Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-10-2011) 24-11-2011, n. 43369

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa il 12.5.2010 la Corte d’appello di Perugia, in sede di rinvio dalla Suprema Corte, rigettava l’istanza di revisione formulata il 13.1.2006 da P.M., condannato all’ergastolo con isolamento diurno con sentenza della Corte d’assise di Salerno in data 15.1.1998, definitiva il 23.10.2002, perchè ritenuto colpevole del reato di omicidio aggravato in danno di C.P., commesso in (OMISSIS).

Questa Corte di legittimità aveva annullato il provvedimento della Corte d’appello di Roma che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di revisione sul rilievo che la fonte Mo., mandante dell’omicidio, non poteva essere ritenuta attendibile, perchè non avendo fatto parte del gruppo di fuoco poteva ignorare chi vi avesse partecipato e perchè non era obiettivamente riscontrabile : questa Corte ravvisava una illogicità di fondo del ragionamento in quanto non era plausibile che il mandante non conoscesse nel dettaglio le modalità dell’azione criminosa che aveva stimolato e apprezzava in termini di apoditticità l’assunto sulla mancanza di elementi dimostrativi, aggiungendo che entrambe le valutazioni costituivano anticipazioni di giudizio da demandare alla fase rescissoria, compiute senza contraddittorio.

La Corte territoriale di Perugia a cui gli atti erano trasmessi, all’esito di pubblica udienza, metteva in luce che dalla sentenza della Corte d’assise di Salerno emergeva che il P. era stato riconosciuto colpevole del grave delitto di sangue sulla base di un ricco flusso di informazioni provenienti dai collaboratori di giustizia: M.G., C.D. e D.L. G., che avevano ammesso di aver fatto parte del gruppo di fuoco unitamente al P.; N.C., che funse nell’occasione da avvistatore e indicò il P., oltre che come componente del commando, come partecipe a riunioni organizzative dell’attentato; A.C. che ammise le sue colpe come mandante dell’omicidio e ancora indicò il P. come uno degli esecutori; G.A. che, pur non avendo conoscenza diretta dell’omicidio, disse di aver appreso che il fatto di sangue era stato motivato dal fatto che il C. faceva parte del clan avverso a quello dei Moccia (clan Magliulo) e che la vittima era conosciuta all’interno del loro gruppo solo dal P. e da N.;

Ma.Co. che rappresentò di aver assistito alla partenza del gruppo di fuoco, a bordo di Fiat Croma, composto da M., D. L., C. ed un napoletano a lui sconosciuto; C. A. che aveva riferito di aver saputo da M., da C. e da D.L. che all’omicidio partecipò anche il P., che era l’unico che conosceva la vittima.

Risultava dagli atti del processo che Mo.An. aveva ammesso di essere stato il mandante dell’omicidio e di aver conosciuto dal M. la dinamica del fatto di sangue, ma che si era rifiutato di coinvolgere terze persone, o interferire sulle scelte di chi avesse negato la propria responsabilità. Il Mo., peraltro aveva avuto cura di dichiarare l’estraneità dall’omicidio di soggetti, quali R.V., R.S. e P.C., neppure imputati, ma non del P.. Quando però il Mo. venne assunto, il 13.7.2005, ex art. 391 bis c.p.p., dai difensori di quest’ultimo, confermò di aver commissionato l’omicidio del C. al M. ed al V., che il primo si assunse l’onere di organizzare l’omicidio, che non gli fece i nomi dei killers e che meno che meno gli fece il nome del P., persona che all’epoca non aveva mai conosciuto. Aggiungeva che quando seppe che questi era stato condannato era rimasto molto perplesso, in quanto riteneva impossibile la di lui partecipazione, perchè all’epoca del fatto il menzionato era troppo giovane per partecipare ad un’azione di simile efferatezza.

Tale contributo veniva ritenuto dalla Corte assolutamente insufficiente ad indebolire il solido quadro probatorio su cui la sentenza di condanna era stata fondata, in quanto il Mo. aveva sempre dichiarato di nulla aver saputo della composizione del gruppo di fuoco, la cui organizzazione era stata demandata al M..

Tali ultime rivelazioni non potevano neppure saldarsi, come suggerito dalla difesa, con le dichiarazioni testimoniali a suo tempo raccolte (dai testi P.A. e L.A.), secondo cui sarebbero state solo tre le persone sopraggiunte con la Fiat Croma sul luogo dell’agguato, avendo ritenuto i giudici del merito maggiormente attendibili in proposito le dichiarazioni dei correi.

Correi che era stato escluso si fossero condizionati l’uno con altro, atteso che il Ma. aveva fornito le sue dichiarazioni ben un anno prima rispetto agli altri, quindi in tempi non sospetti. Non poteva rilevare poi che il P. fosse stato accusato per altro omicidio da cui è stato prosciolto, poichè coloro che lo coinvolsero e che vennero ritenuti fonti di conoscenza inaffidabili, anche perchè de relato, erano soggetti diversi dagli attuali accusatori (ad eccezione di M. e C.), laddove invece i testi diretti sempre ebbero ad escludere la partecipazione del P. (che aveva un alibi al momento del delitto) all’omicidio in danno di tali D.M. e Co..

2. Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione la difesa dell’imputato per dedurre:

2.1 violazione art. 606 c.p.p., lett. e) per travisamento del fatto, avendo dato la Corte credito eccessivo alle dichiarazioni dei pentiti, senza vagliarne le incontestabili contraddizioni: la condanna oggetto di revisione si è erroneamente fondata sul presupposto che esistano sei chiamate in correità tutte convergenti sulla ricostruzione del fatto, contrariamente alla realtà processuale, atteso che il ricordo dei collaboranti si sarebbe presentato in molti passaggi confuso ed evanescente. Vengono elencati taluni di questi passaggi critici, a dimostrazione che le contraddizioni in cui i propalanti sono caduti minano la loro credibilità e dunque la loro valenza probatoria. Dette chiamate in correità non possedevano le caratteristiche necessaria per assumere valore di prova, poichè al P. non fecero alcun riferimento in sede di primo interrogatorio ed anzi lo chiamarono in causa anche per altro fatto, su cui intervenne sentenza di non luogo a procedere del gip di Salerno. In questo contesto equivoco, secondo la difesa, si inserisce la ricostruzione del Mo., confesso come mandante dell’omicidio, che ha escluso che il P. abbia fatto parte della squadra organizzata dal M.. A supportare poi la tesi che solo tre e non quattro persone siano stati i killer, concorrerebbero il dato balistico ed il dato testimoniale; ancora, il P. non risultava affiliato al clan del M., bensì a quello di C.F., ragione per cui , secondo la difesa, non essendovi alcun legame tra il ricorrente ed il gruppo camorristico del M. non vi era motivo che il P. partecipasse all’omicidio, organizzato con l’apporto degli uomini di questi.

Insiste quindi la difesa nel senso che le dichiarazioni del Mo. siano in grado di compromettere un quadro caratterizzato da lacune e contraddizioni che metterebbero in seria discussione la tenuta della sentenza di condanna.

2.2 violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per contraddittorietà della motivazione nella valutazione della forza probante delle prove nuove e sul valore demolitorio che hanno rispetto alle dichiarazioni accusatorie;

2.3 Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per manifesta illogicità della motivazione, per avere privato in modo acritico le nuove prove generiche e specifiche del loro valore probatorio;

2.4 violazione art. 630 c.p.p., lett. c), non avendo la Corte riconosciuto forza dirompente alle prove nuove, rispetto all’iniziale quadro acriticamente riprodotto. La sentenza si basa , a detta della difesa, sull’assunto errato che la prova nuova introdotta con il giudizio di revisione si risolverebbe in una serie di deduzioni elaborate dal Mo., inidonee a ribaltare la ricostruzione operata, laddove gli elementi nuovi andavano comparati a quelli già formati nel giudizio di cognizione, onde stabilirne l’idoneità rispetto alla emissione di una sentenza di proscioglimento in favore del condannato. Le dichiarazioni del Mo. e gli altri atti acquisiti erano tali da mettere in risalto le numerose contraddizioni emerse, dimostrando al di là di ogni ragionevole dubbio, l’estraneità del ricorrente al fatto delittuoso per cui è stato condannato. La sentenza assolutoria prodotta evidenzia come alcuni propalanti che hanno individuato in P. uno degli esecutori dell’omicidio C., lo abbiano poi falsamente accusato di altro omicidio, quello in danno di D.M.G. e C. R., verificatosi in (OMISSIS) il giorno (OMISSIS).

Tale dato minerebbe in maniera irreversibile la credibilità dei collaboratori di giustizia e farebbe trasparire l’intento calunniatorio ai danni del ricorrente. Le prove nuove dunque avevano la forza probante per portare a sostituire un accertamento di responsabilità penale con un giudizio favorevole al prevenuto, rappresentando un novum, sia sul piano logico che storico, che forniva riscontro a quanto a suo tempo rappresentato dai testi oculari.

2.5 Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. d) per mancata assunzione di prova decisiva;

2.6 violazione di legge processuale penale. La Corte d’appello avrebbe erroneamente rigettato l’istanza di confronto tra Mo. e Ma. formulata dal Procuratore Generale in udienza, prova che avrebbe potuto portare ad una diversa soluzione del processo, fornendo un apporto significativo in termini di accertamento della penale responsabilità del ricorrente.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

E’ principio consolidato che in tema di revisione le nuove prove dedotte debbono essere comparate con quelle già raccolte nel giudizio di cognizione, per giungere in una prospettiva complessiva ad una valutazione sulla loro attitudine a fare dichiarare l’assoluzione dell’istante. Su questa esatta linea si è mossa la Corte territoriale che ha compiutamente analizzato i nuovi contributi offerti dalla difesa del P., li ha soppesati nella loro intrinseca forza probante, per poi compararli al solido compendio probatorio sulla base del quale l’affermazione di colpevolezza era stata a suo tempo pronunciata. Il percorso seguito è giuridicamente corretto ed è stato informato a canoni di assoluta logicità di ragionamento, ragione per cui la decisione della Corte territoriale non merita alcuna censura.

Deve essere sgombrato il campo quanto alla asserita rilevanza del dato concernente l’assoluzione del P., nell’ambito di processo a carico di A.C. in cui venne accusato sulla base di propalazioni di altri due omicidi, utilizzato dalla difesa come elemento nuovo da cui inferire la inaffidabilità del dato rappresentativo ad opera di collaboranti e soprattutto la inattendibilità di due collaboranti le cui dichiarazioni costituiscono fonte di prova della colpevolezza del P. per l’omicidio C.. Infatti, come è stato evidenziato a pag. 16 della sentenza impugnata, coloro che accusarono direttamente l’imputato nel processo per l’omicidio D.M. – C. furono soggetti distinti dai collaboratori le cui dichiarazioni costituirono la base probante per la condanna in oggetto, laddove il M. ed il C. (soggetti propalanti nel processo che portò alla condanna del P. oggetto del giudizio di revisione) ebbero a rappresentare circostanze apprese nel circuito carcerario, riferite come tali, non avendo avuto conoscenza diretta dei fatti, mentre i due esecutori materiali dell’agguato a D.M. e C. ebbero sempre ad escludere la partecipazione del P.. Pertanto, bene ha fatto la Corte nel ritenere questa nuova prova del tutto priva di rilievo, certamente inidonea a scardinare l’intreccio di prove che hanno fondato la condanna del P. per l’omicidio C. e sicuramente priva dell’attitudine dimostrativa di intenti calunniatori perseguiti dal gruppo malavitoso che organizzò l’omicidio a danno del ricorrente. Sul punto nessuna carenza di illogicità o contraddittorietà della motivazione può essere ravvisata.

Detto ciò, occorre aggiungere che neppure la seconda prova nuova dedotta dal ricorrente appare idonea a scardinare il tessuto probante della condanna. Le dichiarazioni del Mo., riconosciuto quale mandante dell’omicidio C., raccolte a distanza di ben quattordici anni dal fatto sono state ritenute di scarsissimo valore probante per una serie di ragioni assolutamente plausibili e adeguatamente argomentate, nella corretta prospettiva che la prova nuova non solo deve essere affidabile ex se, ma deve avere persuasività e congruenza nel contesto già acquisito in sede di cognizione. La Corte territoriale ha dato atto che ad accusare il P. erano intervenute le dichiarazioni di tutti i componenti del gruppo di fuoco che organizzò l’agguato – M.G., C.D., D.L.G., N.C., tutti esecutori materiali e fonti dirette – di A.C. che operò come mandante, nonchè di Ma.Co. condannato per favoreggiamento nell’omicidio e che vide partire il gruppo di fuoco ed infine di C.A., fonte de relato; tutti costoro ebbero a consegnare alle carte processuali il dato significativo che il P. fu chiamato a comporre il gruppo di fuoco perchè conosceva personalmente la vittima, facente parte del clan avverso.

In questo articolato quadro probatorio, posto a fondamento della sentenza irrevocabile, è stata sottolineata la tardività del contributo del Mo. relativamente al P., atteso che nel corso del giudizio di primo grado, in cui ammise la sua responsabilità come mandante dell’omicidio, precisò di avere affidato al M. ed al V. l’organizzazione del crimine – che rientrava nella logica di risposta ad un’azione di sangue subita all’interno della compagine – ed ebbe cura di escludere il solo coinvolgimenti di soggetti, peraltro neppure imputati, quali R., R. e P., senza nulla dire del P. che era imputato e che venne condannato all’ergastolo. La sottovalutazione operata dal Mo. della posizione del coimputato P. non veniva ritenuta giustificabile dalla Corte territoriale, nei termini offerti dal Mo. stesso: costui infatti disse che il P. al momento del processo di primo grado era latitante, che egli Mo. non lo conosceva, che lo incontrò solo nel 2003 e che solo in questa occasione prese atto che il P. non faceva parte del commando, tanto più che all’epoca era troppo giovane per partecipare ad un’azione simile.

Il ragionamento condotto dalla Corte è ineccepibile, avendo fatto leva sul ritardo con cui Mo. pensò di offrire un contributo liberatorio nei confronti del P. (anno 2005, quindi due anni dopo che ebbe a conoscere di persona il P.), sul fatto che il Mo. all’epoca dei fatti aveva (OMISSIS) anni, età certamente matura nell’ambiente per poter partecipare ad azioni di sangue, sul fatto che nel processo di cognizione Mo. ebbe sempre a dire di aver commissionato l’agguato al M. e di non aver mai conosciuto i nomi dei componenti del gruppo. Detto ciò va aggiunto che è stato sottolineato come, nel corso dell’esame che la Corte ha condotto nel giudizio rescissorio, il Mo. dovette riconoscere che la mancata partecipazione del P. all’agguato era frutto di personali sue convinzioni, poichè successivamente al fatto il M. gli disse di aver operato con persone di sua fiducia, dal che egli ritenne che non fosse possibile che una persona di (OMISSIS), quindi di altro territorio, facesse parte del commando omicida in questione.

Non poteva quindi non esser rimarcata l’assoluta inconsistenza della nuova prova, per l’insufficienza della sua forza dimostrativa, non trattandosi di contributo frutto di conoscenza diretta, neppure di conoscenza de relato, ma di mera congettura personale. Questa valutazione assolutamente corretta sul valore aggiunto della nuova prova ha indotto la Corte a neppure valutare la proposta di confronto, considerato implicitamente assolutamente superfluo, avendosi riguardo ad un narrato (quello del Mo.) che nella scala del valore probante dei contributi rappresentativi si colloca come una grandezza non commensurabile rispetto alla fonte diretta M.G., le cui rivelazioni non possono non conservare forza dimostrativa anche all’esito delle ultime rivelazioni del Mo..

A diversa valutazione non si può giungere, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, neppure esasperando il dato processuale dell’incongruenza emersa tra le dichiarazioni dei collaboratori e quelle di due testimoni oculari del fatto di sangue ( P. e L.) che parlarono di tre e non di quattro uomini giunti a bordo di auto Fiat Croma sul luogo del fatto, dato che si sposa con quanto emerso in sede balistica, ove si accertò che furono tre le armi usate nell’occorso: in proposito è stato ricordato che i giudici di merito non si nascosero questa incongruenza e che la superarono, dando maggior credito agli esecutori materiali dell’omicidio che non ai testimoni, i quali peraltro non ebbero affatto ad escludere che sull’auto vi fosse stata una quarta persona, che verosimilmente si trattenne alla guida, per scappare una volta presi a bordo i tre sparatori.

Alla stregua di tali considerazioni il ricorso deve essere rigettato, così come richiesto dal Procuratore Generale, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *