Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-10-2011) 24-11-2011, n. 43372

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza della Corte d’appello di Palermo, che giudicava a seguito di rinvio dalla Cassazione, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Trapani in data 8 maggio 2007 i due imputati venivano assolti dal reato di cui all’art. 416 bis c.p. perchè il fatto non sussiste, venivano dichiarati non punibili per desistenza volontaria in ordine al reato di tentata estorsione di cui ai capi B) e C), venivano invece dichiarati colpevoli del reato di minaccia aggravata ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 e condannati, rideterminata la pena per il reato in continuazione con il capo D) in materia di armi, ad anni due e mesi sei di reclusione.

Inizialmente era stato ipotizzato che i due fratelli C., già condannati alla pena dell’ergastolo per l’omicidio in danno di P.F., avessero partecipato a due tentate estorsioni in danno di B.G. e B.I., presentandosi come soggetti legati all’associazione e quindi in grado di risolvere problematiche giunte allo stadio dell’intimidazione; all’esito del giudizio di appello era stato ritenuto che rispetto alla condotta estorsiva era stato posto in essere un recesso attivo da parte dei due, che impedì l’evento cioè il pagamento della somma richiesta.

La Corte di cassazione annullava però la sentenza sul presupposto che dovesse parlarsi non di recesso attivo, ma di desistenza, poichè gli imputati non solo non si presentarono a riscuotere dalle persone offese somma alcuna, ma neppure si accordarono per la consegna della stessa.

La Corte territoriale, in sede di rinvio, riteneva quindi sussumibile la condotta posta in essere dai due imputati sotto il paradigma della minaccia aggravata dalla L. n. 203 del 1991, art. 7, mettendo in evidenza che sia la telefonata con cui C. ebbe a rimproverare il B. di volersi opporre al volere della mafia che la dichiarazione resa dal Ba. in ordine al fatto che fu il C. a sollecitare in modo imperioso il pagamento di somma di denaro avevano un chiaro valore intimidatorio.

Veniva così rideterminata la pena in quella di anni due e mesi sei di reclusione per il reato continuato ritenuto.

2. Avverso tale pronuncia, hanno proposto ricorso per Cassazione entrambi gli imputati, pel tramite dei loro difensori.

2.1 C.G. deduce:

a) manifesta illogicità della motivazione e/o motivazione apparente, con riguardo all’affermazione di colpevolezza: non sarebbe stata compiuta dall’imputato alcuna minaccia, esclusa del resto dalle stesse persone offese. Sarebbe stato travisato il contenuto della telefonata intercorsa tra Ba. ed il ricorrente, laddove si parlava di regolarizzare il fratello del C., V., per consentirgli di accedere al credito. Così come distorta lettura sarebbe stata data alla conversazione intercorsa nella casa circondariale di Trapani, ove si fece riferimento ad una somma di L. cento milioni per la quale i due fratelli C. si chiesero perchè dovesse essere divisa anche con la famiglia di Alcamo. b) mancanza di motivazione con riguardo alla mancata eliminazione dell’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7: dal tenore della predetta conversazione si doveva escludere in modo categorico che la richiesta di denaro provenisse dall’associazione di Alcamo, ragione per cui andava eliminata l’aggravante con dichiarazione di non luogo a procedere per mancanza di querela per il reato di minaccia. c) mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti.

2.2 C.V. ha sviluppato due motivi di ricorso sovrapponibili a quelli del congiunto. Con il primo deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ed in particolare dell’art. 612 c.p., dovendo porsi mente al fatto che i dati probatori su cui si basa l’affermazione di colpevolezza consistono in colloqui, intercorsi tra Ba. e B. da un lato e C.V. dall’altro, in cui i primi due avrebbero chiesto, del tutto spontaneamente, a quest’ultimo consigli su come atteggiarsi a fronte di intimidazioni subite presso i loro esercizi commerciali. Pertanto, nel caso di specie sarebbe del tutto carente la progettazione di un male ingiusto, dipendente dalla volontà degli imputati; non solo, ma la condotta antecedente la desistenza volontaria affermata dalla cassazione, non sarebbe sussumibile in alcun ambito di illiceità.

Con un secondo motivo deduce erronea applicazione della legge penale in relazione alla L. n. 203 del 1991, art. 7, essendo non solo stata dimostrata l’assenza di qualsiasi legame del C. con Cosa nostra (estraneità affermata dalla sentenza della cassazione), ma sarebbe stato del tutto escluso l’utilizzo di metodi mafiosi nell’occasione delittuosa in oggetto. La richiesta di consiglio sul comportamento da tenere a seguito delle intimidazioni subite da B. e Ba. venne rivolta al C., in ragione del rapporto di amicizia che li legava, per capire da dove provenissero le intimidazioni. Esisteva poi agli atti un nutrito testimoniale che consegnava il C. come soggetto dedito a piccoli furti e spaccio di stupefacente; i tratti della sua condotta non potevano quindi essere ritenuti connotanti la dinamica mafiosa, ovvero significativi di agevolazione della consorteria, non potendo essere fondata la ricorrenza dell’aggravante in parola su una colpa di autore, legata al solo contesto in cui i fatti si svolgono. Viene quindi chiesto di escludere l’aggravante, con il che il fatto non risulta perseguibile per mancanza di querela.

Motivi della decisione

Il reato di minaccia aggravata ex L. n. 203 del 1991, art. 7, ritenuto dalla sentenza impugnata, risalente al marzo 2002, è estinto per prescrizione, essendo abbondantemente spirato il termini di anni sette e mesi sei e non ricorrendo sospensioni per periodi significativi. La disposizione che prevede il raddoppio dei termini per i reati di cui all’art. 51 c.p.p., commi 3 bis e 3 quater ( art. 157 c.p.p., comma 6) non è applicabile al caso di specie, in quanto entrata in vigore successivamente alla consumazione del fatto.

In presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nel caso in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile , così che la valutazione che deve essere operata appartenga più al concetto di "constatazione" nel senso di percezione ictu oculi, che non a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di approfondimento. Pertanto, non sono ritenuti rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla dichiarazione della causa estintiva che, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta , non può più essere ritardata (Sez. Un. 28.5.2009, n. 35490, Tettamanti) .

Nel caso di specie, il supporto offerto dalle risultanze delle intercettazioni su cui è stata basata l’affermazione di colpevolezza, quanto all’esercizio di forza intimidatoria sugli offesi con modalità tipiche del metodo mafioso, non consente l’applicazione dell’art. 129 c.p. ed impone di dichiarare estinto il reato.

Va aggiunto che il motivo dedotto da C.G. sulla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è stato avanzato genericamente in appello e dunque è ai limiti dell’ammissibilità, ma in ogni caso la motivazione, seppure non espressa, è agevolmente desumibile dell’argomentare della Corte territoriale che ha sottolineato i negativi dati di personalità dei due imputati, in espiazione di pena perpetua per gravissimo crimine.

Il ricorso va quindi rigettato nel resto.

La sentenza impugnata deve quindi essere parzialmente annullata, peraltro con rinvio non essendo possibile la rideterminazione della pena per i residui reati in materia di violazione della legge sulle armi.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata relativamente al reato di cui all’art. 612 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 perchè estinto per prescrizione. Rinvia ad altra sezione della corte d’Appello di Palermo per la rideterminazione della pena per i residui reati di violazione della legge sulle armi.

Rigetta nel resto il ricorso di C.G..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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