Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-06-2012, n. 9215 Contratto di formazione Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con sentenza del 25.7.2007, la Corte di Appello di Campobasso rigettava il gravame proposto da C.E. avverso la sentenza del Tribunale di Larino, con la quale era stato respinto il ricorso proposto dal predetto, inteso ad ottenere la conversione del rapporto instaurato con contratto di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con le conseguenze retributive di legge, siccome adibito a mansioni di manutenzione senza ricevere la formazione, ed il riconoscimento del diritto all’inquadramento, dall’inizio del rapporto, nella superiore qualifica D, posizione organizzativa 3, ed alle connesse differenze retributive, nonchè il riconoscimento del diritto al compenso per lavoro straordinario, svolto per indossare e dismettere il prescritto abbigliamento (c.d.

tempo tuta).

Osservava la Corte territoriale, dopo avere rilevato la mancata allegazione del CCNL dell’epoca, che i corsi frequentati erano sufficientemente diretti a formare il lavoratore operante nel settore chimico, che gli elementi probatori acquisiti avevano consentito di escludere la sussistenza di una approfondita conoscenza tecnica su plurime specializzazioni necessaria per l’inquadramento reclamato e che, quanto al tempo tuta, la attività di vestizione e svestizione era prevista in modo non tassativo, non era sanzionata, era effettuata in esiguo spazio temporale e non si concretizzava una eterodirezione al riguardo da parte del datore di lavoro, in relazione alla mancanza di ogni prescrizione sulla tempistica per l’operazione, anche se vi era precisa disposizione che la divisa dovesse essere indossata prima dell’entrata in reparto.

Per la cassazione della decisione indicata ricorre il C., con tre motivi.

Resiste la F.I.S. s.p.a., esponendo ulteriormente le proprie difese con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il C. denuncia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, dolendosi del fatto che, pur avendo la Corte territoriale rilevato correttamente che il ricorrente era stato, sin dalla data della sua assunzione, applicato a compiti meccanici entro l’officina, aveva contraddittoriamente ritenuto valido il contratto di formazione relativo ad operaio chimico stipulato dalla resistente.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa una fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riguardo alla domanda relativa al riconoscimento di qualifica superiore, rilevando come il contenuto delle mansioni, quale descritto dai testi escussi, sia riconducibile alla categoria superiore D, attenendo alla manutenzione completa delle pompe a tenuta doppia, all’individuazione dei guasti, allo smontaggio degli apparecchi meccanici. Assume che la declaratoria contrattuale della qualifica superiore rivendicata sia coerente con il contenuto delle mansioni espletate, avendo egli operato su macchinari diversi, che richiedevano una conoscenza ed una specializzazione molto approfondita e diversificata, e che il lavoro affidatogli era svolto in autonomia, essendo previsto l’intervento dei superiori solo all’insorgere di difficoltà complesse.

Con il terzo motivo, si duole della omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riguardo alla richiesta di riconoscimento del diritto al compenso per straordinario in relazione al c.d. tempo tuta. Rileva che era stato emanato ordine di servizio, reieterato, in cui si prescriveva per i dipendenti addetti alla produzione ed ai servizi tecnici di utilizzare sempre e soltanto gi indumenti protettivi personali in dotazione forniti dalla società e che la timbratura mediante badge all’inizio del lavoro dovesse essere effettuata dopo il cambio degli indumenti, così come quella a fine orario di lavoro, prima del cambio degli stessi nello spogliatoio.

Non era possibile, poi, trattenersi nello stabilimento fuori dell’orario di servizio senza autorizzazione scritta del superiore.

Ciò determinava, a dire del ricorrente, mancanza di libertà di autodeterminazione dei tempi di lavoro, attesa la regolamentazione assoluta e precisa delle modalità con cui i dipendenti devono entrare nello stabilimento, indossare gli abiti da lavoro e raggiungere la postazione di lavoro. Anche se la società non aveva dato direttive su quanto tempo il lavoratore deve utilizzare per indossare la tuta, aveva, tuttavia, con vari ordini di servizio, di fatto sanzionato e vietato agli stessi di utilizzare il tempo a loro disposizione prima e dopo della marcatura del cartellino all’interno dello stabilimento e, quindi, doveva ritenersi la computabilità del tempo tuta nell’orario di lavoro.

Il ricorso è infondato.

Con riguardo al primo motivo di impugnazione, deve rilevarsi che la Corte del merito ha valutato la conformità delle mansioni al progetto formativo prendendo in esame i corsi frequentati attinenti ad aspetti generali della produzione industriale del settore chimico ed ha ritenuto che l’attività espletata nel periodo di formazione fosse sufficientemente diretta alla formazione del lavoratore operante nel settore assegnatogli. L’indagine compiuta è pertanto stata rispettosa dei criteri che rilevano ai fini della valutazione di conformità richiesta e non è ravvisabile l’omissione dedotta, tenuto conto che nel contratto di apprendistato, come in quello di formazione e lavoro, l’attività formativa, che è compresa nella causa negoziale, è modulabile in relazione alla natura e alle caratteristiche delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere, potendo assumere maggiore o minore rilievo, a seconda che si tratti di lavoro di elevata professionalità o di semplici prestazioni di mera esecuzione, e potendo atteggiarsi con anticipazione della fase teorica rispetto a quella pratica, o viceversa, sempre che lo svolgimento della suddetta attività di formazione sia idoneo a raggiungere lo scopo del contratto – ossia l’inserimento effettivo nel lavoro dell’impresa mediante l’acquisizione di una professionalità adeguata – secondo una valutazione che è rimessa al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se congruamente motivata (cfr., in termini Cass. 13.2.2012, Cass. 22.4.2011 n. 9294 e Cass. 1.2.2006 n. 2247). In particolare, è stato affermato che l’inadempimento degli obblighi di formazione determina la trasformazione fin dall’inizio del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, qualora l’inadempimento abbia un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi nel contratto.

In questa seconda ipotesi il giudice deve valutare in base ai principi generali la gravita dell’inadempimento, giungendo alla declaratoria di trasformazione del rapporto in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza (cfr. Cass. 2247/2006 cit.). Nella specie è stato escluso, con motivazione adeguata e priva di salti logici, che ricorresse un inadempimento di non scarso rilievo rispetto al contenuto degli obblighi formativi del C., negandosi il riconoscimento di quanto invocato del predetto.

Con riferimento al secondo motivo di doglianza, deve rilevarsi che l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento in una determinata categoria, costituisce giudizio di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in cassazione se sorretto da logica e adeguata motivazione (cfr. Cass 2.9.2003 n. 12791, Cass. 5.3.2004 n. 4537, Cass. 10.7.2009 n. 16200). In particolare, agli effetti della tutela apprestata dall’art. 2103 cod. civ. – che attribuisce al lavoratore, utilizzato per un certo periodo di tempo da parte del datore di lavoro in compiti diversi e maggiormente qualificanti rispetto a quelli propri della categoria di appartenenza, il diritto non solo al trattamento economico previsto per l’attività in concreto svolta ma anche all’assegnazione definitiva alla qualifica superiore – condizione essenziale è che l’assegnazione alle più elevate mansioni sia stata piena, nel senso che abbia comportato l’assunzione della responsabilità diretta e l’esercizio dell’autonomia e della iniziativa proprie della corrispondente qualifica rivendicata. Nel caso considerato il ricorrente ritiene che la indagine del giudice del merito sia stata carente sotto il profilo della mancata considerazione della approfondita esperienza in più specializzazioni posseduta, essendo ciò emerso dalle deposizioni dei testi riportate, che avevano messo in luce lo svolgimento in autonomia della attività di manutenzione di complessi macchinari, nel corso della quale l’intervento del Capo officina si verificava saltuariamente per guasti non ripetitivi ma complessi. Al riguardo vale osservare che le mansioni del C. sono state giudicate congruenti con la qualifica attribuita per la accertata insussistenza dei requisiti (conoscenze teoriche di base relative alla propria specializzazione, esperienza approfondita di più specializzazioni, svolgimento in autonomia dei compiti, secondo metodi e procedure solo parzialmente definite, controllo, da parte del superiore, dei risultati operativi, eventuale guida e controllo di collaboratori), reputati concorrenti, della qualifica rivendicata e per l’assorbente rilievo che non era emersa la sussistenza di una "approfondita" conoscenza tecnica su plurime specializzazioni, non potendo questa farsi coincidere con la esistenza di differenti macchinari di produzione. In definitiva, le mansioni peculiari affidate al ricorrente sono state ritenute non espressione di funzioni specialistiche che richiedono un contributo professionale autonomo, sicuramente più elevato dell’apporto professionale richiesto ai dipendenti appartenenti al livello professionale posseduto.

La motivazione, pertanto, nella complessiva articolazione dei vari passaggi argomentativi, non presenta i profili di contraddittorietà evidenziati, posto che i termini del sillogismo risultano esplicitati e che il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore non è stato disatteso per mancata individuazione, come dedotto, di alcuni dei termini dello stesso, dandosi, al contrario, congruamente atto nella pronunzia delle fasi successive di tale procedimento, e cioè, dell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte dal C., dell’individuazione delle qualifiche previste dal contratto collettivo di categoria e del raffronto tra il risultato della prima indagine e le classificazioni contenute nella normativa contrattuale applicabile.

Una volta verificata la corretta applicazione dei criteri che regolano il detto procedimento valutativo, nessuna ulteriore censura trova spazio, atteso che, per consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, già sopra richiamato, l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed è insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto da logica ed adeguata motivazione ( cfr., tra le altre, anche Cass 30.10.2008 n. 26234).

La questione sottoposta alla Corte con il terzo motivo è stata ripetutamente affrontata in sede di legittimità, tanto che si è ormai formato un orientamento sufficientemente consolidato da poter essere brevemente, a questo punto, richiamato.

La Suprema Corte nella sentenza del 22.07.2008 n. 20199, ha stabilito "che rientra nell’orario di lavoro il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la rivestizione della divisa aziendale, quando luogo e tempo dell’operazione siano imposti dal datore di lavoro" (cfr. Cass. 2 luglio 2009 n. 15492, ma vedi, altresì, la conforme Cass. 14919 del 25.6.2009); ha, poi, nell’interpretare il R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3, a norma del quale "è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa", affermato che tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo e che esso debba essere pertanto retribuito ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa (cfr.: Cass 14 aprile 1998 n. 3763; Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734; Cass. 8 settembre 2006 n. 19273).

Nè può ritenersi che i principi enunciati in proposito dalla Corte possano essere superati – e resi più elastici – dalle norme che sono successivamente intervenute a disciplinare l’orario di lavoro. Non consente una siffatta conclusione la L. n. 196 del 1997, art. 13, che nello stabilire al comma 1, che "l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali", non reca alcun contributo alla soluzione del problema, dovendosi pur sempre stabilire, in casi simili a quello in esame, se le attività preparatorie rientrino o meno nell’orario "normale". Ed altrettanto è da dirsi in relazione al D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale, all’art. 1, comma 2, definisce "orario di lavoro" "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni"; e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere eccessivamente generico della definizione testè riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro) occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 e ss.).

Da tale compendio emerge che la eterodirezione appare elemento qualificante, unitamente alla circostanza che si tratti operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

E nella specie sicuramente l’obbligo è quello imposto dalle esigenze di produzione ed è dunque riferibile all’interesse aziendale e non certo a scelta discrezionale del lavoratore.

La sentenza impugnata ha, tuttavia, rilevato che non è emerso alcun elemento da cui potere desumere che il C. si presentasse venti minuti prima al lavoro per procedere alla vestizione, che non vi era alcun controllo sulla tale attività e sui tempi della stessa e che l’azienda è intervenuta solo esigendo che il dipendente prima si vestisse e poi si recasse alla postazione. Nell’ottica della Direttiva comunitaria 93/104 i lavoratori non possono considerarsi "a disposizione" quando indossano o dismettono la tuta, tale attività potendo avvenire anche nelle rispettive abitazioni. Al riguardo vale osservare che in via generale le attività anteriori al raggiungimento del posto di lavoro si collocano al di fuori dell’orario di lavoro a meno che il datore non intervenga autoritativamente nel disciplinare le stesse ed il lavoratore si sottoponga al potere direttivo dell’imprenditore per cui inizia la prestazione e sia a disposizione dello stesso, assoggettato al potere direttivo e gerarchico del medesimo. Correttamente è stato, pertanto, osservato dalla Corte territoriale, per giungere alla decisione di rigettare la domanda di riconoscimento dello straordinario richiesto, che non vi era un dovere del lavoratore di anticipare l’ingresso per svolgere una attività di vestizione della tuta avente il carattere di prestazione esigibile e denotativa di obbligazioni contrattuali. E’ stata, altresì, evidenziata l’ulteriore circostanza, parimenti incontestata, che non venivano irrogate sanzioni disciplinari in caso di inosservanza del divieto, e che nel periodo estivo alcuni lavoratori non indossavano la parte superiore della tuta. Nè rileva nei sensi richiesti dal ricorrente la circostanza che fosse vietato trattenersi prima e dopo la marcatura del cartellino all’interno dello stabilimento, essendo ciò non decisivo al fine di qualificare il tempo utilizzato per indossare gli indumenti come di effettivo lavoro, ove questo non fosse eterodiretto in modo dettagliato e puntuale anche con riguardo alla tempistica, così come argomentato in sentenza, dal datore di lavoro.

L’attività di vestizione ben poteva essere, dunque, riferibile al concetto di diligenza preparatoria, che concorre a qualificare l’obbligazione principale e che, come tale, non postula alcun corrispettivo economico ulteriore rispetto a quello pattuito per la prestazione lavorativa nel suo complesso.

Ogni ulteriore rilievo avanzato con la deduzione del vizio di motivazione sottende poi la richiesta, inammissibile, di una valutazione dei documenti indicati (nella specie ordini di servizio) diversa da quella compiutamente resa dalla Corte del merito, e conforme alla differente tesi prospettata.

Per le esposte argomentazioni, deve pervenirsi al complessivo rigetto del ricorso.

Le spese di lite de presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il C. al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, euro 3000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 9 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2012

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