Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-06-2012, n. 9197

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.G. esponeva al Tribunale del lavoro di Agrigento di avere svolto attività lavorativa alle dipendenze della ditta VE.MI di Vella Giacchino dal gennaio 2006 al luglio del 2008 e chiedeva per tale rapporto il pagamento delle differenze retributive, del TFR, della 13, del lavoro straordinario, dell’indennità sostitutiva ferie, del preavviso e del risarcimento per il licenziamento intimatogli.

Ricostituiva il resistente contestando la fondatezza del ricorso.

Il Tribunale con sentenza n. 1008/2005 rigettava la domanda.

Avverso la detta sentenza interponeva appello il M. e la Corte di appello, con sentenza dell’8.10.2009, lo accoglieva (parzialmente) condannando la parte appellata al pagamento in favore di controparte delle somme di cui al dispositivo con accessori. Le pretese retributive venivano accolte con una riduzione del 20%, stante la mancata prova dell’applicabilità al rapporto del contratto collettivo richiamato nel ricorso introduttivo; così come venivano riconosciute (alla stregua di una consulenza tecnica contabile) le pretese per 13^, indennità sostituiva delle ferie non godute e trattamento di fine rapporto.

La Corte territoriale rilevava che dalle dichiarazioni rese dai testi L.V. e G. poteva ritenersi accertato che il M. avesse svolto attività di lavoro di natura subordinata per conto della ditta del V. in quanto aveva eseguito per tale ditta alcuni lavori osservando un orario fisso settimanale e seguendo le indicazioni ed istruzioni del V. impartite quotidianamente. Il L.V. (della cui attendibilità non era lecito dubitare in alcun modo) aveva precisato la misura delle retribuzioni percepite da lui stesso e dal M. ed aveva dichiarato che al ricorrente erano state concesse le ferie, anche se non erano state retribuite. Erano stati quindi provati gli elementi della quotidianità della prestazione, dell’osservanza di un orario di lavoro e della sottoposizione al potere gerarchico del datore di lavoro; appariva circostanza irrilevante che il ricorrente avesse riscosso alcuni compensi per il lavoro eseguito o acquistato alcuni materiali in quanto modalità esecutive di un accertato rapporto di lavoro subordinato. Come prima ricordato la Corte territoriale non ha riconosciuto alcune pretese in quanto non provate e ha ritenuto inapplicabile il CCNL in quanto tale, con una decurtazione delle richieste di natura retributiva dell’ordine del 20%.

Ricorre il V. con due motivi; resiste controparte con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., art. 228 c.p.c. e dell’art. 2733 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto controverso. Non si era considerata la confessione giudiziale spontanea resa dal sig. M. in sede di interrogatorio libero che aveva riconosciuto come propri alcuni promemoria di lavori, un elenco indirizzi clienti e un libro prima nota cassa che denotavano una organizzazione in proprio del M. che aveva una propria impresa e collaborava con la ditta VE.MI, gestendo in proprio il lavoro. Inoltre i buoni consegna erano stati firmati dal sig. M., il che confermava che lo stesso fruiva del credito che la VE.MI vantava presso i propri fornitori, ma che non era un dipendente. Le dichiarazioni confessorie rese dal M. dovevano ritenersi prevalenti (perchè spontaneamente e liberamente rese) su quanto emerso dalla prova testimoniale, i cui esiti erano molto incerti.

11 motivo appare infondato. Con tale motivo si muovono censure di merito alla motivazione della sentenza impugnata che mirano ad una rivalutazione del fatto, inammissibile in questa sede.

La Corte territoriale con una motivazione congrua e logicamente coerente ha riportato analiticamente le dichiarazioni di alcuni testi (dando atto che altri testi non hanno riferito niente di significativo) dalle quali emergono chiari ed univoci indici della natura subordinata del rapporto come l’esistenza di un orario di lavoro, l’eterodirezione della prestazione in quanto le istruzioni al ricorrente venivano impartite quotidianamente dal titolare della ditta, la continuità e quotidianità della detta prestazione lavorativa, l’esistenza di una retribuzione fissa, addirittura la concessione di un periodo di ferie, l’assenza di un rischio a carico del ricorrente. E’ emerso alla stregua delle ricordate dichiarazioni (soprattutto del teste L.V., collega del M.) il pieno assoggettamento del M. al potere organizzativo e direttivo esercitato dal V. in quanto titolare della ditta VE.MI.. Le circostanze ricordate nel motivo e relative ad una pretesa "confessione" da parte del M. sono già state esaminate dalla Corte territoriale che ha valutato irrilevante che il ricorrente in primo grado avesse ricorso alcuni compensi per lavori eseguiti o acquistato alcuni materiali in quanto si trattava di mere modalità esecutive di un rapporto certamente qualificabile come di lavoro subordinato ed insuscettibili di dimostrare l’assunzione da parte del ricorrente di un potere gestorio autonomo, neppure dedotto nella memoria di costituzione e nelle difese di prime cure. Si tratta anche su tale punto di una motivazione congrua e persuasiva, posto che la sentenza ha accertato con puntuali riferimenti alle risultanze istruttorie che i lavori erano eseguiti nell’interesse della ditta VE.MI., sotto la direzione del V. e con le modalità tipiche del lavoro subordinato tra cui l’osservanza di un orario, la corresponsione di una retribuzione fissa, l’osservanza di istruzioni impartite quotidianamente, il che esclude che il M. godesse di autonomia gestionale, peraltro puramente allegata nel motivo, ma senza riferimenti a specifici riscontri probatori.

Con il secondo motivo si deduce l’erronea e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il M. per sua stessa ammissione non era tenuto ad osservare alcun orario di lavoro e non era soggetto a direttive da parte del V., che all’epoca era un ragazzo.

Il motivo appare infondato essendo totalmente generico e muovendo censure di merito alle sentenza impugnata. L’allegazione secondo cui lo stesso M. avrebbe "confessato" di non osservare un orario di lavoro e di non essere soggetto a direttive non è comprovata da alcun riferimento letterale a tali pretese dichiarazioni; sul punto, come detto, la Corte territoriale ha dettagliatamente esaminato le dichiarazioni rese dal L.V., collega di lavoro del M., dalle quali emerge che vi era un orario di lavoro e che giornalmente venivano fornite istruzioni ai due lavoratori per conto della ditta.

La motivazione, come detto, appare congrua, logicamente coerente, con puntuali riferimenti a quanto è emerso dalla prove testimoniali, mentre le censure sono generiche e di mero fatto, come tali inammissibili in questa sede.

Si deve quindi rigettare il proposto ricorso: le spese di lite- liquidate come al dispositivo-seguono la soccombenza.

Ravvisa la Corte nelle difformi conclusioni delle decisioni di merito l’insussistenza dei presupposti della lite temeraria, all’applicazione (chiesta dal controricorrente) dell’art. 96 c.p.c..

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 50,00 per esborsi nonchè in Euro 3.000,00 per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2012

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