Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-06-2012, n. 9234

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Roma ha respinto l’appello del sig. A.D. avverso la sentenza con cui il 14 luglio 2004 il Tribunale della stessa città aveva, a sua volta, respinto l’opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento della s.a.s. Edicala, nonchè del sig. D.C.F. e dello stesso A.D., quali soci accomandatari, proposta dai falliti.

L’appellante aveva lamentato in particolare: l’incompetenza territoriale del Tribunale di Roma, avendo la società trasferito la propria sede in (OMISSIS); l’insussistenza dello stato di insolvenza; la violazione dell’art. 10, L. Fall. con riferimento all’appellante stesso, uscito dalla società oltre un anno prima della dichiarazione del fallimento.

Al riguardo la Corte ha osservato:

– che il Tribunale aveva disatteso l’eccezione di incompetenza in quanto mancava la prova dell’effettivo trasferimento della sede, "non operando la società in (OMISSIS), luogo nel quale era del tutto sconosciuta (anche presso il Registro delle Imprese), alla data del fallimento non risultava alla Camera di Commercio alcun trasferimento di sede, vi erano assegni e cambiali protestate all’indirizzo di (OMISSIS)";

– che a fronte di ciò l’appellante si era limitato ad osservare, con affermazione di puro stile, che il fascicolo fallimentare, di cui aveva chiesto l’acquisizione, conteneva documenti non specificati attestanti il contrario; e comunque il trasferimento asserito dall’appellante sarebbe avvenuto nell’imminenza del fallimento, rilevando a tal fine non la data della dichiarazione del fallimento stesso, ma la crisi dell’impresa;

– che lo stato d’insolvenza della società, contestato in primo grado dall’appellante esclusivamente sotto il profilo del carattere temporaneo di quella crisi, emergeva invece dallo stato passivo, cui erano stati ammessi crediti per complessivi Euro 1.670.745,48, senza che l’appellante avesse allegato alcunchè quanto ai mezzi che avrebbero potuto garantire la fuoriuscita dalla crisi stessa; e del resto anche la dedotta entità non rilevante dei singoli crediti stava appunto a confermare che la società era insolvente, data la pluralità dei suoi creditori e la sua dimostrata incapacità di far fronte persino a debiti di importo non elevato;

– che non sussisteva la violazione del termine di cui all’art. 10, L. Fall., dedotta dall’ A. sul rilievo che il suo fallimento era stato dichiarato il (OMISSIS) mentre egli aveva ceduto la propria quota societaria (al D.C.) il 26 giugno 2003 e aveva richiesto l’iscrizione della cessione nel registro delle imprese il 10 luglio successivo, anche se poi l’iscrizione era stata eseguita soltanto il 1 agosto: infatti l’appellante aveva emesso titoli di credito in date – 30 giugno e 30 luglio 2003 – successive alla cessione della quota, dunque aveva continuato l’attività e non si era affatto sciolto dal vincolo sociale; inoltre tale scioglimento non era opponibile ai terzi se non dalla data in cui era stato pubblicizzato ai sensi dell’art. 2290 c.c., comma 2.

Il sig. A. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi di censura. Le parti intimate non hanno svolto difese.

Il ricorrente ha anche presentato memoria.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell’art. 9, L. Fall., si lamenta che la Corte d’appello abbia respinto l’eccezione d’incompetenza territoriale del Tribunale di Roma appiattendosi sulla decisione del primo giudice, nonostante non fosse stata raggiunta la prova del carattere fittizio del trasferimento della sede da (OMISSIS); con la conseguenza che era da presumere, in base alla giurisprudenza di legittimità, la coincidenza della sede effettiva con la sede legale risultante dalla delibera di trasferimento assunta il 26 giugno 2003, oltre un anno prima della dichiarazione del fallimento e, dunque, senza che neppure potesse ritenersi l’irrilevanza del trasferimento stesso ai sensi del secondo comma dell’art. 9, L. Fall..

1.1. – Il motivo è inammissibile.

La ratto della decisione dei giudici di appello sul punto in questione è che il gravame era generico nello smentire gli accertamenti del Tribunale circa la ineffettività del trasferimento della sede e la mancata pubblicazione dello stesso nel registro delle imprese. Il ricorrente non coglie, e dunque non censura, detta ratio, ma si limita a riproporre la questione di competenza.

Nè il ricorrente si avvede, per di più, che il Tribunale aveva accertato che il trasferimento della sede sociale non risultava presso il registro delle imprese. Tale circostanza è decisiva, perchè la mancata pubblicazione del trasferimento comporta 1’inopponibilità ai terzi del trasferimento stesso, ai sensi dell’art. 2300 c.c., u.c., anche ai fini dell’individuazione del giudice competente per la dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. 4183/1984, con riferimento a società di capitali). Il ricorrente, però, non la smentisce specificamente (obiettando, cioè, che la società aveva invece provveduto tempestivamente agli adempimenti pubblicitari all’uopo necessari) e l’unico, generico riferimento, nel ricorso (a pag. 8, ult. capoverso), a una "visura camerale" è fatto ai soli fini della documentazione dell’avvenuta deliberazione del trasferimento, non anche della pubblicazione dello stesso e della relativa data, che non viene neppure indicata.

2. – Con il secondo motivo, denunciando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (a) si censura la motivazione dell’accertamento dello stato di insolvenza e (b) si lamenta, altresì, che la sentenza impugnata non contenga alcuna motivazione in ordine alla questione, sollevata con l’atto di appello, della riferibilità dell’insolvenza ad obbligazioni contratte dalla società prima dell’uscita dell’ A..

2.1. – Il motivo è inammissibile.

La censura sub (a) è generica nella parte in cui viene dedotta la fallacia dei dati risultanti dallo stato passivo, cui vanno ammessi anche crediti non esigibili ma scaduti solo per effetto delle dichiarazione del fallimento, senza tuttavia precisare quali fossero nella specie siffatti crediti; per il resto si sostanzia in una pura e semplice critica di merito.

La questione sub (b) non era stata sollevata nel giudizio di primo grado (nè la sentenza impugnata, nè lo stesso ricorrente deducono che ciò fosse avvenuto), dunque era stata inammissibilmente sollevata davanti al giudice d’appello, che pertanto non era tenuto ad affrontarla nel merito.

3. – Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 10 e 147, L. Fall.. Il ricorrente sostiene che l’anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell’ex socio decorre dalla data della sua uscita dalla società – nella specie pacificamente avvenuta il 26 giugno 2003, con la cessione della quota dall’ A. al D. C. – e non da quella della pubblicazione della stessa, come si ricaverebbe anche da Corte Cost. 319/2000 e 66/1999; e che comunque nella specie l’iscrizione della cessione nel registro delle imprese, ancorchè eseguita il 1 agosto 2003, era stata richiesta il 10 luglio precedente, dunque ugualmente oltre un anno prima della dichiarazione del fallimento avvenuta il (OMISSIS).

3.1. – Il motivo è infondato.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che il recesso del socio di società di persone, di cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell’art. 2290 c.c., comma 2 è inopponibile ai terzi, con ciò dovendosi intendere che non produce i suoi effetti al di fuori dell’ambito societario; conseguentemente, il recesso non adeguatamente pubblicizzato non è idoneo ad escludere l’estensione del fallimento pronunciata ai sensi dell’art. 147, L. Fall., nè assume rilievo il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa dì fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto riguarda i terzi, a quel momento è ancora in atto (Cass. 4865/2010, 19304/2006, 18927/2005, 14962/2004).

Le medesime considerazioni devono ripetersi, per identità di ratio, quanto all’uscita del socio dalla società per cessione della quota, parimenti soggetta a iscrizione nel registro delle imprese (ai sensi dell’art. 2300 c.c.).

Nè è esatto che il far decorrere il termine annuale dall’adempimento pubblicitario, piuttosto che dal compimento dell’atto comportante l’uscita dalla società, contrasti con gli assunti delle richiamate decisioni del giudice delle leggi, le quali non si sono affatto pronunciate sul punto. E del resto la indicata disciplina della decorrenza del termine corrisponde a un’ovvia esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi, che è alla base del regime di pubblicità previsto dalla legge per le vicende societarie.

Detta esigenza di tutela dei terzi, poi, spiega perchè non possa neppure darsi rilievo alla data della richiesta della iscrizione nel registro delle imprese, piuttosto che a quella dell’esecuzione della stessa. Solo l’effettuazione della pubblicità – non certo la sua mera richiesta – soddisfa, infatti, l’esigenza in questione.

4. – Con il quarto motivo, denunciando vizio di motivazione, si censura l’accertamento del carattere fittizio dell’uscita dell’ A. dalla società.

4.1. – Il motivo è divenuto inammissibile una volta esclusa, con il rigetto del precedente motivo, la fondatezza della censura dell’alternativa, autonoma ratio decidendi in punto di violazione dell’art. 10, L. Fall..

5. – Il ricorso va in conclusione respinto.

In mancanza di difese delle parti intimate, non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2012
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