoluta e insanabile.

Si è in presenza piuttosto, di una nullità di ordine generale che è rimasta sanata per avere, il difensore presente nelle udienze del 28/9/2010 e 30/9/2010 , omesso di eccepire alcunchè dinanzi ai giudici di appello. Va infatti rilevato che, secondo quanto prevede l’art. 182 c.p.p., comma 2, "quando la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo"; sicchè, non essendo stata effettuata, nel giudizio di appello, dal difensore di fiducia del ricorrente, è rimasta indeducibile in questa fase del giudizio (Cass., sez. 1^, 6 aprile 2000, Nardi, m. 216198, Cass., sez. 5^, 12 maggio 2004, Pastore m. 229520).

Il ricorrente, non specifica, inoltre, se questa presunta irregolarità abbia di fatto impedito la conoscenza effettiva dell’atto di citazione. Infatti, "l’imputato che intenda eccepire la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi a denunciare la inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non avere avuto cognizione dell’atto e indicare gli specifici elementi che consentano l’esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice" (Cass. Sez. Un. rv 229541). Tale motivo è, quindi, infondato.

3) Anche il secondo motivo, già disatteso dalla Corte territoriale, è infondato. Il GIP, ai sensi dell’art. 409 c.p.p., comma 5 se non accoglie la richiesta di archiviazione prospettata dal PM, ordina allo stesso di formulare l’imputazione e quest’ultimo è vincolato dalla ricostruzione del fatto ed alla qualificazione giuridica operata dal GIP. Non da luogo ad alcuna nullità indicare da parte del GIP al PM una "ipotesi di contestazione" che venga condivisa dal PM che la faccia propria, valendo quale formulazione dell’imputazione da parte dello stesso.

4) Il terzo motivo di ricorso propone censure di merito ad una decisione logicamente motivata anche "per relationem".

In proposito si deve osservare che in tema di motivazione della sentenza di appello, è consentita quella "per relationem", con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano (come nel caso di specie) elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dallo stesso: il giudice del gravame non è infatti tenuto a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello che sia stata già risolta dal giudice di primo grado con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici (Sez. 6, Sentenza n. 31080 del 14/06/2004 Cc. – dep. 15/07/2004 – Rv. 229299;

Sez. 2, Sentenza n. 16716 del 11/02/2005 Ud. – dep. 16/05/2006 – Rv.

234409).

La Corte territoriale ha ritenuto che il comportamento del ricorrente configuri una ipotesi di appropriazione indebita di merce (cartoni e cartoncini) in danno della società Reno De Medici s.p.a, sulla base della condotta descritta in modo concorde dei testi G.M. e R.M.. Le censure proposte dal ricorrente, pur investendo formalmente la motivazione del provvedimento impugnato o la conformità dello stesso ai presupposti giuridici che lo giustificano, in realtà si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito. Tali censure sono pertanto improponibili, perchè superano i limiti cognitivi di questa Suprema Corte, che, quale giudice di legittimità, deve far riferimento solo all’eventuale mancanza della motivazione o alla sua illogicità o contraddittorietà. (Si vedano fra le tante: C SU 12/12/1994, De Lorenzo, CED 199391; C 6^ 15/05/2003, P., GD 2003, n 45,93).

5) Infondato è anche il motivo di ricorso con il quale la difesa del P. lamenta una carenza di motivazione della Corte territoriale sulla richiesta e non concessa prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti e sulla diminuzione della pena irrogata in primo grado. Infatti la Corte di appello ha evidenziato i vari elementi di cui all’art. 133 c.p., già evidenziati dal Tribunale, che l’hanno indotta a confermare la pena irrogata dai primi giudici.

Sul punto questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che in tema di circostanze del reato, con riferimento alla globalità del giudizio di comparazione tra circostanze attenuanti ed aggravanti, previsto dall’art. 69 cod. pen., tale giudizio può ritenersi adeguatamente motivato se il giudice pone in risalto una sola delle circostanze suscettibili di valutazione di prevalenza o di equivalenza rispetto alle altre circostanze, per dimostrare la ragione del proprio convincimento;

infatti, il giudice non è tenuto a specificare analiticamente le singole circostanze e ad indicare le rispettive ragioni che lo hanno indotto a formulare il giudizio di comparazione. (Sez. 2, Sentenza n. 9387 del 15/06/2000 Ud. – dep. 02/09/2000 – Rv. 216924; Sez. 6, Sentenza n. 41362 del 09/11/2006 Ud. – dep. 18/12/2006 – Rv. 235433).

Lo stesso discorso vale, naturalmente, per l’individuazione, da parte del Giudice, della pena da irrogare. La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p. (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278).

Conclusivamente il ricorso va rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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